Quante armi made in Italy? Ancora top-secret
L'Italia è una delle prime produttrici mondiali di armi. L'industria bellica del nostro Paese·ha conosciuto negli anni una rapida escalation, che l'ha portata ha coprire l'intera gamma degli armamenti convenzionali. Pistole, fucili, mitra; navi, aerei, elicotteri, mezzi corazzati. Ci manca solo il nucleare. E dal momento che non tutti questi arnesi ci servono, ne esportiamo in abbondanza.
Qualche tempo fa giornalisti stranieri commentarono ironicamente la partecipazione dell'Italia al vertice dei sette paesi più industrializzati del mondo. Ebbene se si tenesse un vertice dei sette paesi che esportano più armi, l'Italia vi parteciperebbe di diritto, e non sarebbe nemmeno all'ultimo posto della lista. Nel 1984, infatti, dopo Usa e Urss, che dominano dall'alto questa speciale classifica, troviamo Francia e Gran Bretagna, Italia, Cina e Germania Federale, tutte più o meno sullo stesso livello (i dati nonsono ufficiali, e sono il frutto di pazienti ricerche condotte da alcuni istituti internazionali - come lo svedese SIPRI e lo statunitense ACA - e per l'ltalia l'«Archivio disarmo»). Queste sette grandi e medie potenze dt,tengono il 92 per cento del commercio mondiale di armi, per un giro d'affari che ha superato, nel 1982, i cinquantamila miliardi di lire. Si tratta di un commercio che ha una sola direzione: dal nord al sud del mondo; dai paesi industrializzati a quelli sottosviluppati.
Il «segreto militare» che copre questo tipo di traffici, provoca infatti una situazione contraddittoria, in base alla quale l'esportazionedi armi dall'Italia è equiparata a quella dei pomodori e noccioline, non è cioè soggetta a nessun controllo di tipo politico, diplomatico o giuridico, ma non è nemmeno conoscibile nella sua entità, perché il segreto militare impedisce che alla fine dell'anno si sappia quante armi abbiamoesportatoe in quali paesi, mentre le statistiche ufficiali ce lo dicono per le noccioline e per i pomodori.
Top secret dunque. Come per Bobo Merenda, il personaggio di quella canzone di Jannacci (censuratissima nell'Italia del bum bum bum) al quale avevano detto che «quelle strane uova con leali di metallosono roba per bambini, da avvitare e svitare. Meglio non parlare, meglio». Fino a che del povero Bobo non rimase che una lente a contatto. E «del lavoro di Bobo mai più si parlò».
Di questi tempi «esplosivi» si è tornato invece a parlare a Roma nel convegno sui «Mercanti della morte: il traffico d'armi dalla clandestinità alla regolamentazione», organizzato dalle ACLI e da altri gruppi cattolici: Missione oggi, Mani tese, Pax Christi, Mlal e Gruppo Abele. In particolare il mondo del volontariato che svolge un'attiva opera nei paesi in via di sviluppo, si interroga davanti a questo atteggiamento schizofrenico dell'Italia, che da un lato è uno dei paesi che stanzia più risorse per la cooperazione e l'aiuto allo sviluppo (fino a prevedere con la legge 73 uno strumento straosrdinario per l'aiuto d'emergenza conto la fame), e dall'altro manda - direttamente o indirettamente - armi a volontà, che alimentano guerre e guerriglie e sono indiscutibilmente un fattore destabilizzante e un grave ostacolo allo sviluppo.
Vincendo le resistenze di potenti lobbies il Parlamento si sta occupando del problema; ma il disegno di legge governativo, che pure si pone finalmente il problema di una qualche regolamentazione, non è soddisfacente, e anche ampi settori della maggioranza si stanno adoperando per migliorarlo. Il convegno romano ha voluto essere soprattutto un momento di riflessione attiva, in grado di formulare proposte concrete per il miglioramento del disegno di legge, e per ricondurre il commercio di armi sotto la sovranità del governo e del Parlamento italiano.
Due in particolare i punti ritenuti inammissibili. Il primo riguarda il segreto militare, che rimarrebbe a coprire i traffici anche nella bozza di disegno di legge. Vienechiestoinveceche ilsegreto copra soltanto, ove necessario, i settori che riguardano la difesa del nostro Paese.
Altro punto da cambiare. Citiamo dal documento conclusivo del convegno: «ci accorgiamo con molta amarezza che i relatori della Commissione Difesa ed Esteri della camera hanno riaffermato che il commercio delle armi deve restare sostanzialmente legato alle direttive del commercio con l'estero. Diversamente, secondo noi, deve trovare collocazioni nell'ambito di azioni e linee di politica estera».
«Se commerciare armi è un'operazione economica come tutte le altre - prosegue il documento finale - i popoli della terra sono costretti a pagare due volte, con la fame e con la guerra, gli interessi dell'industria bellica dei paesi del Nord».
Dal cardinale Carlo Maria Martini, dal vescovo di Udine mons. Battisti e da mons.Bettazzi, vescovo di Ivrea, cheha aperto venerdì 11 i lavori del convegno, è venuta la considerazione che ci troviamo di fronte a un problema nonsolo politico, ma anche religioso; a un fenomeno che non può non turbare la coscienza dei cristiani. Anche a Loreto fu indicata la lotta al commercio delle armi come uno dei campi di impegno per i cattolici nella società.
Ma vediamo in dettaglio, grazie alla documentazione fornita dall'Archivio disarmo, le dimensioni dell'industria bellica italiana. Si tratta di un settore che conta oltre ottantamila dipendenti, e che copre il 2,5 per cento dell'intero fatturato del settore dell'industria manifatturiera. Eugenio Melandri, direttore di «Missione oggi», scrive nell'editoriale del numero che la rivista missionaria ha dedicato interamente al mercato delle armi, che il valore dell'export italiano di armamenti è stato, nel 1983 di 4.400 miliardi di lire. Le autorità italiane hanno però rilasciato licenze per soli 1.600 miliardi. Il resto fa partedi un traffico clandestino, ma tollerato.
Le aziende sono circa trecento. «Esistono - fa notare Maurizio Simoncelli, dell'Archivio disarmo - tre grandi poli: due pubblici e uno privato». L'industria a partecipazione statale copre circa il sessanta per cento della produzione nazionale, I duegrandi concentramenti fanno capo all'IRI (Aeritalia, Selenia, cantieri navali riuniti)e all'EFIM (Augusta, Breda, Siai Marchetti). Fra le industrie private spicca la Fiat, che è presente con partecipazione in molte aziende del settore.
Il grande «boom» dell'industria militare italiana si colloca fra il 1973 e il 1978. Poi c'è stato un lievocalo, dovuto alla riduzione della domanda di armi e all'aggravarsi del divario nord-sud, che ha reso proibitivi i prezzi delle armi. Giancarlo Graziola, docente alla cattolica .di Milano, considera questo un ottimo· momento per avviare una seria riconsiderazione della politica italiana.
«Ciò presuppone scelte su quanto importare, su quanto produrre e suquanto esportare». Scelte che non debbono avvenire in base ad uncriterio meramente economicistico, ma dovrebbero essere determinate da una politica estera ed una politica di difesa coordinate. «Il controllo delle esportazioni - aggiunge Graziola - non può essere disgiunto da una seria politica di riconversione dell'industria militare in civile».
Proprioquestoè il punto: ledimensioni dell'industria militare italiana devono spingere chi la combatte a trovare soluzioni alternative, soprattutto dal punto di vista occupazionale. Gli esperti parlano di riconversione. Una riconversione che riporti gradualmente le aziende dalla produzione militare a quella civile.
D'altra parte il «boom» commerciale delle armi negli anni 70 ha anche contribuito alla diffusione del progresso tecnologico. Lo scopo di una riforma non dovrebbe essere quello di eliminare la produzione di armi, ma di volgerla ove possibile a fini pacifici. Gran parte delleesportazioni italiane riguardavano velivoli (aerei ed elicotteri) e morovedette. Strumenti cioè non· esclusivamente utilizzabili in guerra. Pensiamo per esempio al ruolo che hanno avuto durante l'estate gli aerei militari per lo spegnimento di incendi, e per il trasporto d'acqua in genere.
La richiesta che il mondo del volontariato, che opera nei paesi in via di sviluppo, avanza alle autorità italiane, è che la nostra tecnologia, le nostre industrie, siano messe al servizio del progresso civile delle regioni meno favorite. Non più carri armati, ma camion; non più mitra e fucili, ma strade e silos.
In attesa di avviare un serio processo di riconversione - bloccando prima di tutto la riconversione alla rovescia: dal civile al militare - è opportuno che una nuova legge dia delle norme inequivocabili sul commercio delle armi. Soprattutto che ci sia un controllo sulla destinazione di queste armi.
Il segreto militare - che il disegno di legge governativo non sopprime né riduce - è infatti una comoda copertura per realizzare operazioni di cuisi vergognano anche paesicomela Svizzera, che in tema di soldi non vanno troppo per il sottile. L'Italia vende (direttamente o indirettamente) armi al Sudafrica, a Iran e Iraq in guerra tra loro (e quante opere civili costruite da italiani sono dist tte in quella guerra!), alla Siria, alla Bolivia (quando era retta da una feroce dittatura) e al Paraguay, al Libano, alla Libia.
La nuova legge - fa notare Falco Accame - allarga addirittura l'area coperta dal segreto militare: lo estendeall'invio nel Terzo mondodi «personale istruttore».
Così nel mondo - commenta amaramente Accame - non solo si spara italiano, ma si insegna anche a sparare italiano».
Il convegno organizzato dalle associazioni e dai gruppi cattolici ha dato delle risposte chiare ai tentativi di insabbiare le proposte di normativa. E in tutte le forze politiche c'è la volontà di far cessare quella che è una vergogna nazionale, e che alcuni ritengono un vanto. All'inizio del Seicento Jacopo Soldani, poetae scienziato amicodi Galileo, così descrisse un mercante di morte: «Io stiracchiai le leggi, e là le torsi/ Ove pendeva il peso a' miei 'nteressi/ E inverso quelli senza freno corsi:/ Esaltai l'empio, e l'innocente oppressi».
A noi la risposta dei democratici e degli uomini di pace.
Documento del convegno delle ACLI
Presentiamo due passi del documento finale del convegno organizzalo a Roma dalle ACL/ e dalle associazioni cattoliche di volontariato: «Chiediamo al Parlamento di dare una risposta concreta a questi problemi attraverso una legge che recepisca i seguenti punti:
- riconduzione del commercio delle armi nell'ambito della politica estera e sotto diretta responsabilità del Governo. Poiché questa attività è riconducibile agli accordi intergovernativi di assistenza militare, è necessario il pieno rispetto dell'art. 70 della Costituzione;
- previsione di un effettivo controllo parlamentare sulla materia ed eliminazione dei livelli di segretezza che impediscono la possibilità di valutare la conformità delle autorizzazioni rilasciate con i principi contenuti nella legge;
- definizione precisa deicasi di divieto di esportazione dellearmi, tutti in conformità agli atti e trattati internazionali, e divieto di esportazione ai paesi belligeranti e ai regimi dittatoriali;
- previsione di effettivi incentivi alla conversione dell'industria bellica;
- sanzioni effettive nei confronti dei responsabili del commercio clandestino di armi e nei casi di violazione delle norme di legge, in particolare delle garanzie sull'uso finale;
- divieto di autorizzare il pagamento di compensi di mediazione per la stipula di contratti».
«Abbiamo scelto alcune proposte che ci ripromettiamo di approfondire:
- costituire con apposita legge un Fondo Nazionale di Riconversione per le aziende che producono materiale bellicoe disponganounaloro riconversione produttiva al civile;
- valutare /'opportunità di una IVA straordinaria, superiore a quella dei beni di lusso, sulle transazioni di armi prevedendone il reinvestimentoin progetti di sviluppo nel P.VS.;
- studiare la riconversione della produzione industriale in funzione dei grandi bisogni della moltitudine di poveri del P.V.S.;
- progettare un Ministero «nuovo» per la pace e la giustizia internazionale, che agisca per armonizzare le principali componenti della pace in positivo: il disarmo, la cooperazione allosviluppo, la promozione e latutela dei diritti umani;
- costituire un Fondo di Solidarietà peri lavoratori di fabbriche di armi che intendessero fare obiezione;
- indire una conferenza stampa periodica perinformare sulla produzione ed esportazione di armi italiane.
Ci impegnamo infine a far pressione sui parlamentari delle nostre circoscrizioni e in Parlamento perché si impegnino a «conquistare a l'Italia, entro il 1985 una disciplina legislativa ferrea capace di scoraggiare o per lo meno di controllare questo immondo commercio di morte».
Incominciamo inviando a ciascuno il risultato di questo nostro convegno e chiedendogli una risposta personale. Ci lasciamo in amicizia per la pace di Cristo e degli uominini.»



















