Perchè accantonare Aldo Moro?
La riflessione che va fatta oggi però va collegata con una sorta di «antipatia» che Moro ha sempre suscitato presso certi ambienti della cultura italiana. Credo che le ragioni siano almeno. due.
La prima riguarda la sua straordinaria intelligenza e preparazione culturale. In una società come la nostra, abituata per tradizione storica a vedere la cultura separata dal potere e gli intellettuali dai politici, Moro rappresentava un segno di contraddizione e una vistosa anomalia. A certi politici praticoni e cinici, Moro non piaceva perché sapeva assegnare un ampio respiro culturale e strategico a ogni sua scelta politica; a certi intellettuali,abituati a considerare i politici miopi gestori dell'esistente e a ritenere se stessi detentori esclusivi del sapere, nemmeno. A detta degli esperti, il suo famoso discorso parlamentare in occasione dello scandalo della Lockeed ha rappresentato, prima ancora che un evento politico, un'altissima lezione di diritto processuale da inserire di peso nelle antologie universitarie.
Orbene, quel discorso non piacque né agli amici né ai nemici ai primi perché ritenuto troppo intransigente e privo di ammiccamenti verso l'opposizione, quindi scarsamente efficace sul piano tattico; ai secondi perché con grande autorevolezza scientifica Moro diffidava gli oppositori a non confondere i processi politici con i processi penali. Eppure quell'intervento rappresenta una pietra miliare per chiunque intenda cogliere a fondo l'essenza del nostro ordinamento costituzionale basato sulla distinzione netta tra responsabilità politiche (che si perseguono con il voto) e responsabilità penali (che sono sempre personali e,perseguibili con lo strumento indipendente della magistratura).
La seconda ragione credo risieda nel fatto che lo statista pugliese, a differenza di tanti intellettuali nostrani, non era un dottrinario: non usava cioè la cultura per «mettere le brache» al mondo né come occasione di affermazione personale, bensì quale strumento per meglio penetrare nella realtà delle cose e per guardare al di là degli slogans e delle banalità diffuse.
Il fatto è che Aldo Moro aveva presente in tutta la sua corposa virulenza, lo sviluppo repentino e prodigioso della società italiana negli anni della sua lunga permanenza ai vertici della vita politica nazionale: uno sviluppo che aveva visto in pochi decenni un paese arretrato e autarchico diventare una potenza industriale tra le prime del mondo, che aveva provocato il passaggio di circa venti milioni di abitanti dall'agricoltura all'industria e che aveva sconvolto l'intero territorio nazionale, nei suoi costumi, nelle sue tradizioni, nei suoi modi di essere e di pensare. Quando Moro affermava che di crescita si può anche morire aveva ben presente tutto ciò: temeva cioè che l'equilibrio delicato e precario tra industrializzazione accelerata ed esigenze democratiche potesse alla fine spezzarsi e far precipitare l'intera società ,verso esiti autoritari. Perciò egli cercava di tenere saldamente sotto il controllo della ragione le passioni politiche e gli impulsi velleitari: e sorrideva di fronte a tanti rivoluzionari da salotto che volevano imprimere l'acceleratore a una società che rischiava di morire per asfissia o staticità economica e sociale ma per eccesso di velocità nella sua crescita.
Per questi motivi egli era guardato con diffidenza e ostilità da tutta una cultura portata ad apprezzare non chi lavora duramente per trasformare il mondo, ma solo chi si attarda a contemplarlo o a commentarlo: come se fossimo in presenza una umanità senza mani e come se la fortuna civile ed economica del nostro paese non risiedesse nell'oscura, tenace, intelligente operosità d'un esercito infinito di artigiani, di lavoratori, di operatori lontani dal clamore delle mode e dai vezzi delle dispute politicoletterarie. Questa acuta percezione del paese reale e dei suoi problemi concreti, mentre a osservatori superficiali poteva apparire rinuncia all'iniziativa e tendenza inoperosa al rinvio, come sosteneva anche Italo Pietra, conferiva invece grande forza realistica e autorevolezza all'azione politica di Aldo Moro e di conseguenza lo allontanava dalle elaborazioni astratte di tanti giacobini da tavolino che spesso affollano la prima pagine dei giornali.
Oggi più che mai occorre tornare ad attingere alla fonte del suo insegnamento, della sua esperienza politica, della sua capacità di saper cogliere il nuovo, di rimettere in discussione tante coniugazioni di valori che alla fine correvano il rischio di perdere il loro significato reale.
Forse per spiegare il successo, in quest'occasione, di Moro non basta ricorrere alla sua straordinaria abilità o al suo fascino carismatico, ma è necessario spingere lo sguardo più a fondo e attingere alla dimensione più intima e religiosa della sua personalità. Non intendiamo, ovviamente, sviluppare questo tema né addentrarci in ulteriori ricerche. È certo tuttavia che solo un uomo capace di cogliere nel tumulto della vita il principio della corruzione e della morte e di intravvedere nelle situazioni più compromesse e necessitanti lo spiraglio della liberazione e della salvezza, poteva con tanta intensità e umana partecipazione vivere il dramma, non solo politico, della democrazia italiana e lottare fino al sacrificio supremo per la vittoria finale dellà ragione sugli istinti, della tolleranza sulla violenza, della speranza sulla morte.
Temo che molti degli esegeti dì Aldo Moro, non potendo ergersi al suo livello, oggi cerchino con ogni mezzo di trascinarlo in basso; e allora azzardano, come fa Italo Pietra, assurdi paragoni con Mussolini, gli contrappongono il senso dello Stato di Giolitti (ma avranno letto costoro il «Ministro della malavita» di Salvemini?) parlano di viltà durante la terribile prigionia e così via. E così; forse, ancora per molto tempo. Ma alla fine, attraverso la selezione severa della storia, risulterà a tutti ben chiaro dove stanno i giganti e dove invece vanno collocati i pigmei.












