L'arma della pace è la politica
«Puoi strappare tutti i fiori, ma non puoi impedire che la primavera ritorni». Su questa breve frase del grande poeta e leader politico africano Scenghor è contenuta la novità e la radicalità della domanda di pace dell'uomo contemporaneo.
Ormai per parlare di pace ci vorrebbero dei confronti personali di ore o lo scambio di veri e propri volumi dattiloscritti, tante ormai sono le informazioni a nostra disposizione. Altrettante radicate sono, per altro, le convinzioni reciproche e le pregiudiziali ideologiche. L'elemento politico qualificante sul tema «pace-pacifismo» è questo: in esso vengono al pettine i nodi più importanti dell attuale crisi dei rapporti internazionali non solo sotto il profilo politico-militare, ma anche sotto quello economico-sociale. C'è poi anche un altro elemento che rende indispensabile affrontare con la più grande serietà questo tema: il suo carattere di ineludibile provocazione ad una presa di posizione che coinvolge i valori fondamentali del p_roprio essere uomini nella storia. E questo indiscutibile carattere di radicalità esistenziale che ha dato al dibattito sulla pace toni anche emotivi del tutto particolari che invitano ad una ulteriore riflessione.
Utopia e ideale storico concreto
Mi pare opportuno discutendo di pace introdurre una celebre distinzione maritainiana fra «utopia e ideale storico concreto». «Un'utopia è proprio un modello da realizzare come termine e come punto di riposo ed è irrealizzabile. Un ideale storico concreto è un'immagine dinamica da realizzare come movimento e come linea di forza, ed è a questo titolo che è realizzabile» (Umanesimo integrale pag. 277). La citazione rimanda infatti a due modelli di prassi fra loro assai diversi. L'uomo dell'utopia è colui che vede nell'azione il mezzo di traduzione immediata del suo ideale di società. La contingenza, cioè il particolare strutturarsi della situazione storica, gioca per lui un ruolo del tutto accessorio: se incontra opposizione non ritiene opportuno scendere a compromessi di sorta, né valutare dialetticamente la sua posizione nella collettività. Egli rifiuta insomma il confronto come ricerca di paradigmi comuni di razionalità. Gli altri sono soggetti da «convertire», non partners di un necessario dialogo. E l'interpretazione utopica della politica che può aprire talvolta la strada all'accettazione dell'uso della violenza, alla rivoluzione come catarsi e instaurazione di un ordine nuovo.
Diversa è l'impostazione dell'uomo che persegue la realizzazione di un ideale storico concreto. La politica non può essere per lui che un esercizio continuo e spesso sofferto della «mediazione», sia dell'ideale con le sue condizioni reali di possibilità, sia fra le diverse esperienze e i diversi modelli interpretativi che insistono sullo stesso orizzonte storico. C'è, in altri termini, lo sforzo di cogliere nel presente le tensioni che possono preludere ad un certo futuro anzichè ad un altro, ciò insomma che va sotto il nome di coscienza storica come coscienza del proprio essere nella storia. Nella storia, dunque nella contingenza.
Anche a proposito della pace c'è il rischio di sostituire l'utopia all'ideale storico concreto, cioè al problema politico di mediare la volontà di pace con le condizioni storiche in atto.
Si potrebbe infatti essere tentati di dire che l'impegno per la pace non è subordinabile a condizionamento di nessun tipo. Esso ha il valore di una «testimonianza assoluta» e dunque tutto ciò che può in qualche modo diventare strumento di guerra, a sempre e comunque rigettato. Va detto tuttavia, che si tratta di una posizione che ha un vero e proprio significato «profetico», specie dal punto di vista cristiano: il regno di Dio è sicuramente un regno senza missili. Tuttavia non si può non domandarsi se questa fondamentale Yalenza ideale dell'impegno per la pace non sia di per sè insufficiente a garantire un corretto esercizio dell'altrettanto irrinunciabile responsabilità storica di fronte al problema. Un esempio può aiutare a chiarire il significato di questa affermazione: è più che legittimo condannare l'aborto in nome della dignità assoluta della persona umana, ma diventa assai discutibile farlo e ignorare allo stesso tempo le ragioni che rendono difficili la realizzazione politica di questo principio. In altri termini: per proporre un valore assoluto come fine dell'etica e della politica. è indispensabile tener conto anche delle condizioni di possibilità storiche, e dunque contingenti e mutevoli. della sua realizzazione.
E questo non per togliere assolutezza al Yalore ma per renderlo storicamente proponibile. Altrimenti si rischia di parlare non di politica, ma di utopia. non di risvegliare lo spirito profetico. ma il profetismo.
La pace come ideale storico concreto impone la continua verifica razionale del valore con i fatti. E qui non si intende la ragione come facoltà delle idee «chiare e distinte», bensì come elemento problematizzante, come disponibilità a porre ed a porsi sempre in discussione, a vedere la realtà non solo come vorremmo che fosse, ma anche come essa è, per evitare che la anticipazione non riflessiva dell'ideale determini risultati opposti a quelli desiderati. Dal grande dibattito sulla pace si ha spesso l'impressione che la grande assente sia appunto la politica. Essa è certamente assente in quanti pretendono l'ideale subito, tutto. qui ed ora. senza preoccuparsi della situazione reale degli effettivi rapporti di forza in gioco. Ma la politica, almeno nel suo significato di ricerca di un ideale storico concreto, rischia di rimanere assente anche in quanti intendono proporsi come interpreti razionali del loro tempo, ritenendo che il riarmo sia in fondo il male minore, il modo per ridurre le occasioni, o forse sarebbe meglio dire le tentazioni di guerra. Questa posizione è infatti continuamente sottoposta al rischio di adagiarsi nella mera difesa della falsa pace della non-belligeranza. Questo dimostra quanto sia in effetti riduttivo affrontare il problema della pace nei termini di una alternativa secca: missili sì o missili no. Quella della politica è la strada più difficile proprio perché vuol mediare quanto sembra spesso non mediabile: il valore con i fatti, l'assoluto con il contingente, sottoponendo quotidianamente l'ideale ad un bagno di umiltà nella storia.
La «novità» della pace fra i giovani
La discussione, per essere davvero proficua, va riportata entro i suoi giusti binari: non esistono pacifisti e non pacifisti, ma soltanto strade diverse che mirano al conseguimento del medesimo obiettivo. E una verità fin troppo banale ma fin troppo dimenticata.
È vero semmai che il pacifismo non basta, che senza politica non è possibile la pace, che «etica senza politica è altrettanto pericolosa come politica senza etica», che non basta marciare e che la grande ricchezza morale, creativa di energia e mobilitazione di gruppi spontanei delle associazioni, e persino degli ordini religiosi, debbono uscire dalla sola, pur indispensabile protesta profetica, emotiva-coscienziale, e collegarsi con la politica. Il radicali mo evangelico in altre parole, come in qualche caso può accadere, non può ignorare, per incidere efficacemente e divenire protagonista attivo nella battaglia per la pace la complessità, il dato strutturale del sistema politico ed economico diplomatico: la complessità delle interdipendenze politiche ed economiche internazionali, la realtà dei rapporti concreti nord sud, la corruzione e l'intreccio con le politiche imperialiste USA e URSS di molte classi dirigenti di paesi del terzo e quarto mondo.
Dunque impegno politico, gradualità, pazienza, cultura istituzionale, fantasia ed immaginazione politica e diplomatica, chiarezza di progettualità e di linea in una dimensione necessariamente internazionale, tenace battaglia per il ritorno di autorevolezza delle istituzioni e delle autorità internazionali e delle sedi negoziali.
Senza però vanificare e depotenziare gli obblighi di fedeltà evangelica nella pur necessaria traduzione laica.
C'è una nuova consapevolezza politico-culturale nelle nuove generazioni di oggi: il diritto di vivere, il diritto ad una vita dignitosa e libera dall'incubo nucleare. Questa nuova consapevolezza porta con sè una ambiguità: se la voglia di vivere si riduce ad una piatta sopravvivenza si finisce nel vicolo cieco del «meglio rossiche morti». Ma se la voglia di vivere è ricerca di una vita piena di senso è tentativo di realizzarsi come persona e voler cambiare il mondo attorno a noi allora questa nuova coscienza diviene un piccolo segno di speranza fra le macerie di un mondo che muore. Il movimento per la pace cerca di dare voce ad una rivolta etica ad un bisogno di futuro in un mondo ridotto a presente. Un movimento che fatica a liberarsi dalle pastoie ideologiche, dalle ingerenze di partito che sempre rischiano di ingabbiarlo, di renderlo innocuo ed evanescente. Gesti, linguaggi, comportamenti di pace sono difficili da esprimere perché siamo intrisi di una cultura politica che ha mutuato concetti, parole, comportamenti dal contesto militare.
L'impegno per la pace per un cristiano non è facoltativo ma doveroso. La domanda di pace ci interpella e ci scuote. La minaccia nucleare si presenta infatti come una radicale ribellione al disegno creatore di Dio.
Costruire una cultura di pace
Costruire una cultura di pace significa ritessere i fili della speranza: speranza che le cose possano cambiare, speranza che scopriremo il mistero della vita, speranza che riusciremo ad uscire dalla nostra solitudine, speranza che gli imperi all'Est e all'Ovest non saranno eterni. Non una cultura di pace che si esaurisce in un viscerale neutralismo, in una difesa pura e semplice; non una cultura di pace che si riduce ad una cultura di opposizione, per cui l'impegno per la pace si esaurisce nell'andare contro il proprio governo; ma una cultura di pace come terreno di incontro di tutte le culture che condannano le guerre e le armi ritenendole non un destino obbligato dell'umanità ma una proiezione esterna del conflitto le cui radici covano nel cuore dell'uomo, un prodotto delle brame di ricchezze e del potere. Una vera cultura di pace affonda le sue radici in una promozione del dialogo e in una ricerca di giustizia.
Diventa attuale e pungente la frase di Emmanuel Mounier: «La pace non è una condizione debole; è la condizione che domanda agli individui il massimo di spoliazione di sforzo, di impegno, di rischio».
Di «spoliazione» da tutti gli idoli che ci costruiamo, quando anziché invocare Dio, diciamo continuamente Dio, di «sforzo» perché la pace non è paciosa. È scomoda, è difficile. Non è mai scontata, è sempre una meta. Una meta, non un miraggio perché «la pace è possibile». Di «impegno» perché a ciascuno è chiesto di rispondere a questa premessa di Dio, a questa sfida che ci provoca continuamente a scegliere tra un disegno di morte ed uno di vita e di sviluppo. Di «rischio» perché fare la pace è un mestiere tutt'altro che facile e privo di sofferenza. Per fare la Pace serve una grande fiducia nell'uomo, in ogni uomo e in tutti gli uomini. La pace si afferma e si realizza solo quando si spera e si agisce perché l'avversario di ieri sia l'interlocutore di oggi e possa divenire l'amico di domani.



















































