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Un quadro delle trattative fra USA e URSS," dopo il vertice di Reykjavik: «... a tre passi da un accordo storico», l'occidente ha il dovere di sfruttare questa occasione per riaffermare le nuove basi di una pacifica convivenza internazionale.

Il diario delle posizioni negoziali tenute dalle superpotenze nell'ultimo anno, nel dopo Ginevra è troppo complesso; la cronaca del summit di Reykjavik è invece già nota dai giornali: la casa dei fantasmi, il cerimoniale, le 22 ore di negoziato dell'ultima drammatica giornata, la «dolce Raisa», la provocatoria presenza di Daniloff; eppure questo summit islandese è stato «terribilmente importante e proficuo, fuori dagli schemi e dai riti delle buone intenzioni.

Una prima considerazione generale di metodo, o meglio di costume politico: ciascuno di noi è consapevole che, nell'epoca attuale, ogni processo decisionale, sia esso industriale, partitico o politico è frutto del lavoro d'equipe, e che il «decision makern è sempre più il portavoce, l'esponente di uno staff; eppure, mai come in questo vertice, le speranze, le attese, le attenzioni del mondo si sono personalizzate, rivolte cioé ai due leaders, alle loro parole, all'espressione dei volti, quasi a confermare la dipendenza del mondo dalle sorti del dialogo fra le due superpotenze; il motto «extra ecclesiam nulla salus» sembra ancora oggi valido. La valutazione dei risultati del summit è invece aperta, apertissima, e proprio sui risultati vorrei lanciare alcuni temi di riflessione.

Autonomia negoziale o indipendenza?

Reykjavik ha riproposto il problema, già sorto a Ginevra, dell'autonomia o della interdipendenza tra i tavoli del negoziato: Mosca propone quello che gli inglesi chiamano «package deal», un complesso di proposte cioé, ciascuna delle quali dipende dalle altre; l'insuccesso di una è l'insuccesso di tutte; Washington cerca invece il massimo vantaggio da ciascuno dei tavoli, pronta a fissare gli eventuali risultati favorevoli di anche uno solo dei temi da negoziare. La rottura sulla SDI dà ora gioco a Gorbaciov che può accusare gli Stati Uniti di fronte all'opinione pubblica di non aver «colto una occasione storica» di accordo globale per eccesso di rigidità. La disponibilità mostrata nel dopo-vertice dal capo dei negoziatori sovietici Karpov nell'accordarsi su un solo tema, quello degli euromissili, rappresenterebbe – se si traducesse concretamente – un secondo successo diplomatico per Mosca, una prova ulteriore di buona volontà, e avrebbe serie ripercussioni, che vedremo dopo, sulla trattativa relativa alla SDI.

Euromissili sette ani dopo

Sugli euromissili i due grandi hanno raggiunto il più vicino punto di convergenza mai registrato dopo la decisione NATO del '79 di installare i Pershing e i Cruise per replicare all'installazione unilaterale sovietica degli SS20. Non siamo proprio all'«opzione zero», ma i l 00 vettori per parte del quasi-accordo di Reykjavik sarebbero un livello assai vicino ai 75 che Kvitsinski e Nitze stabilirono nella celebre «passeggiata nel bosco» del 16 luglio '82, poi sconfessati dai rispettivi governi, e che sembrava ormai un traguardo mitico.

Molte pregiudiziali sarebbero cadute: il conteggio del deterrente anglo-francese, la distinzione tra SS20 europei ed asiatici; ancora qualche problema invece sui missili sovietici a corto raggio installati in Cecoslovacchia e Germania Democratica.

Certo è che l'eliminazione di gran parte degli euromissili appare una prospettiva assai ghiotta per tutti quei governi che, dopo aver richiesto in sede NATO l'installazione di Pershing e Cruise, si erano trovati in difficoltà estrema nei confronti dell'opinione pubblica guidata dalle due grandi ondate pacifiste dell'80 e dell' '83, e che oggi potrebbero dimostrare a buon diritto che quel riarmo provvisorio serviva, assai più del disarmismo unilaterale, a ottenere il vero disarmo bilaterale bilanciato, e non copriva intenzioni aggressive. Una conferma tardiva della cosiddetta «pace a muso duro».

Missili strategici

Anche sui missili strategici sono stati fatti passi da gigante: l'Unione Sovietica ha smesso di considerare «strategici» tutti i missili in grado di colpire il suo territorio, il ché comportava fino ad oggi un doppio conteggio per i missili di teatro europei. Le due potenze, riprendendo l'ambiziosissimo progetto di smantellamento totale del nucleare militare in quattro tappe di cinque anni, esposto nel gennaio-febbraio di quest'anno, ridurrebbero del 50% i vettori strategici nei prossimi cinque anni e li eliminerebbero del tutto nei cinque successivi. Non sembra, peraltro, che siano emersi contrasti su un altro tema che bloccava la trattativa in questo settore: la diversa dislocazione cioé dei missili (aerei, silos sotterraneo, sommergibile) che comportava, a parità di valore «strategico» un diverso grado di vulnerabilità e di precisione.

Due annosa questioni: diritti umani e conflitti regionali

Il tema dei diritti umani e dei conflitti regionali che Shultz indicava al primo e secondo punto dell'agenda dei lavori, non sembra sia stato trattato, o almeno, è stato trattato in modo puramente marginale. La qual cosa ci potrebbe anche non turbare più di tanto, se ci fosse davvero la possibilità di rifondare l'equilibrio di convivenza tra le due superpotenze sulle basi sopra esposte. In un mondo gradualmente ma intelligentemente disarmato, sarebbe o sarà più facile trovare un codice di comportamento per impostare la risoluzione di questi due problemi.

I testi nuclieari

Dopo la moratoria unilaterale sovietica di otto mesi, per due volte riconfermata, le due potenze si sarebbero accordate nel ridurre progressivamente in quantità e potenza i tests atomici. L'offensiva diplomatica di Gorbaciov sembra qui aver raggiunto un notevole risultato.

Guerre stellari: una vittoria di Pirro

La SDI, come si sa, è stato il motivo di frattura: c'era accordo sui tempi della moratoria, ma non sulle modalità; l'URSS accettava, cosa che non aveva fatto prima, la prosecuzione della ricerca in laboratorio ma non il collaudo degli esperimenti.

Su questo tema si impongono alcune riflessioni: innanzitutto, i negoziatori americani devono essere più convincenti quando affermano la necessità dello scudo anche dopo l'eventuale raggiungimento di un accordo globale; le perplessità espresse sulla utilizzazione dello scudo in un mondo senza missili sono tutt'altro che peregrine.

In secondo luogo, si è molto parlato sul ruolo dell'Europa; io credo fermamente che sia necessaria una maggior chiarezza dei partners europei all'interno dell'alleanza atlantica sullo scudo spaziale, soprattutto ora che esso rischia di essere il punto di scontro, l'unico ormai, tra USA e URSS. Il dibattito in Europa e in Italia soprattutto è stato carente; le motivazioni pro o contro paurosamente superficiali rispetto ai dati che si conoscevano; l'adesione di chi ha aderito è stata tiepida, più tiepida ancora degli euromissili; anche le semplice adesione alla ricerca, soluzione adottata fra gli altri da Italia e Germania, non sembra più oggi così pagante: il quotidiano Express di Colonia rivelò il 18 aprile scorso il contenuto, unanimemente ritenuto assai deludente, dell'accordo-quadro tra USA e Germania Federale, e, purtroppo, l'accordo tra Italia e Stati Uniti siglato a Washington il 19 settembre sembra essere stato ripreso da quello tedesco. Gli stessi 300 miliardi in commesse tecniche per le industrie italiane, livello massimo degli stanziamenti previsti dal Pentagono se tutti i progetti italiani divenissero operativi, appaiono cifra ben misera se si pensa che l'assistenza sanitaria nazionale è costata nel 1986 43.200 miliardi. Altri rilievi critici sotto il profilo tecnico, militare e politico, erano stati da me esposti nell'articolo comparsi su Nuova Politica tra il dicembre '85 e il gennaio '86 con il titolo «Da Hiroshima a Ginevra: quarant'anni tra rischio atomico e negoziati».

Alcune conclusioni provvisorie

In sintesi, molti ostacoli sono caduti nel dialogo tra le due superpotenze: l'Europa può sfruttare il miglioramento del clima internazionale per inserirsi nel negoziato, operando innanzitutto con definitiva chiarezza importanti scelte strategiche sulla SDI, interessando poi un dialogo con le componenti moderate . del nutrito staff presidenziale americano, le cosiddette «colombe».

Si è detto che Gorbaciov ha un bisogno disperato di una tregua internazionale, per il ritardo tecnologico accumulato, ma soprattutto per proseguire il progetto di rinnovamento interno; solo per questo nell'ultimo anno avrebbe operato rinunce negoziali, impressionanti per chi conosce i tempi della diplomazia sovietica e i principi della sua logica internazionale, facendo cioé di necessità virtù; tutto questo è forse vero. Ma se è vero, l'Occidente ha il dovere di sfruttare questa occasione

non per riaffermare effimere e pericolose superiorità, ma per porre le nuove basi di una pacifica convivenza internazionale, nella prospettiva della sconsolata frase di un negoziatore di Reykjavik «Eravamo a tre passi da un accordo storico».

Come giovani dc abbiamo accettato laicamente quella che Aron chiamava «pace del terrore», persuasi dal sereno giudizio storico che essa ha garantito, pur con un odioso ricatto, un periodo di pace lunghissimo, difficile da ritrovare nella storia moderna. Il nostro impegno oggi sta quindi nel promuovere una pace, che se proprio deve essere «del terrore», almeno deve esserlo al più basso livello nucleare possibile, poiché – questo sì – non è più ammissibile che una deterrenza nucleare maniacalmente sovradimensionata bruci quelle ricchezze che potrebbero strappare alle sofferenze e alla morte per fame quegli essere che non sanno che cosa sia né un missile, né un negoziato, né una vita umana appena decente.

Perché il sacrosanto realismo della politica non calpesti almeno gli elementari imperativi della coscienza.

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