Il dibattito sulla «Nuova cristianità» maritainiana: da ricostruire o perduta per sempre?
Il 1986 è l'anno del 500 di «Umanesimo integrale», l'opera di Jacques Maritain che costituì il principale quadro teorico di riferimento per un'intera generazione di cattolici europei, quella che partecipò alla ricostru)ione (non solo economica e sociale) del dopoguerra. Negli ultimi mesi si è quindi riaperto un dibattito su questa grande opera di pensiero politico, e in particolare sull'assunto che ne costituisce l'obiettivo-proposta riassuntivo: la «nuova cristianità». Per il filosofo francese alla vecchia e non resuscitabile «cristianità» medioevale si è sostituito, come riferimento dell'azione temporale (e in particolare politica) dei cattolici, un nuovo «progetto storico concreto» (si badi bene) di cristianità, intesa come «un certo regime comune temporale le cui strutture recano, a gradi e secondo modi del resto molto variabili, l'impronta della concezione cristiana della vita»; con la precisazione, però, che se c'è «una sola verità religiosa integrale» e una sola chiesa cattolica, nondimeno «possono aversi alcune civiltà cristiane, alcune cristianità diverse» (J. Maritain, Umanesimo Integrale, Boria, p. 171; l'opera uscì però a Parigi nel 1936). Uno degli autori che maggiormente sono intervenuti nel dibattito sulla riproponibilità 50 anni dopo di queste posizioni è senza dubbio Vittorio Possenti (v. ad esempio Verso una nuova cristianità, in «Aggiornamenti sociali» n. 7-8/86, e L'idea di una cristianità nuova, in «la Discussione» n. 19/86).
In questa sede vorremmo però segnalare di questo autore un altro saggio (Nuova cristianità: perduta per sempre o da ritrovare? in «Per la filosofia» n. 5, Ed. Massimo), in cui egli prende le mosse dalla critica ad un fortunatissimo libro di Pietro Scoppola, La nuova cristianità perduta (Ed. Studium, Roma 1985). Le tesi di questo libro sono molto note: «Per una paradossale eterogenesi dei fini, mentre i cattolici (negli anni'40 e '50, n.d.t.) si scontravano nelle piazze con la presenza comunista, considerata il pericolo maggiore per la fede degli italiani, o contestavano nello Stato i residui spazi del laicismo risorgimentale, il nemico vero è venuto alle spalle, silenzioso e a lungo inavvertito, nelle forme della società consumistica, destinata a corrodere in profondità la fede del popolo italiano». Per Scoppola quindi si tratta di passare dalla «cultura del progetto» alla «cultura dei comportamenti», nel senso che i cristiani devono affidare la loro testimonianza più che a disegni compiuti o a progetti organici, ad un'azione storica incentrata su coerenti «atteggiamenti interiori» e su «una spiritualità più profonda», una «spiritualità della tenda», cioè da stagione di «esodo», di crisi, come è quella attuale.
La critica di Possenti è duplice e speculare: investe l'analisi dello storico romano, a suo avviso troppo sbilanciata verso chiavi storicistiche ed economicistiche, e troppo poco orientata ad una riflessione filosofica e ideale, che renderebbe meglio il vero «spessore» della crisi di questo quarantennio di vita democratica; e investe simmetricamente la proposta scoppoliana, in quanto per originare la secolarizzazione ci vuole qualcosa di più della «cultura dei comportamenti». Ad una analisi e ad una proposta (giudicaté insufficenti perché) «deboli», viene contrapposta quindi una analisi della crisi e una proposta «forti»: riscoperta del pensiero metafisico, rilancio della «cultura del progetto» e riproposizione della «nuova cristianità», equazione civiltà umana – civiltà cristiana (e viceversa), rinnovamento civile attraverso e grazie al rinnovamento religioso.
Ora, il dibattito tra le due «culture» suddette è tutt'altro che semplificabile, specie in una sede «riassuntiva» come questa. Osserverei però, in riferimento a Possenti, che la «cultura dei comportamenti» non è un empirico maquillage storicistico e non si priva, tra l'altro, di una dimensione di vasto respiro («l'emergere del primato dei comportamenti – scrive Scoppola – non esclude uno sforzo di progettualità che rimane necessario come espressione della razionalità umana nella vita individuale come in quella collettiva»); che una consolidata opinione vede nei testi conciliari (Gaudium et Spese Apostolicam Actuositatem) le fonti che hanno affossato la tradizionale «cultura del progetto» cattolica, in nome di elementi di laicità e storicità; che nell'opera maritainiana è indiscutibile uno svilu-ppo con i testi successivi (soprattutto Cristianesimo e democrazia e L'uomo e lo stato), al punto che un altro studioso maritainiano, Roberto Papini, ha parlato di passaggio nel filosofo francese dalla «nuova cristianità» alla «democrazia compiuta» (v. P. Vanzan, Maritain e Mounier in Italia, in «Civiltà Cattolica» n. 3265, pp. 45-47); che è opinabile, come Possenti stesso afferma, la identificazione di «nuova cristianità» e «città dell'uomo».
Sempre su queste tematiche, ma più specificamente riguardo al futuro del cristianesimo, si è svolto un altro «confronto a distanza». L'editoriale del n. 3263 di «Civiltà cattolica» (Il futuro del cristianesimo) concludeva: «Un'epoca del cristianesimo – quella della "cristianità" – sta per conchiudersi definitivamente e non è umanamente prevedibile·una sua rinascita. Nello stesso tempo, però, si deve ribadire con forza che la fine della cristianità non è la fine del cristianesimo: muoiono certe forme in cui questo si era storicamente incarnato, ma non muore il cristianesimo». Anzi, proprio l'aver preso il cristianesimo le distanze da ogni «cristianità» può garantire ad esso un futuro di vitalità e prosperità, in forza di una purificazione e di una maggiore profeticità. Su questo non è d'accordo il filosofo Augusto Del Noce, che interviene con un articolo dal titolo già molto esplicito (Cristianità e precipizio, «Il Sabato» n. 30/86). La prospèttiva di Del Noce, molto rigida a differenza di quella sottilmente argomentata di Possenti, prevede un rilancio del progetto di «cristianità» (che «non è opzionale» per un credente) che prescinde da qualunque «distinguo». Basti citare due passaggi: «fine ultimo dell'azione politica- non può non essere, per i cattolici, che informar-eil regime temporale alla concezione cristiana della vita, nei termini dinanzi citati di Maritain» (ma era, si badi bene, il Maritain del 1936, già diverso da quello del '43 o del '51); «non ha senso parlare, in termini rigorosi di un'autonomia dell'arte, che non può essere che religiosa o del tutto areligiosa, esplicitamente anti-teista».
Si potrebbero obiettare a Del Noce diverse cose, e tutte di decisiva importanza rispetto a certe scorciatoie integralistiche: ad esempio, la «legittima autonomia della realtà terrena» (Gaudium et Spes, n. 36), per cui «le cose create e le .stesse società hanno leggi e valori propri» (tra queste, ci sono senz'altro la politica, lo stato, l'economia, la stessa filosofia); oppure il fatto che fine dell'azione politica del cristiano non è la promozione di «realtà» ed «esperienze» (vocabolo ciellino) cristiane ma la costruzione del «bene comune» (Gaudium et Spes, n. 74) cui partecipano non solo i credenti, e non in posizione di supremazia; o, ancora, che il compito di ricostruire un tessuto etico e di contrastate il nichilismo non può essere prerogativa dei soli cattolici, ma di tutti gli «uomini di buona volontà», come afferma in più punti il Concilio.






