Una «rivoluzione copemicana»: il nuovo ruolo europeo nel processo di pace
Troppo deboli e troppo snob, a detta di molti storici e politologi (dalla Kriegel a Salvadori a Fejto a Revel), gli europei occidentali sono destinati a fare una brutta fine. Nella migliore delle ipotesi a finire finlandizzati dall'Unione Sovietica ed a vivere in regime di libertà vigilata sotto l'occhio del Grande Fratello di Mosca.
Nella peggiore distrutti ed eliminati fisicamente in massa da un conflitto atomico limitato.
Ne «Le Syndrome Finlandais», pubblicato a Parigi alla fine dello scorso anno, Alain Mine profetizza che nel 2015 l'Europa sarà una Hong Kong su scala continentale: senza una propria identità politica ed alla mercè dell'Impero Sovietico, il quale vi garantirà la sopravvivenza del sistema capitalistico per il semplice fatto che, con il fallimento dell'economia centralizzata, solo un'isola di capitalismo può produrre la ricchezza necessaria a tenere in piedi un impero di dimensioni mondiali.
Prima vittima della grande strategia dell'Unione Sovietica, il Vecchio Continente ne diverrà il polmone economico.
Al di là di una previsione così catastrofica («meglio rossi che morti» a giudizio di taluni è un motto che non ha senso: arrivati ad un certo punto tutti gli europei sarebbero prima rossi e poi morti) che contributo potrà dare al mondo di domani la nostra civiltà?
Fino ad oggi siamo stati la posta in gioco nel confronto tra due potenze a noi legata culturalmente e, nel caso sovietico, anche qeoqraficamente, ma che con il passare del tempo ci divengono sempre più estranee.
E questo il presupposto che va rovesciato.
La pace è un problema che deve interessare gli europei prima di ogni altro popolo. Ma questo senza scadere nel pacifismo emotivo che va a tutto vantaggio di chi lo sa sfruttare per la propria propaganda.
Da oggetto, il vecchio continente ha il dovere di divenire soggetto attivo nella costruzione della pace. E una questione di vita o di morte, perché l'Europa sarebbe il primo campo di battaglia di un terzo conflitto mondiale.
Un conflitto che, affermava Einstein, difficilmente si può sapere con quali armi verrà combattuto. Mentre si può ben immaginare con quali verrà combattuto il quarto: l'ascia di pietra.
Ma condizione primaria di un maggiore ruolo europeo nella costruzione della pace è l'unità. Ed al momento è difficile pensare che questa sarà mai realizzata a colpi di discussioni sulla pianificazione economica, il planning, le eccedenze di latte, burro, i problemi della melanzana.
I tre campi, è stato scritto, in cui deve primeggiare una potenza per essere tra le prime al mondo sono quello ideologico, quello militare e quello economico. Nessuno al momento riesce ad avere l'egemonia in tutti. Ma l'Europa non ha una posizione di spicco in nessuno.
Per poterla ottenere, occorre l'unità. Senza di questa non è possibile pensare ad uno spostamento di ruolo da oggetto a soggetto della politica internazionale. Vale a dire quella operazione che in campo gnoseologico Kant amava definire «rivoluzione copernicana». Una espressione poi abusata, ma che in questa prospettiva riprende tutta la sua originaria validità.



















































