Presentando il nostro secondo festival nazionale, il GIO BOAT, avevamo parlato di grande avventura, di una scommessa fatta con noi stessi, di un atto di coraggio per dimostrare che parlare di pace, oggi, è ancora concretamente possibile. Tracciando un primo sommario bilancio di quello che il GIÒ 2 è stato, credo si possa dire che gli obiettivi che ci eravamo prefissi siano stati raggiunti. Siamo stati insieme otto giorni, abbiamo discusso, ci siamo confrontati, abbiamo incontrato uomini e personalità che non è retorico definire «protagonisti del nostro tempo»: a tutti abbiamo dimostrato la volontà e, vorrei dire, la capacità dei giovani dc di «ragionare di politica».
Quando immaginammo il GIÒ 2, con questa formula, quando cominciammo ad organizzare quello che poi avremmo chiamato «itinerario terra mare dei giovani dc per la pace» eravamo chiaramente consapevoli che qualcuno, più o meno in buona fede, avrebbe potuto parlare di concessioni al gusto dell'effimero o di cedimenti alla politica spettacolo.
L'andamento di tutta la manifestazione, il programma intenso dei lavori, la larghissima partecipazione registrata e i vasti consensi espressi anche da osservatori esterni e dalla gran parte della stampa nazionale, hanno confutato ogni dubbio al riguardo.
Anche la scelta dell'Achille Lauro che all'inizio aveva destato in qualcuno qualche perplessità, intendeva rispondere, come nei fatti è poi stato, ad una esigenza precisa ed alla volontà di proporre un gesto di riconciliazione proprio la dove era stato consumato un efferato delitto contro la pace.
Ebbene tutto questo è emerso chiaramente: il GIÒ 2 si è rivelato un grande fatto politico, un segno concreto di pace contro la rassegnazione, la passività, l'apatia di chi considera la costruzione della pace, di una nuova civiltà dell'amore come qualche cosa di lontano, di impossibile da realizzare.
Certo la strada della costruzione di nuovi modelli di convivenza tra gli uomini è una strada lunga e difficile, ma che va affrontata con coraggio e con una nuova consapevolezza, la consapevolezza che la pace nasce prima di tutto da un cuore nuovo, nasce cioè da una conversione profonda della persona nei suoi affetti, nelle sue ansie, nelle sue speranze, nei suoi progetti, nel profondo della sua coscienza.
Se questo è vero, allora, le speranze di ieri diventano le certezze di oggi: la «Pacem in terris» di papa Giovanni XXIII rimane viva nei nostri cuori, la «Nuova frontiera» di Kennedy non è più indecifrabile, il «Sogno» di M. L. King non è più solo utopia, la «Speranza» di La Pira non è più solo una scintilla astratta.
Con la nostra festa crediamo di aver dimostrato che è possibile reimmettere nel «circuito umano» la tolleranza, la voglia di utopia, la forza della fiducia, la volontà di un concreto operare per la pace che, si badi bene, non può essere più considerata solo un beneficio o una concessione ma diventa un vero e proprio diritto dell'uomo.
Gli ultimi avvenimenti internazionali, il fallimento del super-vertice di Reykjavik hanno dimostrato come sia difficile trovare una risposta al problema della pace; soluzioni che spesso, purtroppo, passano lontano da noi, al di sopra delle nostre teste, affidate alle decisioni di un pugno di uomini, quelli che ai giornali piace chiamare «i grandi».
Ma la storia siamo noi, diceva De Gregari in una sua canzone. Così i grandi siamo noi, noi che sogniamo un mondo di pace, noi che speriamo in un futuro di pace, noi che vogliamo e crediamo in una nuova civiltà della pace e per questo oggi, in tanti ci battiamo.


















































