Moro e il partito

Una battaglia di idee e di valori

Nuova Politica - Una battaglia di idee e di valori pagina 15
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Ripercorriamo la storia di Aldo Moro in un partito che sul piano dei numeri, ma determinante su quello della leadership delle idee.

A dieci anni dalla morte, una ricostruzione seria ed attendibile del pensiero e dell'opera di Aldo Moro, la cui vicenda biografica è intrecciata con quarant'anni di storia italiana, non può ancora nutrire ambizioni esaustive: essa, più umilmente, deve prendere di mira di volta in volta ed approfondire con gradualità singoli aspetti, taluni periodi, certi problemi o situazioni del lungo itinerario umano, politico e culturale dello statista pugliese. Solo così, attraverso sforzi differenziati ma convergenti, sarà forse possibile giungere ad un approccio non superficiale intorno al significato complessivo della sua opera, nonostante l'attuale e comprensibile carenza di documentazione e nonostante la sua vicinanza alla nostra pretesa di valutazione storica. Questa necessaria sorveglianza critica s'impone soprattutto per quanto riguarda l'ultima stagione della sua opera di politico: la quale, essendo stata bruscamente interrotta, ha dato adito ad interpretazioni contraddittorie e spesso strumentali, vale a dire sollecitate non tanto da esigenze di approfondimento e di comprensione, quanto dalla volontà di utilizzare la perdurante influenza del suo magistero a sostegno di questa o quella soluzione politica immediata.

Tuttavia perché lo sforzo di autolimitazione della ricerca storica non si risolva alla fine in un processo di frantumazione del disegno organico e coerente che Moro persegue in ogni fase della sua azione, è anche necessario non trascurare per nessuna ragione analitica l'impianto complessivo del suo pensiero in rapporto non solo ai valori culturali di fondo che lo alimentano ma anche ai condizionamenti oggettivi imposti dalla realtà storico-politica nella quale egli è via via tratto ad operare. E di fatto, in ogni azione o fase della vita di Moro non è arduo rintracciare un modo di essere, di riflettere e di agire che attiene a ragioni che trascendono il dato immediato e che si iscrivono in una più vasta e generale ispirazione culturale che assegna uno stile inconfondibile ad ogni suo gesto o parola. In sostanza, il pensiero e l'azione di Moro si muovono all'interno d'una duplice assillante preoccupazione tesa, da un lato, ad osservare, indagare, a scrutare senza pregiudizi di sorta o pigrizia intellettuale l'evoluzione della società, del costume, delle opinioni degli interessi e delle classi e, dall'altro, a ricercare all'interno d'una realtà così diversificata e contraddittoria tutti gli elementi e le tensioni che possano contribuire a ricondurre ad unità ed a coesione l'evoluzione complessiva della società.

Da un lato, una grande spregiudicatezza critica ed una attenzione quasi religiosa per tutto ciò che si affaccia alla realtà con i caratteri della novità e della rottura degli equilibri tradizionali; dall'altro, una grande capacità di sintesi ed una notevole forza demiurgica nel saper utilizzare tutte le spinte, tutte le potenzialità, tutte le opportunità per assegnare un destino razionale ed unificante ai processi in atto e per allontanare il rischio della dispersione particolaristica latente nella libera manifestazione delle forze sociali e politiche. Abbiamo voluto riproporre oggi, sinteticamente, la grande lezione di Aldo Moro. In un momento cioè, in cui si moltiplicano le letture distorte e denigratorie sull'azione di uno dei più grandi statisti che l'Italia Repubblica abbia mai posseduto.

Due elementi distintivi di Aldo Moro

Credo che siano almeno due le ragioni che stanno alla base dell'antipatia·che Moro riusciva a suscitare presso certi ambienti della cultura italiana:

1. La prima riguarda la sua straordinaria intelligenza e preparazione culturale. In una società come la nostra, abituata per tradizione storica a vedere la cultura separata dal potere e gli intellettuali dai politici, Moro rappresentava un segno di contraddizione e una vistosa anomalia. A certi politici praticoni e cinici, Moro non piaceva perché sapeva assegnare un ampio respiro culturale e strategico a ogni sua scelta politica; a certi intellettuali, abituati a considerare i politici miopi gestori del- 1'esistente e a ritenere se stessi detentori esclusivi del potere, nemmeno. A detta degli esperti, il suo famoso discorso parlamentare in occasione dello scandalo della Lockheed ha rappresentanto, prima ancora che un evento politico, un'altissima lezione di diritto processuale da inserire di peso nelle antologie universitarie.

Orbene, quel discorso non piacque né to) e responsabilità penali (che sono sempre personali e perseguibili con lo strumento indipendente della magistratura).

2. La seconda ragione credo risieda nel fatto che lo statista pugliese, a differenza di tanti intellettuali nostrani, non era un dottrinario: non usava cioè la cultura per «mettere le brache al mondo» né come occasione di affermazione personale, bensì quale strumento per meglio penetrare nella realtà delle cose e per guardare al di là degli slogans e delle banalità diffuse. Il fatto è che Aldo Moro aveva presente in tutta la sua corposa virulenza, lo sviluppo repentino e prodigioso della società italiana negli anni della sua lunga permanenza ai vertici della vita politica nazionale: uno sviluppo che aveva visto in pochi decenni un paese arretrato e autarchico diventare una potenza industriale tra le prime del mondo, che aveva provocato il passaggio di circa venti milioni di abitanti dall'agricoltura all'industria e che aveva sconvolto l'intero territorio nazionale, nei suoi costumi, nelle sue tradizioni, nei suoi modi di essere e di pensare.

Quando Moro affermava che di crescita si può anche morire aveva ben presente tutto ciò: temeva cioè che l'equilibrio delicato e precario tra industrializzazione accelerata ed esigenze democratiche potesse alla fine spezzarsi e far precipitare l'intera società verso esiti autoritari. Perciò egli cercava di tenere saldamente sotto il controllo della ragione le passioni politiche e gli impulsi velleitari: e sorrideva di fronte a tanti rivoluzionari da salotto che volevano imprimere l'acceleratore a una società che rischiava di morire non per asfissia o staticità economica e sociale ma per eccesso di velocità nella sua crescita. Per questi motivi egli era guardato con diffidenza e ostilità da tutta una cultura portata ad apprezzare non chi lavora duramente per trasformare il mondo, ma solo chi si attarda a contemplarlo o a commentarlo: come se fossimo in presenza d'una umanità senza mani e come se la fortuna civile ed economica del nostro paese non risiedesse nell'oscura, tenace, intelligente operosità d'un esercito infinito di artigiani, di lavoratori, di operatori lontani dal clamore delle mode e dai vezzi delle dispute politico-letterarie. Questa acuta percezione del paese reale e dei suoi problemi concreti, mentre a osservatori superficiali poteva apparire rinuncia all'iniziativa e tendenza inoperosa al rinvio, conferiva invece grande forza realistica e autorevolezza all'azione politica di Moro e di conseguenza lo allontanava dalle elaborazioni astratte di tanti giacobini da tavolino che spesso affollano la prima pagina dei giornali. Temiamo che, molti di costoro non potendo ergersi al suo livello, oggi cerchino con ogni mezzo di trascinarlo in basso; e allora azzardano assurdi paragoni con Mussolini, gli contrappongono il senso dello Stato che ebbe Giolitti, parlano di viltà durante la terribile prigionia e così via. E così, temiamo, continueremo ancora per molto tempo. Ma alla fine, attraverso la selezione severa della storia, risuJterà a tutti ben chiaro dove stanno i giganti e dove invece vanno collocati i pigmei.

La concezione del partito e i rapporti con il mondo cattolico. L'iniziativa politica di Moro, andava esercitata soprattutto all'interno del partito. Infatti se la situazione appariva per molti aspetti «bloccata», a maggior ragione il rinnovamento – non potendo essere affidato a meccanismi di ricambio esterni – doveva essere soprattuto interiore. A questa responsabilità storica e morale, Moro era solito richiamare con accenti vigorosi i colleghi di partito. La DC- affermava – deve essere «alternativa a se stessa»: trovare cioè dentro di sé le spinte per rigenerarsi e farsi così interprete delle più vaste e profonde esigenze innovatrici presenti nel paese.

Senza questo sforzo costante di rinnovamento e di liberazione nei confronti di tutto ciò che di gretto ed egoistico appesantisce l'azione politica, il potere avrebbe rischiato di trasformarsi in una trappola mortale non solo per la DC ma per la stessa democrazia italiana. In una delle fasi più tormentate della vita interna del partito e della lotta per il potere Moro così ammoniva: «Ci deve pur essere, più in fondo una ragione, un fondamento ideale, una finalità umana per i quali ci si costituisce in potere e il potere si esercita. Al di fuori di essi, al di fuori del rispetto di un criterio di moralità, e quindi, tra l'altro, dello svolgersi di un'autentica democrazia interna... un partito cessa di essere un punto di riferimento efficace e viene meno la sua attitudine a prospettare ideali credibili, strumento di un ordinamento sociale libero e progressivo. È solo dall'accettazione inc;ondizionata di una ragione morale che si sviluppa con coerenza il patrimonio delle nostre idealità sociali ed il complesso degli impegni per il nostro tempo».

E quando l'incrinatura tra la gestione del potere e le finalità ideali minacciava di superare i limiti di guardia, per Moro non esistevano dubbi. Bisognava rompere con le false unanimità e le complicità diffuse. Con amarezza ma dietro l'assillo d'un imperativo etico, era allora necessario fare violenza anche alla nostra natura ed al calcolo politico: porre la questione morale sorretti unicamente da una fiducia incrollabile nell'uomo e dalla convinzione che non esistono, per chi sa condurre battagl -4isinteressate, «fortezze chiuse ed imprèndìbili».

«Per quanto riguarda noi – affermava nel maggio d l 1969 – siamo uomini liberi: non facciamo paura e non abbiamo niente da promettere. La nostra è una battaglia di idee e di valori che, fortunata o sfortunata che sia nell'immediato, infine intaccherà le radici di un sistema che riteniamo anacronistico e inaccettabile. Noi ci auguriamo, malgrado tutto, di non essere di fronte ad una fortezza chiusa ed imprendibile. Abbiamo, per sospingerla ad aprirsi, più che la forza, le idee ed i valori nei quali crediamo». Era questo, oltretutto, anche l'unico modo serio e corretto per guardare al paese, ai suoi problemi, alla sua storia. Era – secondo Moro – il mezzo insostituibile per «aprire finalmente le finestre di questo castello nel quale siamo arroccati, per farvi entrare il vento che soffia nella vita, intorno a noi. Non è un fatto di politica di partito interna, di distribuzione o redistribuzione del potere. Io non so che fare di queste cose. Vorrei dire solo che oggi un grande dibattito con l'intero paese del maggiore partito italiano è strumento essenziale di sviluppo politico, un modo per dominare gli avvenimenti, non costringendoli fin quando si può, ma assumendoli come dati importanti, inserendoli ordinatamente in un'autentica dinamica sociale».

Brani come questi - proprio perché scritti in una fase polemica ed inconsueta dell'attività politica di Moro – ci consentono di giungere al cuore della sua concezione del partito e dell'azione che andava promossa perché, nelle strettoie della «guerra di posizione» imposte dal sistema politico, potesse svolgersi una costante iniziativa di movimento capace di anticipare e governare una società in tumultuosa espansione come la nostra.

Moro è, innanzitutto, consapevole del fatto che il partito rappresenta – sia dal punto di vista sociologico come da quello ideologico – solo una parte, ancorché estesa, della società: esso si richiama cioè a determinati strati ed interessi sociali e fa leva su una precisa concezione del mondo e della vita.

Egli, tuttavia, è anche convinto che tutto ciò rappresenta solo un elemento – ancorché decisivo – della costituzione del partito e delle ragioni che ne determinano la personalità politica ed il successo storico. L'altro elemento sta nella sua capacità di ricavare dalla difesa di specifici interessi sociali ed ideali «un progetto generale» che sia in grado di interpretare le attese dell'intera società e nel quale possano riconoscersi anche coloro che non votano né si richiamano a quel partito.

Dal rapporto organico e dialettico tra questi due elementi – l'uno riconducibile ai legami necessitanti di tipo sociale e elettorale, l'altro frutto dell'autonoma attività di elaborazione politica e culturale – scaturiscono la forza di attrazione e la capacità di guida del partito. Si tratta, naturalmente, di un equilibrio che non è dato una volta per tutte ma che va ricercato con ostinazione e pazienza proprio perché sempre nuove ed incalzanti sono le sollecitazioni provenienti dalla società... È certo, tuttavia, che quando uno dei due elementi viene meno oppure l'uno prevale sull'altro, il partito è destinato inesorabilmente al declino ed alla emarginazione: esso infatti si ridurrebbe o alla difesa statica dei propri interessi corporativi e confessionali oppure alla enunciazione astratta di temi culturali, validi forse per intrattenere un club di intellettuali non certo per incidere sulla realtà. A ben guardare, tutta la storia della DC – una storia lunga e complessa perché solidale con il cammino a volte spedito ed a volte tortuoso della società italiana dal 1945 ad oggi – potrebbe essere letta nella chiave interpretativa suggeritaci da Moro: non a caso il ruolo di governo della DC appare incerto ed appannato ogni qualvolta si spezza al suo interno un certo equilibrio ed ogni qualvolta la difesa di certi, ancorché legittimi interessi sovrasta o addirittura viene anteposta alla difesa degli interessi generali del paese. In effetti, proprio perché Moro possedeva una lucida consapevolezza intorno alla natura ed ai limiti del proprio partito, avvertiva con forza l'esigenza dell'apertura verso gli altri: ma proprio perché riteneva necessario il dialogo ed il confronto con gli altri, nutriva anche l'orgoglio di appartenere ad un partito capace di dare oltre che di ricevere. In questa azione volta a conciliare, in ogni congiuntura politica, «la coscienza di sé e l'apertura verso gli altri» andava dunque, rintracciato non solo il «segreto» del successo storico della DC ma anche la regola per la sua condotta futura.

«La DC – afferma Moro – è stata ed è un partito popolare e democratico e, lasciatemi dire, di ispirazione cristiana, senza che ciò voglia significare l'accettazione di una qualsiasi ideologia confessionale, senza che ciò voglia in nessun modo significare una attiva o passiva disciplina ecclesiastica, ma certamente noi rivendichiamo come contrassegno del nostro essere democratici, il fatto di essere ispirati agli ideali cristiani. Questa è la nostra natura, e quindi saremo giudicati obiettivamente e compiutamente nell'atto in cui si comprenda come la DC abbia saputo, di volta in volta, congiungere ed equilibrare fra loro, la coscienza di sé e l'apertura verso gli altri, rendendosi identificabile nel paese con i segni caratteristici che noi non abbiamo perduto, ma manteniamo intatti in questo momento. Abbiamo fatto alleanze con spirito aperto, non ci siamo arroccati a difesa, salvo che in qualche momento di au-- tentica emergenza; abbiamo voluto navigare in mare aperto ed anche quando qualcuno, e più di qualcuno, ha manifestato stupore, preoccupazione per qualche nostra scelta, si è potuto poi constatare, alla fine della esperienza, che avevamo avuto ragione di osare, che avevamo saputo assecondare il corso della storia, ma che facendo questo avevamo conservato il controllo degli avvenimenti, eravamo rima ti il partito guida della democrazia italiana. La consapevolezza che abbiamo della nostra natura, della nostra forza, della nostra capacità di penetrare nell'elettorato, di mobilitarlo non per caso – perché non è per caso che si mobilitano 14 milioni di uomini – ma questo non ci ha mai indotto a ritenere che noi sapessimo tutto ed avessimo tutto».

Pare inutile osservare come, per conseguire un simile equilibrio, il partito dovesse – secondo Moro – possedere una chiara visione dei rapporti col proprio entroterra sociale e civile e soprattutto con la Chiesa e con il mondo cattolico. Già dal brano testé riportato risulta quale significato attribuisse Moro al richiamo religioso: non l'accettazione d'una qualche ideologia confessionale né la regressione verso forme àttive o passive di disciplina ecclesiastica, ma una composta e autonoma assunzione dei valori cristiani all'interno d'una concezione limpida e vigorosa della democrazia. Fin dai primissimi scritti di Moro appare chiara questa impostazione. È stato scritto con acutezza che per Moro non sono mai esistite «alternative imbarazzanti», perché per lui il cattolico direttamente impegnato nell'azione politica non è chiamato a scegliere tra il tradimento di sé stesso per tener fede ai principi di libertà, né il tradimento di questi per tener fede alle proprie convinzioni religiose. Nel maggio del 1948 scriveva: «Per quanto è ferma la volontà di fare cristiano il mondo, per tanto è salva la libertà, senza della quale il cristianesimo sarebbe negato al suo principio».

Non è arduo rintracciare in questa identificazione tra libertà e cristianesimo qualcosa di più profondo dell'influenza mariteniana: un qualcosa cioè che sicuramente risale a quella cultura cattolico-liberale che venne sconfitta durante il Risorgimento e che, verso la fine dell'800, aveva trovato rifugio nella coscienza di pochi cultori o di avvocati di provincia come i Giorgio Montini ed i Luigi Bazoli: in uomini che seppero senza clamore infondere nelle opere sociali – cui diedero impulso – il senso d'una religiosità austera ricca di venature giansenistiche e manzoniane e d'un impegno civile aperto alle istanze più genuine della civiltà liberale.

Si tratta d'una eredità che, negli anni cruciali della formazione culturale e religiosa di Aldo Moro, è presente soprattutto nel magistero di Gian Battista Montini cui venne allora affidata la guida religiosa delle organizzazioni universitarie cattoliche ed al quale lo statista pugliese non a caso resterà profondamente legato per tutta la vita.

Non poteva, dunque, esistere antinomia tra democrazia e religione cristiana né in sede teorica né in sede pratica. Per Moro la prassi democratica intesa come concreto atteggiamento dell'animo doveva addirittura rappresentare la versione conseguente dell'esperienza religiosa vissuta con spirito di carità.

«La fluttuazione caratteristica del regime democratico – annotava nel marzo del 1947 – quel non so che di indefinito e di aperto che lq caratterizza, tanto rassomiglia alla carità, sempre pronta alla comprensione e alla salvazione, che il costume democratico ci sembra da considerare come del tutto rispondente all'esperienza cristiana della vita sociale».

Dunque, non una conciliazione a livello teorico, né solo l'assunzione della democrazia come nuova tecnica di governo: ma, molto di più, la scelta democratica quale corollario essenziale della scelta religiosa. A questa visione Moro non solo rimarrà fedele per tutta la vita, ma saprà conferire uno spessore particolare e sempre più intenso via via che aumenterà la sua responsabilità politica e via via che la democrazia si farà strumento concreto di liberazione e di integrazione nello stato di vaste masse popolari. Non è infatti possibile cogliere il significato autentico della autonomia e della laicità che Moro assegnava all'impegno politico se non si tiene conto del nesso organico tra ispirazione cristiana e ispirazione popolare che stava alla base della sua concezione del partito e dell'attività politica. Giustamente è stato osservato che la «sua è stata laicità di sintonia col popolo, sentito come realtà autonoma, non come subordinato ad altre realtà, da cui difendersi o da aggredire e nei confronti delle quali rivendicare autonomia o assumere posizioni di supremazia... In questo senso, fedeltà alla tradizione popolare e a quella cristiana non erano pensate come divise, ma come dimensioni complementari di una sola realtà complessa ed articolata». In sostanza, quanto più il partito accentua i propri contenuti popolari tanto più allontana da sé la minaccia degli «storici steccati»: i quali, a ben guardare, sono il frutto avvelenato di dispute estranee alla storia delle classi popolari né hanno radici nella loro coscienza che da sempre possiede acuto il senso della distinzione tra impegno religioso ed impegno civile. Questa fiducia di Moro nell'umanesimo popolare cristiano, per sua natura tollerante e laico, riecheggia quanto il GallaratiScotti veniva annotando all'inizio del secolo: «Nel conflitto secolare col potere civile dei pontefici, nella resistenza necessaria degli stati cristiani d'Italia alle invadenze politiche della Chiesa, il popolo stesso si è educato a una distinzione sottile tra ciò che nel cattolicesimo è verità eterna... e ciò che di esso, società visibile, è partecipe dei necessari conflitti di opinioni e di interessi mondani». «Per secoli – così concludeva il patrizio cattolico liberale – ghibellini e guelfi, lottando, hanno abituato la coscienza nazionale a distinguere nettamente tra religione e politica ecclesiastica e non è senza profondo significato che le città più fiere nella resistenza a Roma non si siano mai staccate dalla ortodossia cattolica».

Ciò spiega perché Moro fosse alieno dal prestarsi su questi temi a polemiche artificiose e strumentali e sapesse al tempo stesso difendere con tranquilla fermezza di fronte agli avversari tutto un patrimonio di valori custodito dalla coscienza popolare e cristiana del paese. Ancora una volta quanto in lui appariva dettato da eccessivo distacco o noncuranza, non era altro che visione superiore delle cose e lucida consapevolezza della forza di idee ed atteggiamenti che traggono da secolari esperienze storiche la ragione della loro radicata presenza e vitalità.

Tutto ciò conferiva una straordinaria autorevolezza ai suoi interventi non solo nei confronti di certa cultura laica ammantata di falso progressismo ma anche nei confronti di invadenze clericali che, con l'aria di difendere valori minacciati, sollevavano dubbi intorno all'autonoma capacità di giudizio e di iniziativa del partito. In questi casi Moro, in genere incline secondo l'espressione machiavelliana a «godere lo benefizio del tempo», interveniva con sorprendente tempestività e fermezza. Quando, nel febbraio del 1978 – cioè pochi giorni prima della formazione del governo con maggioranza parlamentare estesa al P.C.I. – sull'organo cattolico «l'Avvenire» apparve un articolo che suonava sfiducia verso la capacità di tenuta della DC nei confronti dei comunisti, la risposta di Moro fu immediata e precisa. Con il garbo consueto ma con determinazione, lo statista metteva in guardia il mondo cattolico dal compiere gesti incauti ed ammoniva come proprio interventi del genere rischiassero di indebolire il «potere contrattuale» della DC e, quindi, di mettere a repentaglio valori che non dovrebbero «interessare noi soli, ma anche altri».

Il rischio di trasformarsi in partito conservatore

Ma nel momento in cui incita il partito alla ricerca di nuove formule di presenza politica ed organizzativa, Moro ammonisce anche che una tale iniziativa ha senso solo se viene ad esaltare, non a deprimere ed a mortificare, la sua natura popolare. In concreto, mentre sollecita l'apertura al nuovo, avverte anche il rischio che, attraverso il varco delle novità, possano trovare spazio nel partito «ceti privilegiati» e «poteri antichi» destinati a stravolgere il «moto di eguaglianza e di giustizia che contraddistingue una società in progresso» ed a trasformare un partito popolare in un «partito conservatore e, quindi, parziale». Ma val la pena di riportare l'intero brano del discorso.

«Quel che è in gioco – afferma Moro – è ancora una volta la natura popolare del partito. Queste cose debbono essere riprese in esame in questo momen- , to con un interrogativo posto alla nostra coscienza. Non possiamo sperare di recuperare la nostra iniziativa, com'è pur richiesto, se non sia assicurata la nostra adesione all'anima popolare del Paese. La materia sociale, alla quale sin dall'inizio ci siamo applicati, non è di ceti privilegiati ma di masse popolari, non è di poteri antichi ma di poteri emergenti e destinati a fare nuova storia. Guai a noi se si respingesse o anche solo attenuasse il carattere evolutivo della nostra esperienza sociale. E cioè quel progressivo allargarsi dell'area del potere, quell'espandersi senza esclusioni dell'area del benessere, della dignità, della iniziativa fino a coincidere con l'intera realtà sociale. È questo moto di eguaglianza e di giustizia che contraddistingue una società in progresso e, per quanto riguarda la sua guida, un partito di progresso e quindi veramente popolare di fronte ad un partito conservatore e,quindi, parziale».

Lo sguardo di Moro è sempre pronto a cogliere ogni segnale di novità che si manifesta nel tessuto e nei comportamenti sociali, ma con l'atteggiamento di chi non teme tanto il ricambio in corso all'interno della DC, quanto lo snaturamento della fisionomia e del ruolo del partito cui egli assegna la funzione insostituibile di ricondurre a razionalità e ad unità il tumulto delle spinte pluralistiche e divaricanti che si dilatano nella società. Di qui la sua diffidenza a considerare di per sé positiva la tendenza volta a modificare in senso tecnocratico i connotati della ·oc secondo una direttiva ricavata da esperienze straniere e, secondo Moro sollecitata, «con estremo semplicismo ed una certa dose di rozzezza», da uomini come Kissinger.

Si chiedeva Moro: «Perché la DC non è stata in grado di produrre un progetto a medio termine come fatto dai comunisti e un abbozzo del tipo di nuovo Stato come hanno fatto i socialisti?». E risponde con la precisione di chi conosce a fondo la natura della DC: «La risposta è in parte nella nostra pigrizia e nella inerzia organizzativa. Ma anche nella circostanza che in qualche misura gioca a vantaggio della DC nel senso che essa è, almeno in parte, un partito di opinione, nel quale le cose non si progettano e vengono realizzate, ma semplicemente avvengono per la forza delle cose, per iniziativa spontanea perché la gente si assesta e si muove da sé».

Ho voluto ricostruire fedelmente alcuni tratti essenziali del pensiero di Moro perché, al di là degli atteggiamenti tattici e delle affermazioni occasionali, qui va rintracciato il senso esatto della sua ultima battaglia politica. Facendo risiedere la peculiarità storica e politica della DC nella sua ispirazione popolare e cristiana, Moro è portato in ogni istante, da un lato, a difendere il sistema elettorale proporzionale quale stru- . mento di emancipazione politica e di affermazione autonoma dei ceti popolari cattolici contro i ricorrenti pericoli di sudditanza a blocchi moderati e, dall'altro, a temere l'avvio dei processi, alternativi incontrollabili che rischiano di provocare fratture esiziali tra le clas- si sociali e di regalare, con esiti autoritari, ad altre forze politiche l'ansia di giustizia e di libertà che scaturisce «dal grande moto evolutivo della storia umana».

Questi tre elementi – la dimensione popolare, la difesa della proporzionale ed il ripudio dell'alternativa – non solo appaiono nel pensiero politico di Moro talmente fusi ed intrecciati per cui anche il venir meno di uno solo può comportare la caduta degli altri, ma rappresentano il riflesso d'una precisa ed irripetibile esperienza storica; sono cioè, prima ancora che un'indicazione soggettiva, un dato strutturale della lotta politica del nostro paese e del modo di essere delle forze politiche e sociali italiane. Ecco perché Moro scarta quasi con fastidio tutte le soluzioni e le proposte che, prescindendo dal contesto storico-politico italiano, tendono a snaturare i termini della lotta politica e ad inserire ostacoli artificiosi nel libero gioco delle forze politiche e sociali.

L'opera di Moro nella storia del Paese

Non è possibile, ovviamente, trarre conclusioni intorno all'opera complessiva di Aldo Moro senza aggiungere altre tessere importanti ad una vicenda che investe circa quarant'anni di storia nazionale: da quando cioè Moro, nel 1939, viene eletto presidente nazionale della FUCI fino al giorno della sua tragica scomparsa, il 9 maggio 1978.

Altre ricerche vanno affrontate in molteplici direzioni. V'è, anzitutto, il grosso capitolo delle sue lotte nel partito tanto a livello locale quanto a livello nazionale e dei suoi rapporti con le altre componenti politiche e culturali del movimento politico dei cattolici: nonché la sua opera di segretario nazionale, in anni cruciali, della DC. V'è tutta la sua attività come parlamentare, come presidente del gruppo democristiano della Camera, come ministro della Pubblica Istruzione e degli Esteri ed infine come Presidente del Consiglio dei Ministri a più riprese e in momenti significativi della storia nazionale. È, inoltre, necessaria una ricerca rigorosa e completa sul suo pensiero giuridico e politico elaborato e vissuto in lunghi anni di meditazioni, d'insegnamento e di battaglie politiche e culturali. V'è infine, il capitolo della sua ultima disperata battaglia nel carcere delle Brigate Rosse. Troppi sono, dunque, gli elementi che mancano per una ricostruzione documentata e persuasiva d'una vicenda storica e biografica tanto importante quanto singolare.

Ma quello che a noi interessa è quello di studiare e valutare il pensiero politico di Aldo Moro soprattutto in merito alla vicenda della Democrazia Cristiana.

A ben guardare, il pensiero politico di Moro nelle sue caratteristiche essenziali non si discosta molto dalle intuizioni di Sturzo e di De Gasperi, in particolare per quanto riguarda i rapporti tra partito e mondo cattolico, tra partito e sviluppo complessivo della società, tra partito e compiti dello Stato. La concezione del ruolo nazionale e democratico del movimento politico dei cattolici, l'esigenza di difendere la libertà della Chiesa all'interno di tutte le altre libertà, la necessità di conciliare l'ispirazione cristiana e popolare del partito con i valori della tradizione laica e liberale, l'urgenza di spezzare il «blocco protezionistico e corporativo» per liberalizzare energie nuove ed integrare nello stato e nei processi produttivi ceti un tempo derelitti, tutto ciò ricorre con alterna intensità nel pensiero e nel programma politico tanto di Sturzo e di De Gasperi. Ciò che cambia, spesso radicalmente, è soprattutto il contesto storico e politico nel quale Moro, a differenza degli altri due leaders, è costretto ad operare.

Infatti, se la predicazione sturziana appare condizionata – e nel contempo favorita – dall'esistenza d'una società ancora rurale e da una situazione che vede il partito dei cattolici giuocare un ruolo agile e combattivo d'opposizione; se l'azione di De Gasperi appare caratterizzata dall'assunzione di gravi responsabilità governative e dallo sforzo teso ad avviare una società statica ed autarchica verso i traguardi di una moderna democrazia industriale aperta agli scambi internazionali; l'opera di Moro appare percorsa dalla preoccupazione costante di assegnare esiti democratici ad una società in tumultuosa espansione e gravida tanto di poderose tensioni innovatrici quanto di pericolosi germi autodistruttivi.

In tal senso conserva una sostanziale validità storica l'interpretazione che George L. Mosse – lo studioso dei grandi movimenti di massa delle società contemporanee – ha suggerito intorno all'opera dello statista pugliese: quella cioè d'una azione tesa a conciliare gli effetti sociali e psicologici provocati da un processo rapido ed inedito di industrializzazione con le regole classiche del sistema rappresentativo parlamentare.

Moro opera all'interno di un contesto in un paese dove, per ragioni storiche e sociali, il processo di risveglio delle masse s'è dimostrato più rapido e sconvolgente che altrove.

Quando Moro affermava che di «crescita si può anche morire», esprimeva un convincimento profondo: sapeva cioè che il risveglio di milioni di esseri umani e la nascita di nuovi soggetti popolari (come i giovani, le donne, i lavoratori) ponevano la necessità della loro integrazione nella vita politica nazionale ma sapeva ànche che tale integrazione doveva, per non risolversi in autodistruzione, attuarsi all'interno del sistema democratico. In sostanza, Moro si prodigò nel tentativo di conciliare due realtà che appaiono inconciliabili.

Da un lato il bisogno delle masse di partecipare direttamente alla gestione del potere: un bisogno, tuttavia, che si manifesta in orma emotiva e mitologica e che è portato ad invocare soluzioni di tipo simbolico ed a risolversi in «rappresentazioni drammatiche». Dall'altro lato, la necessità di rafforzare un sistema politico che, per sopravvivere, necessita di regole precise, di compromessi continui, di grande tolleranza civile, di un qualcosa cioè che sta agli antipodi delle ondate emotive, dei miti di massa e delle scelte affidate a capi carismatici. Come, dunque, conciliare l'estrema mobilità delle trasformazioni sociali con la continuità delle strutture rappresentative?

Come integrare nello stato masse sempre più estese di cittadini senza cedere a soluzioni autoritarie? Come crescere senza morire?

«È evidente – affermava Moro di fronte ai moti sociali del 1968-69 – che nell'attuale momento l'accento si sposta dalla società politica alla società civile, nella quale si esprimono in larga misura il dibattito, il confronto ed anche una avanzata preparazione delle decisioni sull'ordine e lo sviluppo della vita sociale. Ciò non può metterè per altro in discussione il sistema democratico-parlamentare, pur soggetto ad un penetrante controllo sociale, e con esso le forze politiche chiamate ad operare una sintesi intelligente e responsabile nel tumulto degli interessi e degli ideali della vita sociale. Occorre armonizzare questi due dati.

Secondo lo storico americano, Moro riuscì ad armonizzare questi due dati e rivelò, nella sua opera paziente e tenace, una statura che supera gli ambiti nazionali e che seppe imporsi all'attenzione ammirata degli osservatori internazionali. In effetti, si deve in larga misura alla presenza vigile ed attiva di Moro – soprattuto durante il ventennio che va dal 1959 al giorno della morte – se 19 sviluppo politico e sociale italiano ha rappresentato, sotto certi aspetti, un esempio unico in tutto il mondo. L'esempio cioè di un paese che ha subito una rapidissima trasformazione economica (da società contadina a settima potenza industriale dell'Occidente) e che, nel contempo, ha saputo conservare e promuovere tutte le libertà.

E difatti laddove queste ultime – come in Inghilterra, Francia, e Stati Uniti – appaiono altrettanto vive, il processo di trasformazione industriale è avvenuto, non in pochi decenni, ma lungo circa duecento anni di storia.

Laddove – come nei paesi a direzione socialista – l'industrializzazione è stata altrettanto rapida e «forzata», il prezzo pagato sul piano dei più elementari diritti umani è stato altissimo.

Di fronte a Moro però, non stava solo il problema della integrazione delle masse nella direzione dello Stato. Egli doveva operare all'interno di una «democrazia bloccata»: caratterizzata cioè sia dall'impossibilità di praticare la regola classica dell'alternanza, sia dalla necessità insopprimibile di tener desta e viva la dialettica tra le forze politiche. Di fronte a Moro stava una società dalla «passionalità intensa e dalle strutture fragili» dove ogni crisi politica rischia di risolversi nella crisi definitiva del sistema e dove le istituzioni possono venire paralizzate da una «opposizione condotta sino in fondo».

Egli sapeva inoltre di vivere in un paese dove la cultura dominante, tanto di destra quanto di sinistra, ancora non è riuscita a tollerare la presenza dei cattolici alla direzione della vita del paese. Se non si tiene conto di tutto ciò, non si capisce perché Moro dovette, senza sosta, lottare su due fronti: da un lato contro le insorgenze integralistiche che avrebbero isolato la DC ed indebolito la sua capacità di interprete, in senso laico e liberale, gli interessi generali del paese; dall'altro contro il rischio dell'appiattimento trasformistico e della perdita d'una identità, cristiana e popolare, che egli sapeva ben radicata nella storia civile e culturale del paese. In tal senso Moro rappresenta non solo l'erede e il continuatore della tradizione politica e culturale di Sturzo e De Gasperi, ma l'artefice di un disegno che non ha· precedenti, per la complessità dei problemi e la difficoltà delle situazioni affrontate, nella storia politica italiana dall'unità in poi.

In questa breve analisi, si è insistito soprattutto sull'ultimo decennio dell'attività di Aldo Moro: un periodo che, non a caso, appare storicamente contrassegnato – dalla strage di Piazza Fontana del dicembre 1969 fino alla morte di Moro – dall'azione delittuosa tanto del terrorismo di destra quanto del terrorismo di sinistra. A ben vedere, quale che sia l'interpretazione da dare a questi fenomeni, una cosa appare certa: l'azione terroristica, in una direzione come nell'altra, conserva lungo l'intero decennio tutte le caratteristiche di un movimento politico cui non fa difetto – pur nel ricorso alla lotta armata – né il disegno strategico né l'analisi socio-economica né l'azione di penetrazione e di reclutamento presso determinate zone della società. In effetti, soltanto questa sua natura di partito, ancorché armato, può spiegare storicamente, vuoi la sua diffusione capillare presso certe realtà sociali e territoriali vuoi la sua persistenza nonostante le dure e periodiche sconfitte subite. E mentre il terrorismo di destra mira chiaramente a spezzare i legami di solidarietà politica e sociale tra ceti medi e classe operaia ed «a tener desto il disordine per gettare le premesse del blocco d'ordine», il terrorismo di sinistra punta chiaramente ad impedire l'integrazione della classe operaia nello stato, attraverso le regole «eterodosse» del sistema rappresentativo parlamentare. Tuttavia, il fatto stesso che tale disegno venga non solo ipotizzato ma tenacemente perseguito sta a dimostrare come i legami con la democrazia e con le sue regole permangono nel nostro paese ancora labili ed incerti tanto sul versante «moderato» dei ceti medi quanto sul versante «progressista» della classe operaia.

Le ragioni di questa debolezza non vanno ricercate soltanto nella giovane età della nostra democrazia, ma nel fatto che nella società civile ben pochi sono gli organismi – vuoi di carattere sociale ed economico, vuoi di carattere culturale e corporativo professionale – dove vige la prassi democratica e dove la selezione delle classi dirigenti non è affidata a semplici cooptazioni dall'alto. In sostanza, le vaste masse popolari cui è stato esteso il diritto di partecipazione attraverso l'uso «intermittente» del voto, mentre hanno conosciuto la democrazia come benessere, come inserimento nei processi produttivi, come adesione emotiva alla lotta politica e sindacale, non hanno potuto sempre conoscerla come esercizio quotidiano e come processo graduale di appropriazione e di interiorizzazione delle sue regole elementari.

Questa situazione di precarietà democratica fa da sfondo tanto all'azione politica di Moro quanto alla sfida lanciata dal terrorismo in quegli anni. A più riprese Moro osserva, di non temere tanto le punte acute – ancorché «estremamente pungenti» – quanto il terreno di coltura in cui esso può crescere ed espandersi, e cioè la diffusione «endemica» e «dilagante» del rifiuto della tolleranza e delle regole che sono alla base della convivenza civile e democratica.

«Io temo – osserva nell'ultimo discorso – le punte, ma temo il dato serpeggiante di questo rifiuto dell'autorità, rifiuto del vincolo, questa deformazione della libertà che non fa più accettare né vincoli né solidarietà».

In un paese come l'Italia – che rischia di morire non per asfissia dovuta a staticità o arretratezza economica e sociale ma, al contrario, per l'estrema velocità del suo sviluppo – può infatti bastare un nonnulla, una semplice distrazione o un'impennata emotiva perché tutto venga distrutto e perché qualsiasi ultimatum possa «fare precipitare le cose verso una conclusione negativa». Se questo è il senso da dare all'azione complessiva di Moro, sono, di conseguenza, destinate a cadere tutte le interpretazioni che – isolando gli aspetti psicologici o le affermazioni verbali dal contesto storico-politico – tendono a ridurre la sua opera di volta in volta alla difesa sofisticata di posizioni moderate o alla accettazione acritica di soluzioni sempre più avanzate. Moro stesso appare a più riprese consapevole di queste deformazioni quando, non senza irritazione, respinge l'accusa di voler assegnare finalità conservatrici alla propria azione improntata al senso della prudenza e della flessibilità.

«È questa flessibilità attenta e anticipatrice – afferma Moro – che ha fatto in questo trentennio il nostro partito così capace di comprendere, fare propria e guidare le spinte evolutive della nostra società. Non è con noi e per noi che si è verificato l'enorme cambiamento che il paese ha realizzato, quella trasformazione di fondo che ha fatto dell'Italia rurale ed autarchica un paese industriale e civile di civiltà europea? Sarebbe forse questa una distrazione? Qualche cosa che avviene con noi, ma contro di noi, a nostro dispetto? È che abbiamo voluto cambiare l'Italia, pur non condividendone naturalmente ogni movimento. Abbiamo voluto, e negli ultimi anni più intensamente, la partecipazione. Abbiamo voluto la democrazia senza badare al mutamento che, anche a nostro danno, essa può produrre. Abbiamo voluto una vita sociale più ricca e viva, più consapevole di sé, più veramente autonoma».

E poi, quasi per allontanare da sé ogni meschina insinuazione circa presunte connivenze con le forze del privilegio: «Dove sono le alleanze che ci incatenano? Dov'è la nostra perfida volontà di indebolire ed accantonare il movimento operaio, che si è affermato come protagonista e con il nostro concorso?».

Il fatto è che i veri limiti, quando esistono, sono imposti dalle situazioni oggettive e dalle «ragioni non arbitrarie» dettate dal procedere graduale d'ogni evoluzione democratica: «Ma – conclude Moro – al di là di questo limite delle cose, non ve n'è nessun altro. Non v'è limite posto dalla cattiva volontà, dalla pigrizia intellettuale, dalla indifferenza morale, dalla compiacenza verso l'ingiustizia. Qualche volta siamo sembrati in ritardo, solo . perché avevamo realismo e senso di responsabilità».

Negli ultimi due anni della sua esistenza terrena l'attenzione costante verso i rischi mortali che corre lo sviluppo democratico del Paese si traduce in allarmata e sofferta preoccupazione. Egli sa che i problemi si sono fatti «estremamente assillanti» e che nel paese «minore è la riserva di pazienza e tolleranza». Il filo che tiene unite la lotta politica e la pressione irriducibile degli interessi alle istituzioni democratiche s'è fatto tenuissimo in quanto «l'ultima fase del riscatto è ormai velocissima e straordinariamente penetrante». L'ultima sua operazione politica, condotta nel mezzo di difficoltà quasi insormontabili, ha qualcosa di miracoloso: è forse il suo capolavoro politico se si pensa alla misura con cui riesce ad assegnare a questa soluzione non il valore d'una scelta definitiva e compromissoria, ma il significato d'un passaggio rischioso e calibrato per consentire alla lotta politica una ripresa successiva più libera ed al riparo di rotture irreversibili.

Forse per spiegare il successo, in quest'occasione, di Moro non basta ricorrere alla sua straordinaria abilità o al suo fascino carismatico, ma è necessario spingere lo sguardo più a fondo e attingere alla dimensione più intima e religiosa della sua personalità. Non intendo, ovviamente, sviluppare questo tema né addentrarmi in ulteriori ricerche. È certo tuttavia che solo un uomo capace di cogliere nel tumulto della vita il principio della corruzione e della morte e di intravvedere nelle situazioni più compromesse e necessitanti lo spiraglio della liberazione e della salvezza, poteva con tanta intensità e umana partecipazione vivere il dramma, non solo politico, della democrazia italiana e lottare fino al sacrifico supremo per la vittoria finale della ragione sugli istinti, della tolleranza sulla violenza, della speranza sulla morte.

«Il che vuol dire – così annotava nella Pasqua del 1977 – perseguire, con gradualità e limiti certo inevitabili, la salvezza annunciata, ad un tempo luminosamente certa e paurosamente lontana».

 

Tempi nuovi si annunciano
Francesco Sanna
Aldo Moro
Elda Meneghini

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