Diciotto congressi: un partito allo specchio
Primo
Si tiene nell'Aula magna dell'Università «La Sapienza» di Roma dal 24 al 27 aprile 1946, presieduto da Giuseppe Micheli.
Dibattito
Vengono discussi in primo luogo la questione istituzionale in relazione all'imminente Referendum tra Repubblica e Monarchia, poi il problema dell'impegno.sociale del partito in un importante discorso di Giovanni Granchi.
Incarichi
Segretario del partito viene eletto Alcide De Gasperi affiancato da tre vice Attilio Piccioni, Giuseppe Rossetti e Bernardo Mattarella.
Avvenimenti politici
Il 2 giugno '46 vengono indette le prime elezioni della storia della Repubblica che sanciscono la vittoria della Dc (35,2%) seguita dal Psiup (20,1%) che nel '47 si scinderà in Psi e Psdi, e dal Pci (19%).
La situazione politica è in continua evoluzione: Tre sono i governi che si succedono con l'appoggio di variegate maggioranze e con a capo sempre Alcide De Gasperi indiscusso leader.
Secondo
Si svolse a Napoli al teatro S. Carlo, dal 15 al 20 novembre 1947, presieduto dall'on. Salvatore Aldisio.
Dibattito
Vennero affrontati: il problema del lavoro (da Paolo Emilio Taviani), la questione meridionale (da Carlo Petrone), la questione istituzionale (da Giovanni Granchi) e infine il rapporto tra giustizia e libertà (da Carlo Petrone con una applauditissima relazione).
Incarichi
Furono eletti segretario del partito Attilio Piccioni; vice segretari Ceschi e Taviani.
Avvenimenti politici
Nel 1948 si svolgono le elezioni per la creazione del primo Parlamento repubblicano. La Dc stravince (maggioranza assoluta) nei confronti del Fronte Popolare (Pci + Psi), ma nel 5° Governo De Gasperi, il Presidente del Consiglio apre ad una coalizione con il Psli (attuale Psdi) il Pii e il Pri. Attilio Picconi, chiamato a ricoprire la vicepresidenza del Consiglio dei Ministri, lasciò la Segreteria del Partito a Giuseppe Cappi.
Terzo
Si tenne a Venezia (Palazzo Ducale) dal 2 al 5 giugno del '49. Presidente fu nominato Umberto Merlini che aveva già presieduto, l'ultimo Congresso del Partito Popolare nel '25.
Dibattito
Dopo aver ribadito i principi ideali del Partito («...Lo spirito cristiano è spirito di libertà... è anelito profondo versç un'ampia giustizia sociale»), il segretario uscente Cappi affrontò il problema delle correnti. «Che il programma politico del Partito – disse – possa, anzi debba venire demoraticaniente elaborato con il concorso di tutti gli aderenti al partito è certo... Ciò che si contesta è l'organizzazione di queste "tendenze" (leggi correnti n.d.r.)».
Accanto al discorso del Segretario, ripreso poi sia da Piccioni che da Dossetti, toccò al giovane Mariano Rumor tenere la relazione sui problemi di attualità e di prospettiva del Paese: «Le necessità del lavoro italiano».
Incarichi
Segretario Paolo Emilio Taviani, vicesegretario Giovanni Elkan.
Avvenimenti politici
Il 16 aprile 1951 Taviani «per rendere più sicura e salda l'unità del Partito e per provocare soluzioni nuove» si dimette da segretario politico. Viene sostituito da Guido Gonella affiancato da Dossetti, Rumor, Tupini.
Vengono varate in questo periodo la riforma tributaria e quella fondiaria, e viene istituita la Cassa per il Mezzogiorno.
Quarto
Si svolse a Roma (Teatro dell'Opera) dal 21 al 26 novembre del '52. Presidente dell'assemblea fu eletto Domenico Bartoli, sindaco di Trieste.
Dibattito
Una delle questioni più importanti fu il problema dei rapporti da una parte con il mondo cattolico e dall'altra con le destre monarchiche. Per quanto riguarda il primo, Paolo Emilio Taviani, difese l'autonomia della vocazione politica del partito: «Se a tale-autonomia dovessimo, anche nella più piccola sezione di provincia, per nostra deficienza abdicare, mancheremmo al nostro impegno di democratici e cattolici». Per quanto riguarda il secondo, il segretario Gonella, preoccupato di perdere voti a destra e di dividere la «Democrazia anticomunista» che aveva portato al largo successo elettorale del '48, disse che il Fascismo doveva essere combattuto ma l'unico modo per farlo era combattere il male che lo aveva generato: il comunismo.
Incarichi
Segretario del partito fu rieletto Guido Gonella, Ravajoli e Sangalli vice segretari. In base al metodo elettorale maggioritario, i sindacalisti (guidati da Mario Pastore, segretario gen. Cisl)• che avevano realizzato la confluenza con gli Aclisti, conquistavano tutti i seggi che la maggioranza concedeva al gruppo minoritario più forte: venne quindi fondata ufficialmente la prima corrente del partito «Forze sociali»... il tempo dell'unanimità era definitivamente superato.
Avvenimenti politici
Dopo le elezioni del '53 che videro una riduzione della Dc (40%) a causa della scomparsa del «pericolo rosso», aumentò l'instabilità politica e numerosi furono i tentativi falliti di formare esecutivi stabili. De Gasperi, libero da impegni di governo, riassunse nel '53 la guida del partito nel tentativo di ricondurlo all'unità, affiancato da Giuseppe Spataro.
Quinto
Si tenne a Napoli (Teatro S. Carlo) dal 26 al 29 giugno 1954 e lo presiedette Giovanni Leone.
Dibattito
Il discorso tenuto qui da De Gasperi, un'analisi dettagliata del partito e delle sue componenti, è considerato unanimemente il testamento politico del leader democristiano. «Solo se siamo uniti siamo forti, se siamo forti siamo liberi di agire, possiamo sviluppare il nostro piano di rinnovamento, convogliare le forze costruttive della Nazione, scegliere i nostri compagni di viaggio per libera volontà, per affinità di tendenza, per comunanza di programma di azione, per una visione comune di riforme». La Dc, secondo De Gasperi, con le sue varie componenti doveva arrivare a realizzare una sorta di «sintesi popolare» capace di promuovere lo sviluppo delle categorie più emarginate del Paese.
Incarichi
Viene eletto segretario Amintore Fanfani (del gruppo di Cronache Sociali) e Mariano Rumor come suo vice.
Avvenimenti politici
Poco dopo il Congresso di Napoli, il 19 agosto 1954, Alcide De Gasperi si spegneva a Sella di Valsugana: il cordoglio del partito fu unanimente condiviso nel Paese e all'estero, dai singoli cittadini ai capi di stato.
Il 29 aprile 1955, dopo Luigi Einaudi, venne eletto Capo dello Stato, per la prima volta, un democristiano: Giovanni Granchi.
Il 6 luglio 1956 Granchi incaricò Antonio Segni di formare il Governo. Questi costituì un gabinetto di coalizione tra Dc, Psdi, Pii con l'appoggio esterno del Pri che si rivelò uno dei più stabili della storia della Repubblica (22 mesi).
Il 16 febbraio un altro grave lutto colpì la Democrazia cristiana: la morte di Ezio Vanoni, uno degli artefici del Piano decennale, durante una seduta di Senato.
Sesto
Si tenne a Trento dal 14 al 18 ottobre 1956 in onore e nel nome di De Gasperi. A presiderlo fu chiamato Tullio Odorizzi.
Dibattito
Alle ottimistiche dichiarazioni sulla situazione interna della Dc di Fanfani, segretario uscente, seguirono numerose critiche soprattutto sul modo di conduzione del partito. Tra le altre importante fu quella di Benigno Zaccagnini perché poi sostenne la rielezione di Fanfani: «Una chiara risposta di impegno sociale è ciò che dobbiamo fare non per concorrenza al socialismo, non per debolezza, ma per nostra convinzione cristiana, per responsabilità democratica, per la nostra apertura alla comprensione delle realtà politiche e sociali. E allora l'adesione e la speranza dei nostri lavoratori italiani sarà soddisfatta».
Incarichi
Rielezione di Amintore Fanfani, segretario, e Mariano Rumor, vice.
Avvenimenti politici
Nel 1958 si svolsero le elezioni politiche: la Dc incrementò la sua forza parlamentare, arretrò invece il Pci, aumentò il Psi. Nel '59 Amintore Fanfani dette le dimissioni dalla carica di segretario. Il consiglio nazionale del partito lo sostituì con Aldo Moro, mentre vicesegretario fu nominato Angelo Salizzoni.
Settimo
Dopo il Congresso di Trento era stato eletto segretario politico Fanfani. Ma la segreteria politica entrò in crisi, se così si può dire per motivi interni al partito, contemporaneamente al Governo Fanfani. Il segretario diede le dimissioni, confermandole nonostante gli fosse chiesto di restare fino al Congresso. Ma, dopo il 26 gennaio 1959 Fanfani non partecipò più alle riunioni della direzione, che rimase affidata al vicesegretario Rumor, al presidente del consiglio Nazionale Zoli e ai presidenti dei gruppi parlamentari, Piccioni e Gui.
Il consiglio nazionale elesse poi, esattamente il 16 marzo 1959, Aldo Moro che ebbe come vicesegretario politico Angelo Zalizzoni.
Già in consiglio nazionale successivo stabilì la data del Congresso nazionale che si sarebbe tenuto a Firenze dal 23 al 28 ottobre 1959 e che fu aperto dalla lunghissima, ricca ed articolata relazione di Moro che ebbe come punto focale l'unità del partito, che tenesse conto delle diverse articolazioni di pensiero ma che consentisse la realizzazione di una sicura linea politica.
«L'unità della Dc, sosteneva Moro, è strumento essenziale di azione politica».
«Ma quanto stringente è, per la vastità degli interessi e per la varietà degli ideali, lo sforzo di coesione che la Dc deve esplicare, altrettanto vivo e libero, efficace e originale deve essere il gioco qelle opinioni il confronto delle idee, la posizione di rilievo e di influenza assicurata a tutti i democratici cristiani». Moro non si limitò ad un discorso teorico ma condannò gli esponenti di partito che avevano «tradito» le decisioni assunte e messo in crisi il governo, definendoli «autori oscuri di ignobili imboscate e formulatori di capziosi "distinguo"». E, sottolineando il significato negativo di tale comportamento diceva: «... che cosa potrebbe dire la Dc al suo elettorato come incitamento ad accrescerne, come è pur necessario la forza, quando di quella che ci è stata data, quella che è stata così faticosamente conquistata con il sacrificio e l'impegno di tanti, è stato fatto un così cattivo uso, quando essa è stata così miseramente dispersa?».
Moro indicava poi nella disoccupazione e nel mezzogiorno i maggiori problemi italiani e sulla questione della alleanze politiche affermava che «per la Dc il primo compito, il primo dovere è quello della resistenza di fronte al comunismo sul terreno democratico, resistenza morale, giuridica, politica veramente inflessibile, senza un attimo di sosta e di disattenzione».
«Con il comunismo diceva Moro, nessuna solidarietà», mentre, anticipando in qualche modo l'apertura di centro-sinistra, sottolineava·l'attenzione che la Dc doveva al Psi, del quale auspicava un «sicuro sbocco democratico» come possibilità per aprire tra i due partiti un «grande dibattito».
Naturalmente il vasto e acceso dibattito politico che aveva portato alle dimissioni di Fanfani, con la scissione in due componenti della maggioranza di Iniziativa Democratica, si riflesse negli interventi al Congresso di Firenze.
Tra i sostenitori della lista capeggiata da Zoli, e nella quale era presente Fanfani, il più aperto a sinistra si rivelò Fernando Tambroni. L'opposizione veniva anche dalla lista capeggiata da Giulio Andreotti che respingeva la definizione di destra, e dalla lista della sinistra di base. De Mita in un intervento di opposizione sottolineò tutte le contraddizioni di coloro che formando Iniziativa democratica nel 54 avevano inteso accogliere contemporaneamente l'eredità di Dossetti, che era rimasta una voce isolata, e di De Gasperi, del quale si era accolta l'ipotesi centrista senza penetrarne le motivazioni e le scelte, in un determinato spazio politico e tempo. Secondo De Mita il problema del rapporto con il Psi non andava posto in termini ideologici, ma politici, condizionato dall'accettazione del metodo democratico. Granelli, come già a Trento, vedeva per la Dc il compito storico di trasformare lo stato liberale.
Dopo Firenze fu però rieletto segretario politico Aldo Moro. Era nata la linea e la componente morotea, ma Moro puntò alla gestione unitaria del partito sì da superare la contrapposizione congressuale e poter preparare il centro-sinistra con tutto il partito che rischiava di restare fermo alle polemiche della Domus Mariae.
Nelle votazioni per il consiglio nazionale furono eletti 52 dorotei come lista di maggioranza (Moro, Segni, Zaccagnini, Colombo, Rumor, Cossiga).
Tra le liste di minoranza, la lista di centrosinistra più i sindacalisti di «rinnovamento» che facevano capo a Fanfani, Zoli, Forlani e Pastore ottiene 36 eletti; 1 eletto la lista «primavera di Andreotti» e un eletto la lista di Base, Granelli.
Ottavo
Tra il '59 e il '62 vi fu uno dei periodi più travagliati ed ancora oggi oscuri nella storia dei governi della Repubblica. Nel luglio del '60, tumulti di piazza ed avvenimenti politici tra cui le dimissioni di alcuni ministri segnarono la fine drammatica del Governo Tambroni che in parlamento aveva ottenuto solo i voti della Dc e del Msi.
Fu dunque un clima particolare quello che si visse in Italia fino all'Vlll° Congresso che si tenne a Napoli dal 27 al 31 gennaio del 1962 e che ebbe come problema centrale la possibilità di una politica governativa di centrosinistra, con l'ingresso dei socialisti.
La relazione di Moro, segretario uscente, iniziò nuovamente con il sottolineare il valore dell'unità del partito: «abbiamo avuto la durevole e felice esperienza della direzione unitaria, che crediamo sia stata e sia per essere anche in avvenire, pur con gli inevitabili inconvenienti, uno strumento importante per assicurare la comprensione, la collaborazione, l'apporto costruttivo di tutte le idee alla determinazione della linea politica e all'attuazione di essa nell'azione concreta della Dc. Parlando poi dei rapporti con gli altri partiti, Moro ribadì l'anticomunismo della Dc: «È una radicale diversità di programmi e ideali, che non è per nulla intaccata dalla_natura popolare dei due partiti... Contrapposte sono le ideologie, i criteri morali, le intuizioni sull'economia e l'evoluzione della vita sociale. Contrapposte sono le visioni in politica estera... ma l'anticomunismo della Dc affermava Moro, non è un anticomunismo di tipo conservatore, né sul terreno sociale, né sul terreno politico. È un anticomunismo che vuol dare alla giustizia sociale, alla rottura del fronte dei privilegi, al processo d'immissione dei ceti popolari nella società e nello stato, il respiro della libertà».
Diversa era la posizione verso il Psi, del quale si apprezzava lo sforzo di darsi dinnanzi ad ogni avvenimento una posizione autonoma. Non si poteva certo parlare di una alleanza organica con il Psi ma si poteva pensare di gettare le basi per un incontro politico.
Moro infatti, nella sua relazione fiume, durata 6 ore affermava: «i motivi dell'interesse diffuso per il Psi da ricercarsi nella evidente' inutilizzazione della destra, nella ristrettezza dell'area democratica e nelle sue interne fratture, nella necessità di non precludere l'assunzione di sempre maggiori responsabilità politiche, di vasti e qualificanti settori del corpo sociale: alla visione di queste ragioni che spingono verso l'allargamento dell'area democratica, deve accompagnarsi la valutazione dei rischi che l'operazione comporta, della gradualità e della cautela con cui realizzarla, dei prezzi che possono essere pagati, nonché degli insuperabili ostacoli che possono condurre ad una rinunzia».
Una reale opposizione alla linea proposta dalla segreteria al Congresso di Napoli: venne in realtà solo da chi come Andreotti, Scelba, Restivo, Scalfaro intendeva riproporre in un'apposita mozione, il «centrismo popolare». Una critica decisa veniva da Giulio Andreotti, che dal '54 era su posizioni di minoranza e che, domandandosi che cosa i socialisti chiedevano alla Dc diceva: «Il Psi chiede delle contropartite fortissime: ci chiede di rompere tutti gli altri possibili ponti parlamentari». Ma pur rimanendo su una linea di opposizione a tale politica, Andreotti cercava di cogliere dei motivi di unione come l'immutabilità degli impegni politici e militari che derivano all'Italia dall'appartenenza alla Nato e la riconferma che la linea politica di centro-sinsitra vuole aiutare i socialisti a sganciarsi dai comunisti.
Per la corrente di Base, Galloni fece una dichiarazione di voto favorevole alla relazione del segretario politico Moro, dichiarando però di non volersi confondere con la maggioranza per poter continuare ad esercitare una azione di pungolo, di critica costruttiva, caratteristica della presenza della sinistra di Base nel partito.
La relazione del segretario Moro, ottenne però il 92,15 per cento dei suffragi. Avevano votato per lui tutta la maggioranza e le minoranze. La Dc intera si era trovata unita nella fiducia al proprio leader. Gli amici di Moro ottennero 75 seggi (Zaccagnini, Rumor, Colombo, Forlani, Gui ecc.). I fanfaniani ottenevano 39 seggi; il «centrismo popolare» di Andreotti, Scelba, Scalfaro 13 seggi mentre la lista di Base, guidata da Sullo, otteneva 11 seggi. 1O seggi andarono alla lista «rinnovamento» di Pastore e Donat Cattin.
Subito dopo il Congresso di Napoli che aveva approvato l'avvio di una apertura verso il centro-sinsitra, il 2 febbraio 1962 si ebbero le dimissioni di Fanfani che fu reincaricato di formare il governo, costituito da Dc Psdi e Pri con l'appoggio esterno del Psi. Solo con il primo governo Moro, il 4 dicembre 1963 iniziò, con una coalizione Dc-Psi-Psdi-Pri, il centrosinistra, con la partecipazione del Psi al governo.
Nominato presidente del consiglio, Moro si trovò a ricoprire contemporaneamente la carica di presidente e di segretario della Dc, fino al consiglio nazionale del 24 gennaio 1964, in cui venne eletto segretario del partito Mariano Rumor e riconfermati vicesegretari Forlani e Scaglia.
Nono
Si tenne a Roma dal 12 al 16 settembre 1964, presieduto dall'allora presidente del consiglio nazionale Attilio Piccioni.
La relazione del segretario uscente Mariano Rumor sottolineava: «un partito che per l'ispirazione cristiana prenda consapevolezza della drammaticità dei problemi presenti in questa epoca di transizione deve guardare con coraggio a tutti ed a ciascuno di essi per essere coerentemente presente nella guida del movimento storico». E tra questi problemi urgenti il segretario evidenziava il tentativo di strumentalizzazione della cultura, la disgregazione della società e in primo luogo della famiglia, la questione femminile, il problema dei giovani della casa, le tensioni sociali del mondo agricolo e quelle ancora più vive del mondo operaio. Proprio per risolvere tale situazione la Dc aveva iniziato la politica di centro-sinistra, «chiudendo rigidamente le frontiere che la separano dal partito comunista in cui Rumor non vedeva alcun fermento positivo».
Quattro furono le diverse posizioni politiche che si vennero definendo nel Congresso di Roma: quella che si riconosceva nella segreteria e nel presidente del consiglio Moro, chiamata
«Impegno democratico»; la corrente fanfaniana di «nuove cronache» che criticava l'inefficienza del partito che aveva portato al forte calo elettorale del 1963 e al governo Leone e riproponeva perciò per il partito una ripresa organizzativa.
L'opposizione che veniva dal centrismo·popolare si proponeva tre obiettivi sintetizzati da Gonella «rimeditare il credo politico, la nostra dottrina sociale cristiana; valutare sinteticamente la vicenda dell'apertura; proporre rettifiche per eliminare gli inevitabili aspetti negativi della situazione».
La relazione del segretario fu giudicata «nettamente a destra, su posizioni vecchie e stantie» da Donat Cattin, che con forze nuove e la sinistra di base si ritrovava in una nuova concentrazione di sinistra, che accoglieva persone provenienti da diverse esperienze.
Mentre nel '62 la componente fanfaniana e la componente morotea si presentarono unite al Congresso di Napoli, che decise la politica del centro-sinistra, nel '64, quando tale politica era in piena attuazione, Forlani, presentatore della mozione di Nuove Cronache, prende le distanze dalla politica di Moro, presidente del consiglio dicendo: «nulla mancava alla Dc affinché essa partecipasse con autorità ed in modo caratterizzato al dibattito e all'impostazione del programma; invece la Dc è apparsa riluttante di fronte alla portata del nuovo impegno, è sembrata partecipare quasi costretta ed infastidita al dibattito sulla formulazione del piano, tanto da ingenerare la sensazione anche qui che il ruolo della Dc fosse quello di operare un'azione frenante su un complesso di scelte politiche che essa subiva in dipendenza di una situazione parlamentare che non permetteva altre alternative».
Un cenno particolare merita riguardo al IX Congresso la questione della proporzionale. La Dc aveva adottato sin dall'inizio, il metodo maggioritario per l'elezione del consiglio nazionale. Già nel '54, a Napoli, Granchi pose formalmente la questione dell'adozione del sistema proporzionale come garanzia di maggiore spazio per le minoranze. La questione fu ripresa nei successivi congressi, ma solo nel gennaio 1964 il consiglio nazionale approvò le proposte di modifica dello statuto atte ad introdurre il sistema proporzionale per l'elezione dei delegati al Congresso nazionale e per l'elezione dei consiglieri nazionali da parte degli stessi delegati. Il IX Congresso, dunque fu il primo in cui venne usato il metodo proporzionale. Il partito dopo il congresso riconfermò segretario Mariano Rumor. Il 3 ottobre 1964 furono eletti vicesegretari Flaminio Piccoli e Tommaso Merlino.
Per quanto riguarda le elezioni al consiglio nazionale, la mozione di Moro e Rumor, «Impegno democratico» ottenne il 46,5 per cento dei voti e 68 seggi; la mozione Fanfani, «nuove cronache» ottenne il 21,3 per cento dei voti e 33 seggi. La mozione Pastore di Forze nuove ebbe il 20,7 per cento di voti e 30 seggi, mentre «il centrismo popolare di Scelba ebbe 1'11,5 per cento di voti e 17 seggi.
Decimo
Iniziò a Milano il 23 novembre 1967, presieduto da Mario Scelba che era stato eletto presidente del consiglio nazionale. La relazione del segretario Rumor ribadiva la necessità che i partiti si rinnovassero e che rivedessero i rapporti con la società. Per la Dc a tale fine prevedeva alcune importanti modifiche statutarie che modificassero il rapporto iscritto partito. Accanto al rinnovamento del partito era però necessario procedere al rinnovamento dello stato, cosa in cui si impegnava la Dc, a partire dall'attuazione dell'ordinamento regionale. Le regioni andavano attuate secondo la tradizione politica dei cattolici che da sempre aveva sostenuto «l'istituzione dell'ente regione». «Per noi, diceva, la regione deve essere dotata di un potere politico proprio, che non si sovrapponga né si opponga al potere politico centrale: definito quindi nei suoi precisi termini, coordinato rispetto alla condotta generale dello stato, sostitutivo di esso nell'ambito suo proprio. Il vero problema, continuava, è quello di precisare la fisionomia istituzionale delle regioni, che debbono assumere anche il ruolo di qualificati interlocutori nella politica di programmazione e di momento di verifica di questa a livello locale».
Riguardo alle alleanze politiche con gli altri partiti, Rumor ribadiva la necessità di continuare con la politica di centro-sinistra perché «non è una semplice formula di potere ma un nuovo modo di governare».
Per quanto riguarda gli altri interventi, al 10° Congresso furono presentate tre mozioni: una di maggioranza, alla quale era collegata una lista che accoglieva diverse componenti del partito, quasi un ritorno allo schieramento del Congresso di Trento. Un'altra di minoranza che comprendeva la sinistra di Base e i sindacalisti ed infine una nella quale erano raggruppati gli «amici di Taviani».
Una citazione a parte meritano, nella cronaca del X Congresso gli interventi di Moro e di De Mita. L'intervento di Moro, allora presidente del consiglio, ebbe il carattere di un discorso ideale, di principi, per la Dc: «il senso della nostra esperienza politica, egli disse, è un processo di liberazione, di una egua]e dignità, una effettiva giustizia da assicurare. E un fatto rivoluzionario questo, il trionfo, ormai inarrestabile nelle coscienze, dell'essenziale principio democratico della libertà e della giustizia, il superamento deciso ed ormai irreversibile delle caste, delle classi, dei privilegi, di un mondo antico e disumano che ormai tramonta. È invece l'uomo che avanza in una società libera, senza violenza, senza il terribile prezzo pagato in termini di libertà soffocata e di solidarietà mortificante e coatta».
De Mita invece dissente radicalmènte dall'impostazione data da Rumor che accusa di essere arroccato su posizioni superate, preconciliari, dell'epoca centrista, di ostacolare il governo Moro, di essere fuori della realtà, preso dalla sola gestione del potere. De Mita accusa Rumor e i dorotei di gestire il partito in modo «disseducativo, autenticamente e obiettivamente corruttore della dialettica democratica all'interno di un partito. Questa è per lui, l'origine dell'immoblisrr\o della Dc e l'origine del disperdersi delle energie giovanili. È come se noi ci addormentassimo su una visione della realtà ormai superata, senza renderci conto che sopra questa superficie, come su un lago, noi stiamo ballando, mentre sotto c'è l'acqua. Guai, quando si scioglierà il giacchio: precipiteremo tutti, sarà la fine delle forze politiche del paese». Alla linea di Rumor, al Congresso, andò il 64 per cento dei suffragi e 68 consiglieri. La lista «degli amici di Taviani» ebbe il 12 per cento e 14 consiglieri mentre alla sinistra andò il 24 per cento e 28 consiglieri.
Dopo il Congresso di Milano Rumor viene comunque riconfermato segretario politico così come vennero riconfermati vicesegretari Forlani e Piccoli. Solo quando Rumor viene nominato presidente del consiglio, è sostituito alla segreteria da Flaminio Piccoli. Ma intanto è cominciato un periodo di agitazione sociale che passerà alla storia come il «68» e sarà caratterizzato dalle violente manifestazioni di piazza degli studenti e da una serie di scioperi dei lavoratori che porteranno all'«Autunno caldo».
Undicesimo
Fu l'unico congresso anticipato della storia della Dc. Si svolse infatti dal 27 al 30 giugno del '69, in data anticipata, per chiarire la situazione interna al partito. Analizzando la crisi che la società italiana stava vivendo, Piccoli, nella sua relazione di segretario uscente affermava: «Noi abbiamo visto crescere intorno a noi classe dirigente politica, uno steccato di diffidenza e di distacco... Siamo in realtà dinanzi ad una diversa maturazione di coscienza del cittadino, che sente in termini più personalizzati il suo diritto ad una zona di più ampia libertà e di giustizia, per la quale il tipo di società e di stato in cui egli vive ed opera svelano ancora insufficienze e sperequazioni importanti. Nel paese serpeggia il dubbio sulla capacità del sistema politico italiano a garantire in modo efficiente l'esercizio del potere, sia a livello dello stato nazionale, sia a livello locale». «La contestazione giovanile è il fenomeno di maggior rilievo. Parlando delle università essa ha proposto in maniera aspra e sommaria una rivolta morale, una critica radicale contro le strutture vecchie e nuove, individuando in esse, confusamente e indiscriminatamente, forme ed origini autoritarie». Per quanto riguarda i rapporti con gli altri partiti, Piccoli sosteneva la validità dell'esperienza del centro-sinistra che a suo avviso era ancora l'unica alternativa valida che si prospettava al Congresso per cercare di trovare, insieme agli altri partiti, una risposta ai problemi del paese. «Qualunque ipotesi volta invece, affermava, ad avviare accordi con il Pci nel suo complesso o con supposte o reali correnti al suo interno, appartiene alle esercitazioni velleitarie e non al terreno del dibattito politico responsabile».
La Dc era arrivata all'XI Congresso, frantumata in una miriade di correnti interne. Le liste presentate per l'elezione del consiglio nazionale furono infatti sette. Ai «dorotei» e a «nuove cronache», si aggiungevano infatti una lista di sinistra che accoglieva «Forze Nuove» e la sinistra di Base, il gruppo di Taviani che si prefiggeva di fare da «ponte» per favorire gli equilibri interni di partito, due liste minori, Forze libere (Scalfaro e Restivo) e Nuova Sinistra di Fiorentino Sullo. L'ago della bilancia era però costituito dai «morotei». Il dibattito politico fu ravvivato tra gli altri dall'intervento di Galloni che affrontò il tema dei rapporti con il Pci, in polemica con la tesi esposta dal segretario, parlando di un «patto costituzionale» inteso come «proposta rivolta a tutte le forze politiche dell'arco costituzionale perché si assumano la responsabilità di discutere e di confrontarsi, di trasferire dal vertice alla base del sistema politico la mediazione della società».
Da parte sua Donat Cattin sosteneva la necessità di creare una nuova maggioranza nel partito, sì da adeguare la Dc ai profondi mutamenti avvenuti nel paese. Gonella invece pose l'attenzione sulla proposta della legge sul divorzio che non poteva non rappresentare una difficoltà e un motivo di divergenza all'interno del governo.
Dal Congresso uscì un consiglio nazionale così espresso: «impegno democratico» (Piccoli, Rumor, Colombo, Andreotti, Bisaglia 46 seggi, 38,2 per cento; «nuove cronache» (Forlani, Gioia, Arnaud, Malfatti, Darida etc.) 15,9 per cento e 18 seggi. Gli amici dell'on. Moro, distinti in una propria corrente, staccatisi da Rumor, 12,7 per cento e 16 seggi (Zaccagnini, Salvi, Gui, Anselmi). «Forze libere» di Scalfaro e Restivo, 2,9 per cento e 4 seggi. «Nuova sinistra» di Sullo 2,6 per cento e 2 seggi. Forze nuove e Base (Galloni, Donat Cattin, De Mita, Granelli, Marcora, Bordrato ecc.) 18,2 per cento e 22 seggi.
Successivamente, il consiglio nazionale del 9 luglio riconfermò Piccoli alla segreteria ed elesse Zaccagnini alla presidenza del consiglio nazionale.
Dodicesimo
Con la formazione del secondo governo Andreotti, cui parteciparono Dc-Psdi-Pli, con l'appoggio esterno del Pri, iniziò a dilagare nel partito un'atmosfera di malcontento più o meno celato, a seconda di chi accusava un scelta politica preferenziale e chi voleva invece un ruolo diverso per il partito. Fu così allora che Amintore Fanfani, allora presidente del senato, decise di invitare i leader delle diverse correnti della Dc ad un incontro, nella residenza presidenziale di Palazzo Giustiniani. E qui si raggiunse un accordo, chiaramente di verti, ce, su un documento unitario: era il «Patto di. palazzo Giustiniani». Il Congresso vero e proprio fu dunque anticipato nelle sue conclusioni politiche e congressuali, ma nonostante ciò il dibattito fu particolarmente vivace ed acceso, tanto da uscire fuori dall'accordo precostituito e connotare chiaramente le diverse posizioni interne. Il risultato tuttavia era già stato deciso.
I lavori del XII Congresso si aprirono a Roma il 6 giugno 1973 e durarono fino al 1O giugno. La relazione del segretario uscente Forlani affrontava come primo argomento il rapporto tra la Dc e il mondo cattolico, nei suoi fermenti postconciliari. «L'intellettuale cattolico, sosteneva Forlani, non può isolarsi rispetto ai termini reali del confronto sociale. Egli non può non essere parte comunque, della ricerca della Dc: non può non avere in comune con noi la tensione, il desiderio di costruire una società secondo una scala di valori, non può non condividere la nostra preoccupazione di sfuggire alle spire del blocco d'ordine, non può infine sottrarsi, non sentirsi in qualche modo coinvolto attorno ad una formazione politica che si richiama alla tradizione cattolico popolare. Siamo in una stagione politica, carica di rischi, alla quale certo non porterebbe un aiuto la dispersione delle forze cattoliche». Dopo aver parlato dei problemi del paese, Forlani, toccando l'argomento del governo Andreotti, del quale però si parlava come di una realtà ormai superata, nonostante fosse ancora in carica, auspicando un ritorno al centro-sinistra. Andreotti nel suo intervento misto di amarezza e di ironia, spiegò le ragioni del suo governo ammonendo che «Emanuele Mounier scrisse che la virtù politica più grande è di non perdere il senso dell'insieme». «Ed è forse questa la strada da battere: il senso dell'insieme per orientarsi e per orientare».
I risultati congressuali furono: la lista di «forze nuove» ottenne 14 seggi; la lista di Base, appoggiata da De Mita e Marcora 14 seggi; «impegno democratico» (Andreotti, Colombo) 25 seggi; gli «amici di Moro» 14 seggi; la lista di «nuove cronache» (Fanfani, Malfatti) 31 seggi, «iniziativa popolare» (Rumor, Piccoli, Taviani, Bisaglia) 54 seggi.
All'indomani del XII Congresso fu «acclamato segretario politico Fanfani, secondo gli accordi del patto di palazzo Giustiniani. Il governo Andreotti rassegnò le dimissioni il 12 giugno 1973 e l'incarico per la formazione del nuovo governo fu affidato a Rumor che riaprì l'esperienza del centro-sinistra; nuove difficoltà si prospettavano però per il partito. Approvata la legge sul divorzio infatti, alla fine del '70, un gruppo di cattolici si era fatto promotore di un referendum abrogativo e proprio sull'atteggiamento da seguire nei confronti di tale avvenimento sorsero gravi contrasti all'interno del partito. La Dc poi come era avvenuto in parlamento si trovò isolata rispetto anche ai partiti di governo. Il referendum dette esito negativo il che provocò l'accusa alla segreteria di aver guidato il partito provocandone l'isolamento. I risultati delle elezioni regionali del giugno del '74, svoltesi in Sardegna, non furono certo incoraggianti. Tantomeno lo furono quelli relativi alle elezioni regionali di tutta Italia, che confermarono un notevole calo della Dc e un considerevole aumento per il Pci. L'opposizione alla segreteria si fece manifesta, anche da parte di chi come Rumor, l'aveva in precedenza sostenuta. Fu dunque una seduta difficile quella del consiglio nazionale del 25 luglio '75 che portò all'elezione a segretario politico di Benigno Zaccagnini, allora presidente del consiglio nazionale. La segreteria Zaccagnini nasceva con un carattere di provvisorietà ma avrebbe subito suscitato una serie di consensi anche tra l'elettorato, che sarebbero andati oltre ogni aspettativa.
Tredicesimo
Si tenne a Roma dal 18 al 24 marzo 1976, «aperto» oltre ai delegati e al pubblico tradizionale, a moltissimi altri invitati. Sembrava infatti, con la segreteria Zaccagnini, di essere giunti ad una svolta perché egli parlava apertamente di partito nuovo. Diceva infatti: «il primo e naturale elemento di identificazione del nostro partito sta proprio in quell'aggettivo cristiano che qualifica la nostra presenza, la nostra iniziativa politica. Bisogna però superare l'idea convenzionale della Dc come partito cattolico... in realtà noi dobbiamo rifarci all'intuizione sturziana e ribadire che la Dc non è il partito cattolico, non pretende di rappresentare la Chiesa, il mondo cattolico nella vita politica, non chiede e non ottiene il consenso per motivi religiosi. La Dc è un partito di cattolici che rappresenta quei cittadini, cattolici e no, che ne accettano il programma politico e la sostengono con il loro suffragio». E sollevando la «questione morale», ribadiva: «il tema dei rapporti tra morale e politica, il rifiuto del macchiavellismo, la denuncia del malgoverno e della corruzione del vecchio assetto fascista e prefascista di potere furono gli argomenti di una grande battaglia della generazione dei popolari della nostra prima generazione del dopoguerra. Riconosciamo che oggi quei valori appaiono offuscati e che si è verificata una progressiva perdita di tensione morale nella nostra battaglia politica. Riprendere slancio su questi temi, essere noi stessi promotori esigenti di rigore morale diventa oggi per la Dc condizione di vita, necessità improrogabile per riprendere il rapporto di fiducia con il nostro elettorato». «Il paese guarda a noi con la speranza che dal nostro rinnovamento incominci una nuova stagione storica, un diverso cammino dell'italia».
Zaccagnini confermò poi l'impegno del partito per i problemi dei giovani, del mondo femminile, del Mezzogiorno, per più stretti rapporti con la cultura e con il sindacato, per, infine, affrontare il tema dei rapporti con il partito comunista: riconosciuto al Pci il carattere di una forza e di un partito popolare operante ai vari livelli della vita nazionale, il segretario democristiano sottolineò l'incompatibilità tra una forza politica di ispirazione cristiana ed una marxista e propose al Pci un confronto costruttivo, ipotizzando che, pur nel riconoscimento delle «perma- • nenti diversità ideali e politiche, emergessero, accanto alle divergenze, anche punti di convergenza».
Alla relazione introduttiva del segretario politico fece seguito un dibattito contrastato che vide alternarsi alla tribuna congressuale i maggiori esponenti del partito: da Aldo Moro a Fanfani; da Piccoli ad Andreotti, a Forlani, a Donat Cattin, Bodrato, Granelli, De Mita e Bisaglia. Dal complesso di questi e di altri numerosi interventi, tutti appassionati e dallo spirito unitario, sebbene non privi di spunti polemici, apparve chiaro che i congressisti si erano divisi, grosso modo, in due blocchi contrapposti: che si fronteggiavano con un evidente equilibrio di forze come poi dimostrò l'esito della votazione finale che portò alla conferma di Zaccagnini alla segreteria politica.
Fu infatti la prima volta che ad eleggere il segretario politico fosse il Congresso e non più il consiglio nazionale. Il 18 marzo, mentre il dibattito congressuale era appena agli inizi, ma già infuocato (molti gli interventi contrastati da una platea rumorosa e inquieta), Bartolo Ciccardini presentò alla presidenza una mozione che proponeva la elezione del segretario politico dai delegati al Congresso. La mozione di Ciccardini fu a lungo valutata anche perché richiedeva alcuni mutamenti allo Statuto del partito. Alla fine, tutte le perplessità furono vinte e si decise per l'elezione diretta del segretario politico.
Tra gli interventi ricordiamo quello di Aldo Moro che fu un ennesimo e nobile richiamo alla tutela del bene prezioso dell'unità del partito: «lo credo – egli disse tra l'altro – che le differenze riscontrabili oggi, destinate ad animare compostamente il clima congressuale, non siano più laceranti ed incisive di quelle che abbiamo conosciuto nella nostra storia trentennale. Non c'è una linea di confine che divide due mondi. C'è una comunicazione tra noi. C'è continuità tra noi, pur nella varietà delle posizioni».
Il Congresso intanto procedeva e si giunse alla fase finale e più attesa: quella della elezione del segretario politico. Mentre stava per scadere il termine fissato per la presentazione delle candidature, Forlani, superando la sua riluttanza, accettò di scendere in campo e presentò la propria in contrapposizione a quella di Zaccagnini. Il risultato dello scrutinio fu il seguente: 885.500 voti congressuali (51,5%) al segretario uscente; 831.500 a Forlani.
I risultati elettorali furono i seguenti: Zaccagnini venne eletto dal congresso con un vataggio risicato, 51,5 per cento, ma l'impegno unitario del partito non ne uscì incrinato. Il consiglio nazionale risultò così formato: lista numero 1 (fanfaniani, andreottiani e dorotei 52 seggi; lista 2 Zaccagnini (Moro, Rumor, Colombo, Cossiga, Donat Cattin, De Mita e Gullotti) 62 seggi; lista 3 (gruppo dei 15 capeggiati da Arnaud e Prandini) 6 seggi.
Quattordicesimo
In preparazione del Congresso nazionale da tenersi in febbraio dell'80, nel settembre del '79, si tenne un consiglio nazionale caratterizzato da due schieramenti: uno che faceva capo a Forlani e l'altro a De Mita, il primo auspicava una collaborazione con il Psi e un nuovo centro-sinistra, il secondo auspicava una politica che coinvolgesse nuovamente il Pci, mettendo in campo il problema stesso della rifondazione dello Stato.
De Mita e Forlani interpretano quindi le due anime politiche del partito. Su questa base si arrivò al XIV Congresso che si tenne a Roma dal 15 al 19 febbraio dell'80 e si aprì con la relazione del segretario politico Benigno Zaccagnini: «nella presente situazione», esordì il segretario, rilanciando la politica di solidarietà nazionale, «noi non possiamo assumerci la responsabilità di accogliere la proposta di un esecutivo che prevede senza chiarimenti la partecipazione comunista, ma non possiamo nemmeno assumerci la responsabilità di respingerla pregiudizialmente, senza una preventiva verifica dell'esistenza delle condizioni politiche che riteniamo irrinunciabili. Perché non possiamo correre il rischio di trascinare il paese ad ulteriori elezioni anticipate senza alcuna prospettiva di risolvere neppure in quella sede il problema della governabilità: le prospettive sono difficili, ma un discorso può essere aperto a condizione che si valutino le reali possibilità di ricostruire una politica di sol.idarietà nazionale il cui grado e la cui intensità dipenderanno dal grado e dall'intensità di convergenza che è possibile verificare sulle questioni di politica interna, economica ed internazionale».
Su questa relazione si svolse un ampio dibattito in cui si sentì la mancanza della genialità politica di Moro che i delegati ricordarono con il seguente slogan: «Moro qui con tutta la Dc». De Mita ripropose il problema del rapporto con il Pci all'insegna del rinnovamento istituzionale, precisamente De Mita sostenne: «c'è bisogno di larghe unità, di grande consenso, ma è ipotizzabile una unità tra forze politiche che la cultura, la storia, l'impegno politico praticato ha modellato come·forze antagoniste, fra loro antitetiche e perciò alternative? Certamente no! Se il riferimento è al loro passato, alla loro cultura o meglio a quelle che furono le loro ideologie. Ma quale di queste forze è ancora oggi orgogliosa delle proprie certezze? Quale non è stata messa in crisi per le sue convinzioni o per la propria esperienza di fronte ad una realtà che è diventata, anche in forza della sua evoluzione, più esigente, più importante, che ha urgenza di comporre un quadro di riferimento ed un qualche equilibrio che ne regoli la convivenza? Se ognuno di noi, se ogni forza rimane com'è, la prospettiva è soltanto la paralisi e non vi è altra iniziativa che l'inerta prolungarsi di questo stato di immobilismo e di rovina. È necessario quindi uno sforzo generale, un grande impegno, uno smisurato coraggio per liberarci dalla pigrizia, per uscire dalle secche dello schematismo ideologico, per rivivere nella pratica di oggi le grandi idealità di pace, libertà e giustizia. «Non vi è dubbio che se si è presi dal groviglio dei ricordi e delle motivazioni del suo passato, ipotizzare un apporto del Pci a questo disegno può sembrare contraddittorio e forse ingenuo. Oggi nel Pci c'è tutto e il suo contrario. È cresciuto tanto che la mediazione ideologica del suo sostanziale interclassismo di fatto non regge più.
E non tanto per le sue contraddizioni ma per la dichiarata indisponibilità del Pci a perseguire un disegno rivoluzionario per la realizzazione di un socialismo che ora riesce a definire appena per il suo rifiuto di ripetere i modelli delle sue esperienze storiche: i cosiddetti socialismi reali. Si direbbe quasi, anche se storicamente dalla parte opposta, che è la storia parallela della Dc. Sono in qualche modo così simili da potersi contrapporre; eppure così diversi da non potersi alleare.
Possono solo collaborare per trasformarsi. Anche il Pci è attraversato dalle contraddizioni che sono proprie della complessa società nostra. E così com'è, rischia di rimanere impantanato, tra il ricordo non più vitale del mito che lo ha alimentato e la necessità di realizzare in qualche modo la proposta politica che lo ha fatto crescere fino alle attuali dimensioni. E questo passaggio nessuno può compierlo da solo, non può avvenire senza un disegno più vasto e generale, se insieme non facciamo crescere quel complesso di condizioni per cui anche il Pci è forza di governo in un comune contesto democratico.
Perciò penso che l'on. Berlinguer prenda un grosso abbaglio quando ipotizza per il Pci in termini rigidi e alternativi, un ruolo di partecipazione al governo o di opposizione».
Gli interventi di Ferrari Aggradi, di Ruffini, di Russo, di Arnaud, sostennero inconciliabili le posizioni della Dc con quelle comuniste. I dorotei, a loro volta, ribadirono ulteriormente tale inconciliabilità. Forlani, Bisaglia e Rumor dissero a chiare lettere un NO al governo con il Pci. In particolare Bisaglia sostenne: «sui problemi posti dall'emergenza non si sono create le condizioni nuove che consentano di spingere la politica di solidarietà nazionale sino alla formazione di un governo insieme al Pci». Rumor in particolare sostenne: «Esistono ragioni responsabili e obiettive che non consentono di ritenere possibile la costituzione di un governo con il Pci».
Il Congresso dunque respinse a larga maggioranza ogni intesa di governo con il Pci. Questa decisione fu espressa in un documento che accomunava come «Preambolo» le cinque mozioni presentate da dorotei, fanfaniani, cartello di Donat Cattin-Rumor-Colombo, dagli amici di Prandini e da Proposte che avevano ottenuto oltre il 60% dei voti precongressuali.
Un altro documento concordato tra area Zac e Andreottiani rilanciava la solidarietà nazionale e sollecitava un confronto con il Pci senza pregiudiziali. Il preambolo, presentato da Donat Cattin, ottenne il 58,9% dei voti e fu costituito da «Iniziativa Popolare» cui andavano 38 consiglieri, Proposte cui andarono 8 consiglieri, Forze Nuove 20 consiglieri e Nuove Cronache 20 consiglieri.
Non aderirono al preambolo l'area Zac (46 consiglieri) e gli Andreotti (20 consiglieri). Flaminio Piccoli succedette a Zaccagnini guidando l'esperienza del «Preambolo» che privilegiava il rapporto con il Psi, chiudendo definitivamente, anche da parte Dc, l'esperienza della solidarietà nazionale.
Quindicesimo
Tenutosi a Roma dal 28 aprile al 2 maggio del 1982, decreta la fine del preambolo e elegge segretario De Mita con la convergenza sulla sua candidatura dei gruppi che fanno capo a Piccoli, Andreotti e Fanfani, il cosiddetto PAF, oltre che a tutta l'area Zac che lo aveva collocato come suo leader.
Nella sua relazione De Mita disse: «Mi candido segretario non come candidato della sinistra Dc, ma come il candidato della Dc. Se mi va bene i miei più stretti collaboratori saranno solo volti nuovi, li sceglierò senza tener conto dei mosaici di corrente e senza lottizzazioni». Riguardo al problema centrale del Congresso che verteva sui rapporti con il Psi, De Mita dichiarava che il Psi deve abituarsi e presto a trattare con la Dc non come con un partito in svendita o moderato: «la Dc è un partito popolare, democratico, con proprie idee, indicazioni e programmi. Dobbiamo rimanere una forza centrale sull'equilibrio del paese; le moderazioni, le tolleranze e le prudenze sono virtù tollerabili solo a una condizione: quelle che vengono recuperate insieme le condizioni di un confronto civile ad alto livello perché noi abbiamo idee e programmi. Il Psi si candida alla direzione del governo, si pone come partito della centralità, ma anche noi siamo candidati alla direzione politica del paese. È possibile armonizzare le due esigenze della Dc e del Psi, perché nel paese non vi sono le condizioni politiche per una alternativa alla Dc e quindi per un governo tra Pci e Psi. Ormai il Pci ha scelto la strada dell'alternativa. Se i socialisti non hanno in mente di cambiare maggioranze le elezioni sono incomprensibili.
Esistono infatti in questo parlamento le condizioni per un confronto su una comune prospettiva che salvi non la legislatura ma la democrazia».
De Mita rappresenta il cambiamento, la nuova Dc. Ed infatti anche gli esterni sono con lui. La sua candidatura era infatti già emersa dal- 1'Assemblea nazionale aperta agli esterni del novembre del 1981 in cui De Mita appariva come il leader della rifondazione della Dc, che cerca una nuova legittimazione attraverso il consenso del popolo democristiano. Compito di un partito in crisi è infatti per De Mita «la riscoperta delle ragioni culturali che hanno caratterizzato la sua presenza e la sua forza in una società, l'adeguamento delle strutture e il rinnovamento se è il caso del personale dirigente». La sua relazione puntava tutto sul recupero delle ragioni ideali del partito e sulla ricostruzione del radicamento sociale della Dc. Per attuare questo compito De Mita auspicava l'elezione diretta del segretario da parte del Congresso che lo vedrà vincitore nella contrapposizione con Forlani, sceso in campo all'ultimo minuto, facendosi sostenitore dell'alleanza con i socialisti, in alternativa alla linea di De Mita che mette in primo piano l'adesione del sistema verso la democrazia compiuta.
Piccoli segretario uscente non si presentò: «Sono convinto che continuare l'opera di trasformazione del partito richiede energie nuove».
De Mita risultò quindi eletto con il 55,14% dei voti, mentre al candidato Forlani andò il 42,16%.
La lista n. 1 (Fanfani, Piccoli, Andreotti) ottenne il 34,74% e la lista n. 2 (Forlani, Bisaglia, Donat Cattin, Colombo, Rumor, Mazzotta, Prandini, Vittorino Colombo e Forlaniani) ottenne il 35,03%; la lista n. 3 dell'area Zac ottenne il 30,23% dei voti.
Sedicesimo
Eletto segretario De Mita ha davati a sé un fermo compito: riaccendere la comunicazione fra la gente e il partito non tradendo le aspettative che la sua elezione diretta dal Congresso ha dato con la promessa della nuova Dc. De Mita si muove con analisi in profondità e con strategie di ampio respiro avvertendo le correnti democristiane che rifarà il partito senza farsi da loro condizionare perché essendo eletto dal Congresso deve rispondere soltanto agli iscritti.
In un'intervista dell'ottobre dell'82 dichiara: «Il mio pensiero è di rimettere il partito in contatto con la società italiana e di farne il tramite e l'espressione di quanto in essa vi è di meglio». Il presidente del consiglio per la prima volta è un laico, il repubblicano Spadolini e al censiglia nazionale del 15 ottobre dell'82 De Mita dice: «per noi le collaborazioni di governo si realizzano nell'ambito dell'alleanza dei 5 partiti che sono insieme al governo. De Mita, in occasione del dibattito sulla fiducia al governo Fanfani, dà corpo al suo discorso sulla nuova statualità. Egli dice: «Libertà dal bisogno certo, ma anche libertà dal peso degli apparati, dall'invadenza delle buone zie, dall'eccesso delle discrezionalità, dalla pratica delle corruzioni, dall'inefficienza delle prestazioni. Libertà perciò non solo di singoli ma di gruppi, di sindacati, di associazioni, di organizzazioni e di interessi diversi. Libertà quindi che esalta le autonomie, che corrisponde al pluralismo della società civile recuperando in questo l'intuizione feconda e propria del patrimonio culturale e dell'impegno originario dei cattolici democratici.
Durante la campagna elettorale dell'83 De Mita si dimostra preoccupato per il distacco dalla politica di vasti sèttori che coinvolge soprattutto i ceti che dovrebbero essere più sensibili ad una evoluzione della nostra società.,C'è disaffezione preoccupante dice De Mita che cresce anche con motivazioni culturali raffinate fino a contestare la legittimità delle forze politiche, delle istituzioni, della repubblica, della democrazia».
«Temo il rifiuto della politica per colpa dei poUtici. Il qualunquismo di 30 anni fa riguardava gruppi sociali culturalmente impreparati ma il rifiuto della politica oggi è un'altra cosa: è un campanello d'allarme molto più preoccupante perché proviene da gruppi sociali culturamente e professionalmente qualificati».
La campagna elettorale di De Mita punta tutto sulla proposta di un patto di legislatura. Chiede cioè agli alleati di impegnarsi davanti agli elettori su un programma e a realizzarlo insieme. Le elezioni però danno un risultato deludente perché la Dc tocca il suo minimo storico scendendo al 32,9% con la perdita del 5,4% dei voti rispetto alle politiche del '79.
De Mita il 18 luglio del 1983 analizza la sconfitta e dice che il paese ha dato un voto di dissenso non verso la Dc ma verso l'intero sistema politico con una inedita dispersione che ha portato in Parlamento addirittura 14 partiti o movimenti. Perché questa polemica contro il sistema? «Perché c'è una richiesta insoddisfatta di moralità, vi sono esigenze insoddisfatte di giustizia e di libertà. L'elettorato ha punito la Dc perché ritenuta responsabile principale se non esclusiva di tutto ciò che non va. Secondo De Mita tutti i partiti si sono ridotti al rapporto con le istituzioni perdendo il rapporto con la società e devono perciò trovare, rinnovandosi questo rapporto con la società. La Dc deve rinnovare il suo vecchio modello ricollegandosi con la società che cambia e che cresce. È quello che De Mita cercherà di fare puntando su nomi nuovi, superando il vecchio sistema correntocrato che aveva ridotto il partito a burocratica gestione del potere e che gli elettori avevano punito. De Mita ingaggia quindi una lotta frontale contro le correnti che chiama gruppi ai quaH non riconosce più una ispirazione ideale. De Mita al Congresso ottiene che non si voti sulle liste delle correnti ma su due listoni: quello dei suoi sostenitori e quello dei sostenitori di Vincenzo Scotti che si è candidato contro di lui. La sua lista ottiene un grandissimo consenso ottenendo 1'87% dei voti e De Mita viene riconfermato segretario per la Il volta. La sua ampia relazione è centrata sul problema del rinnovamento del partito e sull'unità dei democristiani che è «garanzia e strumento per il risanamento della Dc e per una più stabile e fruttifera stagione della Democrazia cristiana». Egli dice che la Dc si salverà se saprà restare unita e la Democrazia italiana potrà rigenerarsi se la Dc saprà vivificarla con la propria unità, una unità non di facciata, non conformistica, non rassegnata ma unita ricca di idee, di sentimenti, di propositi e di comportamenti.
«La politica italiana nutre una grande speranza: si trova alla vigilia di una nuova importante I ripresa perché la Dc ne assume la guida con razionalità e assieme con la stessa passione civile che la contraddistinse alle sue origini, al momento della prima ricostruzione democratica della nazione». E conclude: «La partita decisiva per la formazione certa della democrazia in Italia resta affidata alla capacità unitaria della Dc di saper guidare la trasformazione sociale civile e politica del paese. Resta affidata alla nostra capacità di scrutare l'avvenire sapendo cogliere la sfida che l'ignoto ci pone. A questa sfida non possiamo, non dobbiamo, non vogliamo sottrarci».
De Mita ottenne il 56,62% dei voti contro il 32,30% ottenuto da Scotti, nell'elezione diretta. Era la vendetta della corrente.
Nel grande listone di appoggio a De Mita che ottenne 1'87,4% vi furono area Zac, Fanfaniani, Andreottiani, Forlaniani e gli amici di Bisaglia e Piccoli. Fuori rimase il gruppo di Donat Cattin con il 12,6% dei voti.
Diciassettesimo
Tenutosi a Roma, dal 26 al 30 maggio 1986, si apre con la coraggiosa relazione del segretario De Mita: «Dobbiamo avere il coraggio di sperimentare il nuovo; di marciare nel senso della storia e di proporci come partito che ha insieme coscienza del passato e del presente ma intelligenza e sguardo rivolto al futuro». Presidente del consiglio è l'on. Bettino Craxi al quale De Mita dà atto volentieri del ruolo positivo che personalmente ha svolto alla guida del governo. Il pensiero di De Mita è concentrato in 220 cartelle, suddivise in 5 capitoli, in cui De Mita con orgoglio rivendica il fatto di essere segretario di un partito che ha acquistato prestigio e autorevolezza. «La Dc, egli dice, è riuscita a riattivare la corrente di fiducia che sembrava essersi interrotta nella elezione dell'83. È stato un lavoro paziente che ha consentito alla Dc di tornare al governo di quasi tutte le grandi città ma anche di dare un determinante contributo alla stabilità politica che riteniamo necessaria per non vanificare gli sforzi fatti e non rendere effimeri i segni positivi che ora possiamo registrare». Per questo egli dice «non abbiamo accettato atteggiamenti provocatori e inviti alle risse che pure sono intervenuti né spinte centrifughe».
Riguardo al futuro De Mita afferma «non basta la governabilità ma ci vuole un'adeguata capacità di governo, essenziale al mantenimento e al consolidamento delle alleanze che altrimenti faticano a restare in piedi "occorre", continua il segretario, un nuovo equilibrio tra diritti di libertà e doveri di solidarietà o più in generale tra potere e responsabilità, consapevoli del ruolo limitato della politica che non consente l'occupazione della società in nome di una ideologia e reclama anzi un partito mosso da una profonda e irrinunciabile ispirazione morale».
Per quanto riguarda il problema della guida del governo, De Mita ribadisce che il pentapartito «deve possedere una strategia visibile pur nel diritto di ognuno di prevedere per se fattive diverse collocazioni da presentare con franchezza alla valutazione degli elettori. La strategia è la ragione stessa della coalizione: «il Psi deve rendersi conto che per la legge dei numeri non è praticabile l'alternativa laico-socialista e la posizione della Dc è stata ed è culturalmente, storicamente e- politicamente alternativa a quella del Pci. Riguardo alla Dc De Mita ammonisce il partito a ritrovare la capacità di recuperare lo spazio proprio che è circoscritto ma insostenibile peFché la Dc è nata, è stata ed è un partito di popolo.
Per facilitare questo processo bisogna stimolare l'apparato individuale e collettivo uscendo dalla vecchia logica delle correnti e valorizzando i processi di aggregazione avvenuti a livello regionale chiarendo a tutti che quello che abbiamo voluto non è non può essere a favore di qualcuno, contro qualcun altro».
Il Congresso si conclude con il trionfo della linea politica di De Mita che viene eletto, per la lii volta consecutiva segretario della Dc. Il suo è un record: nessuno prima di lui ha avuto tanto consenso, ottenendo l'assenso del 74,53% della Dc che comprende una larga maggioranza «detta grande lista» che fa capo a De Mita, Fanfani, Forlani, Piccoli, Bernini, Colombo, Goria, Scotti e Zaccagnini, con oltre 9.000.000 di voti e con 122 consiglieri sui 160 membri del consiglio nazionale. La lista di Andreotti ottiene il 16,20% e 26 consiglieri e la lista di Donat Cattin il 7,4% e 12 consiglieri.






































































