L'Europa dei padri fondatori
Le iniziative per l'unificazione dell'Europa, soprattutto nella mente dei Schuman, De Gasperi ed Adenauer, danno l'avvio al processo comunitario, le mete a cui tendere sono indicate con estrema chiarezza: la creazione di alcune solidarietà di fatto è solo la «prima tappa della Federazione europea» il cui obiettivo ultimo è il «mantenimento della pace mondiale». In coerenza con questa concezione e con questi obiettivi essenzialmente politici, le forze che, purtroppo in soli sei paesi e con l'opposizione delle sinistre, avevano promosso la prima comunità, si impegnarono subito dopo strenuamente per realizzare il nucleo politico più importante di una siffatta costruzione europea: la politica comunitaria di difesa. I democratici cristiani, avendo nel 1954 la maggioranza assoluta nell'assemblea parlamentare comune, fecero inoltre approvare la costituzione di una commissione speciale per la preparazione di un trattato per l'Unione e per nuove istituzioni, che presieduta da Von Brentano, costituisce un precedente storico singolare dell'iniziativa assunta da Spinelli nel primo par- lamento europeo eletto.
Purtroppo la modificazione di taluni essenziali equilibri politici europei, soprattutto in Francia, con Mendès France prima e con De Gaulle poi, oltre a fare naufragare ogni iniziativa di costruzione politica, obbliga tutti ad un ripiegamento su una linea prevalentemente economica e, attraverso l'introduzione del diritto di veto col cosiddetto compromesso del Lussemburgo, anche sul terreno istituzionale.
Non è quindi esatta la tesi sostenuta ancora recentemente da Enzo Bettiza, che la scelta della via economica per la costruzione europea fu anche il risultato di un incontro marxista, e quindi economicistico, presente nel pensiero di Schuman, De Gasperi ed Adenauer e degli altri pionieri.
Lo sviluppo della costruzione comunitaria fu pertanto duramente vulnerata sia sul piano della sua concezione come su quello delle sue istituzioni (il parlamento europeo avrebbe dovuto essere eletto direttamente già nel 1960) da forze politiche contrarie al rafforzamento della comunità. Alternando periodi di grande sviluppo economico ed anche politico (come nel caso della cooperazione internazionale con il terzo mondo, di cui resta emblematica la Convenzione di Lomè) con periodi di grigiore, aggravati dopo il 1973 dall'avanzare della recessione internazionale, l'Europa è infine arrivata ad una situazione di stallo e di autentica crisi da cui non può uscire che sciogliendo i nodi fondamentali: l'adeguamento della sua costruzione sul piano politico e l'evoluzione democratica delle sue istituzioni di governo e parlamentari.
Per noi, giovani dc, premono alcune altre èonsiderazioni di ordine politico e culturale che cerco di passare in sintesi. Innanzitutto una rapida considerazione: l'attuale difficile fase del processo d'integrazi-one Europea ed il ritmo assolutamente insoddisfacente col quale la Comunità europea affronta i numerosi e gravi problemi che si pongono al suo interno e nel contesto internazionale, contribuiscono a rendere sempre più attuale e çieterminante la ricerca di un'adeguata risposta all'interrogativo: perché i cittadini europei si interessano così poco dei problemi europei e perché essi, di conseguenza, appaiono così poco impegnati nello stimolare decisivi progressi sulla via dell'unificazione politica e non solo economica? Il problema delle ragioni per le quali le generazioni più giovani sembrano in gran parte manifestare un'attenzione del tutto marginale a questi temi, può considerarsi compreso in questo più ampio quesito. Non si vuole affrontare il problema se i giovani costituiscono o meno una categoria a parte, ben definibile con caratteristiche proprie o se vi sia piuttosto un modo particolare di vedere e valutare problemi che sono in realtà comuni alle altre generazioni. È certo comunque che le istituzioni europee, i contenuti delle loro attività e il significato stesso della comunità sono considerati con occhi e sensibilità nettamente diversi secondo l'età e le diverse esperienze. Tutto ciò, credo, risponde ad una logica evidente.
Chi per esempio, ha già compiuto i cinquant'anni di età è rimasto fortemente toccato dagli avvenimenti che hanno accompagnato la sua adolescenza e il suo ingresso nella vita adulta: la grande strage del conflitto mondiale, l'urto frontale tra dittatura e democrazia, il mutamento radicale intervenuto nell'equilibrio mondiale dalla fine della guerra. Era dinanzi a quella generazione la testimonianza incontestabile delle conseguenze tragiche delle contrapposizioni e delle rivalità tra i paesi europei. L'intelletto e il cuore reagivano quasi automaticamente individuando in un processo di unificazione e di messa in comune di risorse di potenzialità,
con istituzioni adeguate, la chiave di soluzione dei problemi, tra loro profondamente connessi, di una pacifica convivenza e del processo economico dei popoli europei. Si fece quindi strada, nel primo dopoguerra, un «europeismo diffuso», che trovò i suoi essenziali punti di riferimento e di guida ideologica e politica nei quadri dell'«europeismo organizzato», espressi in primo luogo dai movimenti federalisti e provenienti da varie forze politiche sociali e culturali. I giovani furono allora numerosi nella prima e nella seconda categoria di europeisti: il loro ruolo fu particolarmente attivo nella seconda.
E oggi? Qual è per esempio, la presenza attuale dei giovani nei movimenti federalisti e il loro impegno di altre forme e modalità di impegno politico e europeista? Va tenuto comunque presente che il movimento federalista rimane in complesso un movimento di quadri, di elites molto attive ma con strutture e presenze capillari non certo paragonabili a quelle dei partiti, dei sindacati e di altre organizzazioni di massa. Questa caratteristica è inevitabile in chi assume deliberatamente un ruolo di avanguardia.
Un fatto appare in tutta la sua chiarezza ed evidenza: il tema europeo gode di sempre minore risonanza nella pubblica opinione. I grandi fenomeni di militanza e partecipazione politica e ideologica che si sono manifestati specie nel campo giovanile, alla fine degli anni sessanta, e successivamente, non hanno infatti riservato la dovuta attenzione al tema europeo: esso fu, anzi, classificato tra gli strumenti di difesa del capitalismo. A nessuno dei grandi ideali giova il «chiasso retorico» o la meccanica ripetitiva di certi concetti. All'Europa non giova, in particolare, l'omaggio puramente rituale ad alcuni uomini che all'unificazione europea credettero con ogni difficoltà, con lucido senso delle priorità reali, con lungimiranza spesso sofferta in prima persona; e quei «gradi» della Comunità Europea andrebbero perciò non celebrati, ma analizzati ed imitati pur tenendo conto del mutato contesto politico e sociale.
Ma più che la retorica, pesa oggi sull'Europa il silenzio. Potremmo porre come test una domanda: un appello a manifestare nelle piazze in favore dell'unificazione europea riuscirebbe a mobilitare masse di giovani?
Vi è anzitutto carenza a livello di informazione. Quanti, tra i giovani e i meno giovani, conoscono con sufficiente approssimazione non solo i dati elementari delle Comunità europee (cosa sono, cosa fanno, come si differenziano dalle altre istituzioni), ma anche il quadro storico nel quale sono state create,
le motivazioni che le hanno sorrette, le innegabili ombre ma anche le luci che le hanno accompagnate?
II riconoscere, ricordando una celebre frase, che «non possiamo non dirci europei», non basta più negli anni ottanta agli sviluppi del disegno di integrazione politica e non fa neppure avanzare l'unificazione economica. Questa unificazione europea diviene perciò poco credibile, poco allettante, e non mobilita facilmente energie, specie nei giovani, meno disposti ad accettare la politica dei piccoli passi, il pragmatismo e i compromessi.
Che fare allora? Quali possono essere, in questa difficile situazione, i punti di attacco per riannodare attorno all'Europa la tela dell'interesse e dell'impegno ideale? I conflitti tra gli stati e la loro difesa dei rispettivi limitati margini di benessere si rafforzano in situazioni di congiuntura sfavorevole rispetto ai momenti di espansione; quando vi è bassa marea riaffiorano gli scogli. II superamento dell'Europa nei mercati si inserisce in una crisi che P\lÒ portare anche un contributo positivo nel senso di far constatare più facilmente l'impossibilità per gli stati membri della Comunità europea di vincere, «da soli e in ordine sparso», le gravi difficoltà che stanno loro dinnanzi. Proprio la mutata dimensione dei problemi fondamentali dello sviluppo e della pacifica convivenza tra i popoli conferma la diagnosi secondo la quale siamo in presenza di una crisi di strutture politiche e di istituzioni statuali, non solo di dottrine politiche e di strumenti di politica economica, caratterizzata dalla loro crescente inadeguatezza ad affrontare problemi ormai al di fuori della portata delle loro decisioni.
II problema della governabilità, che oggi è al centro del dibattito politico, e quello connesso alla credibilità delle istituzioni, sono presenti anche al livello europeo e dipendono, se non esclusivamente, anche dal persistente rifiuto di prendere atto che si richiedono centri di decisione e di governo democratico diversi per qualità da quelli tradizionali che fanno riferimento agli stati nazionali. Qui si saldano i due momenti attorno ai quali ruotano da tempo le delusioni, ma anche le speranze dell'unificazione europea: le cose da fare (cioè i contenuti) e i soggetti operanti (cioè le istituzioni). Le istituzioni inoperanti non sono credibili, ma i progetti anche più ambiziosi, in Europa come altrove, rimangono inevasi se non vi sono idonee istituzioni chiamate a realizzarli. Occorre superare il mercanteggiamento intergovernativo degli interessi, anche legittimi, per riscoprire invece il senso profondo dell'interesse comune, del metodo comunitario della decisione, di una solidarietà effettiva. Questa solidarietà è fatta certamente di costi e di benefici, ma il loro equilibrio non va ricercato nella miope contabilità giorno per giorno, ma va assicurata in una proiezione temporale più ampia.
Sovrannazionalità e autonomia
Una Comunità europea che si incammini sui binari della sovrannazionalità, e al tempo stesso, delle autonomie costruendosi continuativamente, non una volta per tutte, può diventare un ideale di mobilitazione. Oggi purtroppo il dibattito sui «modi» di fare l'Europa, sovrannazionale o intergovernativa, federale o confederale, ispirata a priorità politiche o economiche, tributarie dell'azione dei governi e anche delle spinte popolari o di quelle che MaFitain avrebbe chiamato «minoranze profetiche di choc», è quasi assente pur in presenza di un Parlamento che, essendo eletto direttamente e quindi rappresentativo, dovrebbe essere capace di polarizzare l'attenzione.
È che siamo portati a formarlo con persone di scarso significato politico. Un'Europa quindi che esiste come realtà, ma che non ha ancora detto la sua parola, che non è ancora divenuta un segno dell'evento che è e che dovrebbe essere, e non sa dunque ancora trascendere con la propria azione i limiti della propria esistenza meramente mondana. L'Europa cioè, come la vedeva un nostro politologo, non può definirsi senza unificarsi. Ma per potersi unificare l'Europa deve definirsi non come il centro ma come una parte del mondo: come una parte avente il suo senso esattamente nell'esser tale.
Forse è anche per questo che le nuove generazioni sono segnate dalla perdita della memoria collettiva e cercano il lo-o universo in immagini impossibili, in suoni che liberano il corpo e la fantasia dell'udito e considerano la cultura che ricevono come un inventario, un magazzino di pensieri che si possono usare ma in cui non ci si può identificare. Contro tutte le delusioni e le tentazioni allo scoramento contrastiamo dunque questa pericolosa tendenza all'«entropia», a questa perdita di energia civile e politica che il processo di unificazione europea va denunciato: l'appello ad impegnarsi per l'Europa, ai giovani, soprattutto (questo va fortemente sottolineato), non è un invito a chiudersi in una nuova «riserva» e ad elevare nuovi conflitti fittiziamente più ampi, ma ad avviare un sistema di relazioni internazionali più articolato, più aperto, condizione essenziale perché si sviluppi, in tutte le sue potenzialità, un dialogo di pace.






















































