Retrospettive pericolose
La riabilitazione di Bucharin a cinquant'anni dalla sua liquidazione fisica – da non ridurre a un «coupe de teatre» nella rappresentazione di questo contradditorio nuovo corso della politica sovietica – ha scosso in maniera insolita il dibattito nella sinistra italiana.
Un articolo di Umberto Cardia sull'Unità aveva posto alcuni interrogativi sulla solitudine di Antonio Gramsci durante la prigionia, sull'emarginazione e l'isolamento politico cui fu costretto a causa delle divergenze con la direzione staliniana del comunismo internazionale.
Le risposte e l'approfondimento storico richiesti da Cardia toccano la responsabilità di Palmiro Togliatti nella conduzione di quel grande ed unico partito che fu sino al secondo dopoguerra l'lnternazioqale Comunista. C'è il dubbio atroce che non tutto fu fatto – e consapevolmente – per impedire la consumazione fisica e psichica di Gramsci nelle carceri di Mussolini.
Torna alla mente Arthur Koestler, che nel suo «Buio a mezzogiorno», descrive mirabilmente le strutture ideologiche nel totalitarismo nel processo ad un dirigente comunista dissidente.
È possibile che la logica stalinista che equipara il dissenso al crimine, al sabotaggio, al tradimento, abbia funzionato anche per Gramsci, ed un'altra condanna si sia sommata a quella inflittagli dal Tribunale speciale fascista?
La pubblicazione dell'articolo di Cardia ha avuto effetti deflagranti tra i vertici del Pci e L'Unità. Togliatti («Migliore») occupa ,sempre un posto di riguardo nel cielo della mitologia del Partito e forse è dai tempi del «Manifesto» che la Direzione Centrale non si esprimeva con una formale deplorazione su un'opinione (molto sobria e pacata, del resto) di un intellettuale comunista.
Il fatto è che la riflessione sui rapporti Gramsci-Togliatti ha offerto il fianco comunista ad una polemica tutta giocata su un terreno che appare ancora quello della piena consapevolezza democratica di una sinistra che stenta a smaltire gli accumuli pregressi di errori storici frenanti e di ingombro per la sua evoluzione complessiva.
Il Partito socialista ha profittato, con un'insolita crudeltà, dell'apertura di un processo ad un pezzo di storia che i comunisti italiani hanno da sempre esaltato come l'opera di un leader, Togliatti, che da Gramsci mutua gli orientamenti per costruire il «partito nuovo» della «via italiana al socialismo». Martelli celebra la fine del mito con una raffica di insulti liberatori: Togliatti è «un criminale esecutore» dei disegni di Stalin. L'apice della polemica si è ragiunto al convegno sullo stalinismo e la sinistra italiana promosso dal Psi, dove gli storici comunisti hanno dato fortait in anticipo, per protesta contro la strumentalizzazione del caso.
L'aspetto più interessante della vicenda mi sembra però quello tutto politico di una sinistra che se non si ritrova più sulla (comune) storia passata, si è completamente persa sulle prospettive per l'oggi.
A chiarire questa incomunicabilità, il saggio di Achille Occhetto su Repubblica.
Se Enrico Berlinguer aveva voltato pagina nel rapporto con il paese-guida del comunismo affermando «l'esaurimento della spinta propulsiva della rivoluzione di ottobre», il vice segretario del Pci svolge ulteriormente la riflessione. Oggi non basta riconoscere gli errori dello stalinismo o criticare il grigiore del periodo brezneviano. È il tempo di capire che «la rivoluzione di ottobre non può nel modo più assoluto offrire modelli per la storia futura», ed «è necessaria una sua radicale ricollocazione storica». Il suo limite (e la sua forza di allora) è la connotazione «giacobina>> dell'esperienza rivoluzionaria. Ed è proprio la teoria dell'egemonia, in fondo, il contributo gramsciano di maggior rilievo alla strategia del Pci nel dopoguerra, a contrastare con questa impostazione che non si adatta ai possibili modelli di trasformazione del mondo contemporaneo. La rivoluzione non può che essere democratica, ha bisogno della maturazione del consenso delle masse; è un fenomeno lento e faticoso, che si sviluppa su un ritmo che non può forzare tradizioni e culture. Se ieri era la violenza ad accelerare la storia (anzi, a farle da «levatrice», secondo l'espressione di Marx) oggi è piuttosto la non violenza ad essere rivoluzionaria. La democrazia non è solo un mezzo, ma anche un fine, da non irridere come valore «borghese», sembra.
Detto questo, non chiedete al Pci altro che non l'impegno per un futuro della sinistra tutto da costruire. Qui ritorna l'Occhetto prefattore del fortunato libro di Peter Glotz, «La società dei due terzi».
Il Partito comunista nella sua ottica, ha poco interesse alle retrospettive e tutto da perdere da abiure e riabilitazioni. Paradossalmente, proprio Togliatti fu un grande maestro nell'utilizzare l'analisi storica come strumento di lotta politica, in funzione di un dato obiettivo. Contrapporre la classe politic,.a dirigente liberale e quella democratico cristiana dell'età del centrismo,
ha per lui lo scopo primario di negare l'opera dei governi di Alcide De Gasperi piuttosto che rendere l'omaggio postumo al senso dello stato di Giovanni Giolitti.
La clava storiografica, ed in maniera ben più pesante, questa volta la usa Craxi. Ma l'arma dei socialisti, mal brandita contro la figura del gran padre, è a doppio taglio. Non si può dimenticare che lo stalinismo ha contaminato profondamente sin oltre la metà degli anni cinquanta, anche il Psi. I due partiti della sinistra storica sono legati da un ferreo patto di unità d'azione, condividono in quel periodo (anche se in diversa misura) miti e direttive sovietiche; Nenni è insignito del premio Stalin (in seguito però lo rispedì al mittente) e qualche giornalista profanatore ha ripescato una commossa orazione di Sandro Pertini in morte del leader ·sovietico. Un de profundis incentrato sulla grandezza umanitaria dello scomparso. Lo stalinismo è stato comunque un fattore di ritardo di tutta la sinistra italiana.
Allora perché continuare ad evocare i fantasmi di un passato semmai da dimenticare? A chi serve, a chi conviene questo gioco al massacro? Occhetto lancia l'allarme. Se si insiste su questa storia, oltre i personaggi si coinvolgono i partiti. E «negare o anche solo offuscare il ruolo di fondatori della democrazia italiana svolto dai partiti di Togliatti e Nenni, all'epoca accomunati nella stessa prospettiva storica, porterebbe di fatto ad affermare che l'unico padre di questa democrazia, è stato Alcide De Gasperi e il partito della Democrazia cristiana».
È interessante constatare come qualche decennio di forte dubbio democristiano sulla passata affidabilità democratica del Partito comunista non intacchi un giudizio storico su contributo delle forze di ispirazione marxista alla fondazione della repubblica, specie attraverso l'elaborazione della Carta costituzionale. Piuttosto è ancora oggi da spiegare come potesse convivere in Togliatti una sua certa idea di «democrazia progressiva» e la fedeltà al mito e alle pratiche dello stalinismo sovietico. Il dubbio di quale degli aspetti di questa «doppiezza» avrebbe prevalso nel caso di una vittoria socialcomunista nel 1948 dobbiamo relegarlo tra la curiosità per ciò che non è stato. Anche se si sarebbe trattato di una curiosità rischiosa.
Ma allora cosa vogliono i socialisti? Antonio Giolitti che di stanilismo in chiave italiana se ne intende perché ne è stato una delle vittime, in modo incrueto per fortuna, nel 1956, difende oggi il Pci dalle richieste di abiura taciandole di «necrofilia». Ma non tutto spiega con il gusto per l'orrido. Teoricamente, se si tiene conto della sua evoluzione in questi anni, il Pci non dovrebbe opporre tentennamenti nel riconoscere gli errori e le colpe del passato, poiché ormai è un altro partito. La sconfessione postuma di Togliatti e dello stalinismo italiano potrebbe essere l'ultima prova di una «secolarizzazione» ormai compiuta; un'operazione tra l'altro favorita dalla distenzione tra Est-Ovest e dal nuovo corso gorbacioviano, che renderebbe possibile una «glastnost» del Pci. È elusivo dire, come fa Occhetto: azzeriamo, puntiamo ll-1 futuro, mettiamo una pietra sul passato.
Questa sollecitudine «protettiva» del PCI per la sua storia passata potrebbe compromettere la sua storia presente. Il Psi gioca invece, in questa partita, la carta di una sua «diversità»: esso non ha più interesse ad inseguire le connotazioni storiche di partito della vecchia sinistra; i ponti sociali, culturali ed ideologici con l'elettorato militante di un tempo sono stati distrutti come le correnti interne che ne esprimevano le diverse caratteristiche ed accentuazioni.
I comunisti non possono emulare Craxi nella fuga dalle proprie radici. Il Pci è certo cambiato in questi anni, ma ogni passo nel mutamento è costato la perdita di una granitica monoliticità interna. Esso ha ancora bisogno di farsi riconoscere, di non perdere la suggestione di un'identità di cui Togliatti è un capitolo non rinunciabile. Il rischio di una troppo brusca accelerata alla propria mutazione è un'ulteriore erosione della propria base sociale ed elettorale. Non sorprende quindi la politica di «stop and go» impressa abbastanza disinvoltamente al Pci dal binomio Occhetto-Natta. Se il primo apre la pista di un'integrazione comunista nella sinistra europea, il secondo, nel recente viaggio a Mosca, riceve le onoreficienze della Repubblica dei Soviet e l'abbraccio del Segretario Generale, ritornato il «compagno Gorbaciov».
I comunisti percorrono una sorta di terra di nessuno, di zona inesplorata della propria vicenda! è una forza che se perde alcuni residui referenti rischia di non saper più da dove viene e non sapendo ancora dove va o dove può andare.
Craxi scrive un altro episodio del proprio disegno: guidare una sinistra che perde molte delle sue idealità tradizionali per aggregare uno schieramento che va dai verdi ai socialdemocratici, dai radicali ai comunisti. Ma è un disegno che si realizza solo con un ridimensionamento elettorale del Pci, con la drastica amputazione della sua forza all'interno del variegato schieramento. L'alleanza con la Democrazia cristiana appartiene ormai, per riconoscimento di tutti, ad un momento tattico. È solo una fase di transizione dalla quale trarre il massimo dei vantaggi. Nel mentre il Pci va intrappolato in tutte le occasioni in cui è possibile costringerlo: e nella vicenda Gramsci-Togliatti-Stalin, il Pci perde comunque. Così, se accede ad una sua destalinizzazione posticipata, elimina un pezzo della propria identità; se rifiuta il ridimensionamento storico del «Migliore» torna ad essere il partito vecchio e retrivo, non maturo per responsabilità di governo del paese.
A Craxi non interessa il rinnovamento vero del Pci, è più interessato ad un suo sradicamento o a forme blande di riverniciatura, facilmente smentibili e denunciabili all'opinione pubblica.
Una riflessione a margine della vicenda, oltre i suoi aspetti di strumentalità. Per la sinistra, tutta la sinistra italiana guardarsi indietro sembra pericoloso. Il suo adeguamento alla realtà che si trasforma nasce più facilmente dalla rimozione che dalla valorizzazione del passato. La Democrazia cristiana, invece, può essere più serenamente consapevole della propria storia per costruire senza complessi i propri passi per l'oggi. Questo non basta, ma è un vantaggio che non va sprecato.























