Le guerre con il veleno
La consapevolezza che le armi chimiche non debbano rientrare in quel codice non scritto che è il codice d'onore bellico è antica: già i Romani coniarono il motto «Armis bella non venenis geri» (la guerra si fa con le armi non con i veleni), che censurava come particolarmente odioso e scorretto l'uso delle armi chimiche dell'epoca. Col passare dei secoli e l'evolversi delle tecnologie, si fa strada – con fatica – la convinzione che anche nelle guerre, manifestazione patologica delle relazioni interpersonali e interstatuali, debbano valere alcune regole del gioco riguardanti la protezione dei civili, il trattamento dei prigionieri, i mezzi, i metodi di guerra ecc. Nel 1874 vennero stabiliti a Bruxelles due principi, poi divenuti consuetudine, che vietavano, il primo, l'uso di armi capaci di infliggere sofferenze superflue (pallottole dum-dum ad esempio), il secondo, lo sfruttamento di armi il cui uso o la cui natura si rivelasse indiscriminato nei confronti di civili e militari. Le armi chimiche – com'è evidente – ricadevano sotto entrambi i divieti, ma questo non impedì che nella prima guerra mondiale, venissero usate ben 125.000 tonnellate di cloro ad uso asfissiante che provocarono oltre 1 milione di feriti e 100.000 morti (di cui 5.000 italiani sul fronte dell'Isonzo).
Finalmente nel 1925 si giunse a Ginevra alla stipula di una Convenzione internazionale, che rimane a tutt'oggi, nonostante una nuova Convenzione in argomento delle Nazioni Unite del 1971, lo strumento pattizio più importante. Se è vero che la Convenzione in questione è stata ratificata da quasi tutti gli Stati e che essa, al contrario di altri trattati, si occupa di armi «importanti», molto limitata è stata fino ad oggi la sua attuazione: la Convenzione vieta solo il first use, ma non la rappresaglia, non proibisce la fabbricazione e lo stoccaggio di armi chimiche, non prevede purtroppo alcuno strumento di garanzia e di controllo.
Le armi chimiche non sono state usate nella seconda guerra mondiale, ma sono tornate più volte alla ribalta in questi ultimi decenni.
Le armi anti-vegetazione, i defolianti come il napalm, utili per fare terra bruciata attorno al nemico, devastando nascondigli e raccolti, sono state usate quasi esclusivamente dagli Stati Uniti in Indocina e Vietman. Le armi antiuomo sono invece state utilizzate – e non casualmente – in tre tipi di conflitti: guerre di repressione (l'Italia in Etiopia nel '36, il Giappone in Manciuria nel '37, l'URSS in Afganistan), guerre Nord-Sud (e le due categorie spesso coincidono) (ad esempio la Francia in Algeria), guerre tra paesi del Terzo mondo (l'Egitto in Yemen, Iran e Iraq tuttora) e infatti, a questo proposito, le armi chimiche sono chiamate anche il «nucleare dei poveri».
In questa cornice si inserisce la sofferta decisione presa dal Consiglio della NATO a maggio scorso di riprendere negli Stati Uniti la produzione di armi chimiche - che era stata interrotta su ordine di Nixon - al fine di fronteggiare lo squilibrio esistente tra la dotazione chimica occidentale (45.000 t) e quella sovietica (700.000 t). Di fronte al no della Grecia e dell'Olanda, al «ni» della Danimarca e della Norvegia, e all'ambigua e francamente meschina risposta del nostro governo, che ha dato parere favorevole, a condizione che le nuove armi chimiche venissero localizzate in Germania o in altri paesi ma non in Italia, riteniamo utile fare alcune riflessioni chiare, e ad alta voce.
-
- Il primo rischio da evitare – così come per il nucleare – è innanzitutto la proliferazione. Il segretario dell'ONU U Thant nel 1969 esprimeva preoccupazione per il fatto che già 3 Stati disponevano di armi chimiche «in notevole quantità». Quegli Stati sono diventati oggi 15.
- Bisogna assolutamente controllare la ricerca in questo settore, poiché esso rischia di dare risultati inarrestabili. Oggi si fa uso di armi «binarie», cioé di neurotossici stabili e di facile impiego, poiché si tratta di aggressivi risultanti dall'emissione separata di due sostanze, ciascuna delle quali è, da sola, inerte e non tossica. Questo dato rende assai problematico il controllo internazionale al punto che larga parte del partito democratico negli USA ha contestato le stime riguardanti l'URSS fornite dal Pentagono per la impossibilità di valutare – anche approssimativamente – la produzione da parte dell'industria chimica civile di sostanze in grado di divenire poi composti per un'arma binaria, e ritiene che il riarmo chimico sia una pazzia imposta dal cosiddetto «complesso militar-industriale». Si stanno poi studiando armi con e(fetti allucinogeni e depressivi, e addirittura armi «etnocide», capaci cioé di uccidere un ceppo etnico invece che un altro sulla base di alcune caratteristiche genetiche peculiari o altre differenziazioni del DNA. Se queste ricerche entrassero in una fase operativa, molti stati potrebbero essere interessati ad usare armi chimiche «pulite» «non indiscriminate» ritenendole «vantaggiose».
- Le armi chimiche sono chiaramente armi «offensive» poiché giocano sul fattore sorpresa, su un nemico non equipaggiato. Esse hanno un rapporto fra vittime militari e vittime civili di 1 a 20, più alto addirittura delle armi nucleari. Proporne un uso difensivo da parte della Nato è demagogico e sbagliato per almeno due motivi: l'avversario che le ha già usate per primo si attenderà una reazione analoga, e si equipaggerà opportunamente; e inoltre la NATO ha più volte reso noto che, in caso di attacco chimico massiccio da parte sovietica (attacco dunque con armi proibite) essa si sentirebbe autorizzata a rispondere proporzionalmente con armi nucleari (gli effetti sono realmente analoghi). In nessun modo dunque sentiamo il bisogno di aggiungere un deterrente chimico a quello nucleare.
In conclusione, più volte come giovani DC abbiamo affermato che tra la reale politica del riarmismo a oltranza e il disarmo unilaterale del «meglio rossi che morti» esistono ampie zone di negoziato entro cui muoversi; il riarmo chimico della NATO ci sembra un caso di eccesso di real politik, il modo di stare nell'alleanza Atlantica mostrato dal nostro paese in questa circostanza è stato quanto meno «provinciale»; andrebbero invece valutate con attenzione le proposte della SPD tedesca di creare prima un «chemical freeze», un congelamento degli attuali livelli di dotazione chimica, per arrivare in breve tempo ad una «chemical weapon free zone» in Europa Centrale (Belgio, Olanda, Lussemburgo, RFT, RDT, Polonia, Cecoslovacchia, più eventuali altri Stati), in cui oggi sono dislocate la maggior parte delle armi chimiche, con successivi rigorosi controlli nazionali e internazionali.
Molti di noi hanno valutato con attenzione l'installazione degli euromissili e la logica della deterrenza, convinti che, pur nella prospettiva di lavoro per una pace autentica, tali scelte fossero, nell'attuale scenario geopolitico, anche «giustificabili» con quel codice d'onore bellico a cui abbiamo fatto riferimento all'inizio. Ogni ipotesi di riarmo chimico ci appare oggi e domani palesemente contraria a quel codice.











