Intervista a Pietro Scoppola
Si dimentica troppo spesso che la solidarietà nazionale è stata imposta dalla decisione socialista di non partecipare a governi fondati su una maggioranza della quale i comunisti non facessero parte. Questa fu la circostanza di fatto che sollecitò Aldo Moro a cercare un rapporto nuovo con il partito comunista che ha portato, appunto, alla esperienza della solidarietà nazionale. Di una condizione di necessità Moro ha fatto con la sua riflessione e con la sua azione politica, un momento del processo di crescita della democrazia italiana verso forme di democrazia compiuta.
Alcuni parlarono di un rovesciamento delle regole democratiche. dato che in quel periodo, di fatto, cessò di essere una vera e propria opposizione Parlamentare.
Quelli che avevano contribuito come dicevo a rendere neçessario un nuovo rapporto con il partito comunista, hanno rivolto queste critiche alla politica di solidarietà nazionale. Ma le critiche, come lo sviluppo stesso degli eventi dimostra, erano infondate: la solidarietà nazionale non fu mai concepita da Moro come un punto di arrivo. come un assetto stabile della democrazia italiana (questo semmai era il significato che all'avvicinamento D.C.- P.C.I. tendevano a dare i teorici di parte comunista del «compromesso storico») ma come una fase di passaggio. In molte democrazie dell'occidente europeo, si pensi alla Germania o all'Austria, ci sono state fasi di grande coalizione che sono state necessarie per creare condizioni fisiologiche di alternanza di partiti diversi al governo del paese. Moro non cessò mai, in effetti, di considerare alternativi, dal punto di vista ideale, D.C. e P.C.I.
D'altra parte non è vero che non vi sia stata in quel periodo un'opposizione in Parlamento: l'opposizione vi fu ed anche molto aspra.
Ci può dire dell'idea che Lei si è fatta sulla «terza fase» di Moro, quell'esperienza ne incarnò degli aspetti?
Ritengo che Moro pensasse alla «terza fase» come a una stagione incerta di transizione della democrazia italiana verso forme di democrazia compiuta: una fase alla quale non ha guardato affatto con trionfalismo, ma con attenzione preoccupata. La terza fase, se viene intesa così, continua ancor oggi, perché non esistono ancora, nel nostro paese, le condizioni di una democrazia compiuta che renda possibile l'alternanza al governo di maggioranze diverse. In questo contesto si inquadrano gli sforzi, perora poco fortunati, di ridelinire le regole della democrazia in termini, appunto, che favoriscano una evoluzione verso una democrazia compiuta. Questo processo che, come ho avuto modo di spiegare anche nel mio recente volume La «nuol'a cristianità perduta», è necessario per il consolidamento della democrazia italiana e per un più corretto funzionamento delle istituzioni, è fortemente condizionato dal modo di essere del P.C.I.: finché perdurerà la sua proclamata diversità rispetto alla democrazia occidentale è difficile immaginare che questo processo possa compiersi.
Non si tratta dunque di immaginare la realizzazione della alternativa come una scelta ma come un processo che va però sollecitato e accompagnato con una politica illuminata e lungimirante. A mio giudizio la D.C., proprio per le due responsabilità storico-politiche, di partito di maggioranza relativa, che è stato lungo tutto il quarantennio che abbiamo alle spalle elemento di garanzia della democrazia italiana, non può immaginare di sottrarsi alla responsabilità di una partecipazione attiva a questo processo, assieme alle altre forze democratiche. Perciò è da respingere l'idea di una questione comunista che la D.C. possa in qualche modo delegare al P.S.I. come se si trattasse di una questione interna alla sinistra italiana, a un regolamento di conti fra i partiti che a Livorno si sono divisi nella s.torica scissione del 1921. Da queste' considerazioni discende un'altra conseguenza: che l'anticomunismo non può essere più utilizzato nelle forme del passato, come elemento di identità della D.C., perché questo porterebbe la D.C. a rendersi corresponsabile dell'immobilismo della politica italiana di quell'immobilismo nel quale il P.C.I. si adagia. li superamento del vecchio anticomunismo non significa affatto cedimento al comunismo, ma implica anzi una pii.i matura coscienza di una propria identità in positivo, da parte della D.C. che è oggi da ridefinire e ripensare rispetto ai grandi problemi del nostro. tempo e in particolare rispetto alla crisi del Welfare State e rispetto ai problemi posti dalla rivoluzione tecnologica.
Che significato diede la Lega Democratica al governo di 'solidarietà nazionale' visto che all'epoca diede un noterole contributo per la riuscita dell'esperienza? Quale futuro sarebbe auspicabile, secondo Lei, nei rapporti tra i due grandi partiti popolari?
La Lega democratica ha cercato di da.re un contributo alla fase di solidarietà nazionale, proprio nella direzione che ho appena indicata, cercando di portare un contributo di idee a quella esperienza che rischiava, come in parte è avvenuto di risolversi in un pur0 compromesso di potere fra i·due maggiori partiti italiani. Riassumemmo questo apporto nella formula della cultura dell'intesa, che io stesso proposi in uno dei convegni bresciani della Lega. Questa formula è stata oggetto di più o meno interessate interpretazioni polemiche, quasi che noi volessimo, attraverso la cultura dell'intesa, favorire un processo di immedisimazione fra i due partiti. Questa interpretazione priva di ogni fondamento,·è stata data in ambienti democratici cristiani.
Circa il futuro dei rapporti fra D.C. e P.C.I. io non credo che si possa indulgere alla nostalgia per la solidarietà nazionale - è questa a mio giudizio la tentazione presente anche in alcuni settori della cosiddetta area Zac. alla quale mi sento vicino e culturalmente legato- : si tratta ormai di comprendere che le intuizioni di Moro vanno riprese e sviluppate in una situazione politicamente diversa, caratterizzata dalla scelta comunista in favore della alternativa. La D.C. deve sfidare democraticamente e con forza il P.C.I. a contribuire a creare le condizioni che rendano possibile realmente una alternanza nella vita politica italiana. In realtà oggi il P.C.I. proclama l'alternativa ma non fa nulla per renderla possibile, né attraverso un ripensamento della sua diversità rispetto alla realtà della democrazia occidentale, né attraverso le condizioni istituzionali di una democrazia compiuta. Detto questo, rimane l'esigenza più profonda di costruire, alla base del paese, nella cultura e nella mentalità collettiva, le condizioni di una democrazia compiuta: una democrazia dell'alternanza è possibile solo se vi è una base comune, un forte zoccolo, per così dire, di valori comuni, che rendano possibile il succedersi non traumatico di schieramenti politici diversi alla guida del governo centrale e dei governi locali. Noi siamo ben lontani dall'aver costruito questo zoccolo di valori comuni; i partiti anzi rischiano continuamente di cedere alla tentazione di intaccare questa base, per utilizzare tutti gli argomenti possibili nella loro reciproca contrapposizione e concorrenza: pensiamo all'uso strumentale della questione morale o, in certi momenti e da parte di alcuni dello stesso terrorismo. Se si vede il problema in questi termini si comprende allora che la costruzione della democrazia compiuta non è la scelta di un momento, ma un lavoro lungo e complesso che deve impegnare le migliori energie morali ed intellettuali del paese in tutte le sue componenti culturali e ideali. Credo che il Movimento giovanile della D.C., che ha ritrovato il senso della sua identità, potrebbe essere profondamente partecipe dell'impegno culturale e morale cui ho fatto cenno, che non comporta affatto, tengo a sottolinearlo, atteggiamenti di rottura rispetto agli equilibri attuali della democrazia italiana riassunti nella formula del pentapartito, ma esige che si guardi oltre il contingente, che non si scambi una formula di transizione per un ideale di lungo periodo, che non si bruci il domani per le esigenze dell'oggi.

















