Pace e riarmo: quando la soluzione diventa il problema
Sul n. 9-12 di «Ricerca», il quindicinale della FUCI, troviamo due interventi sul tema del riarmo: «Per una critica della cultura strategica», di Pierpaolo Pignocchino e «Pace e potere: le regole del gioco» di Giorgio Armillei.
Quest'ultimo ha un taglio più politico, il primo di cui ci occuperemo brevemente, presenta un'impostazione più «culturale». Già il titolo può suscitare un interrogativo: che cos'è la «ragione strategica?» Pignocchino a questo proposito parte dalla considerazione della sfasatura tra una realtà (quella nucleare) già da quarant'anni «preoccupante» e un'opinione pubblica solo da qualche anno (e forse ancora non adeguatamente) «preoccupata». La responsabilità di questo stato di cose è da attribuirsi in misura non irrilevante a quella che può essere definita come «ragione strategica», cioè una ragione che, «a tavolino», sono l'alibi della progettazione di lungo periodo, finisce con perdere il livello della «realtà» dei problemi, avvitandosi inconsapevolmente (e, si badi bene, puntellata da una coerente sequenza razionale) lungo il crinale rischiosissimo della irrealtà, che nel nostro caso è il baratro nucleare. Il fatto è che «la soluzione» è pian piano divenuta «il problema»: il principio della deterrenza reciproca «ha portato ad installare sempre più missili in sempre più pani del mondo, finché ad un certo punto la gente non si è accorta che la presunta soluzione era diventata un problema di gravità pari – se non maggiore – al problema originario. Che, cioè. la minaccia costituita dai «troppi» missili era forse maggiore della minaccia costituita dai «troppi pochi» missili.
Questo è il circolo vizioso della «ragione strategica», da cui non si esce se non con una rifondazione complessiva della «cultura della pace», che non si riduce al problema missilistico (in quanto «l'installazione dei missili è un effetto della assenza di pace, e non viceversa») ma, implica una definizione «in positivo» della pace, che non è solo l'assenza di guerra ma è anche un modo esigente di affrontare il problema della libertà, della giustizia e della partecipazione democratica (e non solo la libertà, la giustizia, la partecipazione democratica delle altre società, ma anche quelle delle democrazie occidentali).
E per Pignocchino su questo terreno non è esauriente né l'apporto delle istituzioni politiche (che offrono «le maggiori delusioni»), ma neppure quello dei movimenti pacifisti, i quali, per quanto portatori di tensioni etiche da condividersi, tuttavia non si sono posti col dovuto rigore il problema della giustizia nazionale e internazionale, e hanno scontato più in generale l'ambiguità di «non infrequente tentativo di comprendere il concreto impegno storico in un orizzonte di valori "puro" e globale, che rischia non soltanto di lasciare al di fuori l'inquietudine di una ricerca indispensabile per comprendere anche gli aspetti più aspri e difficili della situazione reale, ma anche di escludere da questa ricerca coloro che sono portatori di valori diversi, forse più incerti la non per questo trascurabili o addirittura inaccettabili».
Insomma, la pace è, ancora una volta, una questione «complessa e complessiva».


















































