Un anno dopo il vertice tra Reagan e Gorbaciov resta aperto il dialogo
Ventuno novembre 1985: con una stretta di mano ed una risata cordiale i due uomini più potenti della terra, Ronald Reagan e Mikhail Gorbaciov, concludono quello che dovrebbe essere secondo le aspettative solo il primo di una lunga serie di incontri al vertice.
Il prossimo, si sussurra, si terrà entro il settembre del 1986 a Washington.
Così desidera Reagan, che in testa tra l'altro ha anche le elezioni di metà mandato che potrebbero regalargli un congresso più disponibile. Così desidera Gorbaciov, da poco tempo alla guida del Cremlino e molto interessato ad un dialogo costruttivo con l'altra superpotenza per avviare, dopo l'imminente congresso del PCUS, le riforme economiche di cui il suo paese ha bisogno.
In realtà buona parte delle attese create quel giorno, le più emotive almeno, sono andate deluse.
Gorbaciov, nonostante l'offensiva delle proposte a ripetizione per l'eliminazione di tutti gli armamenti nucleari entro il duemila e il simultaneo ritiro degli eserciti della NATO e del Patto di Varsavia dal territorio europeo ha visto la sua credibilità ed il suo potere interno incrinarsi pericolosamente dopo il lungo silenzio all'indomani di Chernobyl.
Reagan ha annunciato l'abbandono dei trattati Salt-11 ed ABM e non sembra intenzionato più di tanto, almeno a parole, a concedere alcunché sulla iniziativa di difesa strategica.
Le «guerre stellari» sono il vero nodo della questione: Regan le vuole perché capaci di rendere i missili obsoleti. Gorbaciov le teme perché sa che dovrebbe sottoporre l'economia nazionale ad uno sforzo proibitivo per tornare alla pari.
Momenti di acuta tensione specialmente all'inizio dell'anno: la guerra delle spie (l'espulsione reciproca di personale diplomatico dalle capitali e dalla sede dell'Onu a New York), la decisione, poi rientrata, dei sovietici di sospendere la moratoria unilaterale degli esperimenti atomici, la minicrisi di Berlino (da sempre barometro della tensione internazionale), sui passaporti che le autorità del settore orientale della città pretendevano dai diplomatici occidentali al momento di passare la linea divisoria tra l'est e l'ovest.
«Slow, slow, quick, quick, slow uphill to the summit» ha intitolato a luglio l'«Economist» per indicare il passo incerto e da valzer che l'inquilino della Casa Bianca e il numero uno del Cremlino usano per avvicinarsi alla data del vertice.
Ma questo non toglie che rispetto alla fine degli anni '70, con l'America ancora paralizzata dalla sindrome
del Vietnam e l'Unione Sovietica da una leadership sclerotica a tutti gli effetti, la situazione sia sostanzialmente mutata.
Gorbaciov usa toni da distensione quando parla dell'Afghanistan, dei rapporti con la Cina. Regan fa lo stesso (dopo averla definita per anni «l'impero del male») con l'altra superpotenza. Le aperture seppur timide, quando si esce da un periodo che è stato definito una seconda guerra fredda contano più del momentaneo irrigidirsi di uno dei due protagonisti del dialogo, che oltre alle esigenze della pace e della stabilità devono necessariamente tenere presenti anche quelle degli equilibri interni dei rispettivi paesi. Reagan ha la sua nuova destra ed i falchi del Pentagono a cui rendere conto, lo stesso deve fare Gorbaciov con l'esercito e la vecchia guardia brezhneviana sconfitta ma ancora capace di pericolosi colpi di coda.
Per calcolo o per ideale, resta comunque la pace a venire fuori dal dialogo est-ovest.




















































