Dal compromesso all'alternativa
Il XVII Congresso del PCI è senza dubbio uno degli avvenimenti politici centrali del 1986. Fin qui, tutti d'accordo. Resta da vedere però, se al di là della rituale attenzione richiesta abitualmente da un Congresso di Partito, esistano in questo caso sollecitazioni o m·otivi di interesse particolare. A questo interrogativo, proverò a rispondere brevemente, cercando di fotografare nei suoi elementi essenziali la fase del dibattito politico-ideologico interno al PCI, in cui viene a cadere il Congresso di Aprile. L'ottica è sicura,- mente parziale, ma una lettura a 360 gradi dei problemi del PCI – dal rapporto con gli intellettuali, alla composizione sociale della base, all'evoluzione del costume dei militanti – sarebbe stata troppo superiore alle mie forze.
Per una chiave di lettura del dibattito
In questa prospettiva, premetto subito che la chiave di lettura più convincente del dibattito e delle posizioni che scaturiscono dal PCI mi sembra composta di due elementi.
In primo luogo, e in termini più generali, si deve tener conto, anche per il PCI, dell'onda lunga della secolarizzazione, che, in questo caso, significa progressivo inevitabile distacco dalla tradizione marxista. Indubbiamente, la prospettiva della palingenesi socialista, di un mondo in cui da ciascuno sarà dato secondo le sue capacità e a ciascuno sarà dato secondo i suoi bisogni, è sempre stata l'elemento principale di fascino di un partito che, evocando la propria diversità, conquistava «ipso facto» il facile consenso di quanti, in questa organizzazione sociale, si ritrovano ad occupare posizioni di emarginazione e di scontento. Altrettanto indubbiamente però, le dure repliche dei socialismi reali, la evidente incapacità di analisi della realtà postindustriale da parte delle categorie marxiste, la loro diffi-. coltà di adattamento a bisogni universalmente sentiti come il pluralismo e la libertà individuale, rendono sempre più sofferto il rapporto con questa tradizione di pensiero. Questa mi sembra la tendenza di fondo.
In secondo luogo, però, ogni passo verso la laicizzazione del partito comporta l'allontanamento da una fonte di sicurezza politica e psicologica, che rende il PCI particolarmente esposto ad oscillazioni e revisioni di linea politica e fa sentire ai dirigenti la responsabilità ossessiva di assumere iniziative politiche, anche soltanto verbali (basta pensare alla cd. «rivoluzione copernicana») per mascherare la sostanziale incertezza sulla direzione da seguire. Si dirà che l'incertezza è il prezzo naturale da pagare alla laicità della politica, ma resta vero che l'aver vissuto per molti decenni in modo fideistico il rapporto con la propria tradizione culturale rende questo passaggio particolarmente_traumatico per il PCI, tanto da causare spesso reazioni ai limiti della schizofrenia.
Gli anni del «compromesso storico»
Per leggere in filigrana queste direttrici di fondo negli atteggiamenti del PCI è forse utile riferirsi sinteticamente ad alcuni momenti del passato.
Anzitutto al periodo che va dal 1973 al ì980 e che ha il suo epicentro politico nella proposta organica del compromesso storico. Com'è noto, sullo sfondo di una cultura politica che aveva sempre visto nell'incontro tra masse popolari comuniste, socialiste e cattoliche una tappa indispensabile per la costruzione del socialismo e sulla scia delle riflessioni prodotte dal «golpe» cileno del 1973, la proposta di compromesso storico veniva a sostanziarsi in una offerta di collaborazione del PCI per un governo comune con la DC.
Ciò che interessa sottolineare in questa sede è, da una parte, come la proposta del compromesso storico sia tutta interna alla prospettiva della costruzione del socialismo («un grande schieramento per un grande mutamento») e, dall'altra, come in essa si realizzi il tentativo più organico di innestare funzionalmente nel tronco della tradizione marxista l'immagine di un partito democratico, riformatore e occidentale.
Ciò avviene anzitutto sul piano ideologico con il fenomeno dell'eurocomunismo che, senza nulla rinnegare della riflessione leninista, tenta una improbabile lettura del contributo teorico di Gramsci come superamento e adattamento del leninismo alle esigenze del pluralismo e della democrazia, valorizzando i concetti di consenso e di egemonia al posto di quelli di forza e di dittatura del proletariato. Questo tentativo è chiarissimo, ad esempio, nel famoso libro di S. Carrillo del 1977 – «Eurocomunismo e stato» – ed è l'asse portante ,del coraggioso intervento di Berlinguer al Congresso del PCUS dello stesso anno, anche se resta comunque per i più uno sforzo teorico largamente incompiuto e in ogni caso dai risultati impossibili.
Sul piano della politica interna, il PCI fa sua l'idea forza dell'«austerità», nella quale è evidente l'ancoraggio ai contenuti ultimi del pensiero socialista, come il disprezzo per il consumismo individuale esasperato e il forte richiamo ai doveri di solidarietà e giustizia sociale, ma dalla quale deriva anche – al di là della sterilità progettuale (vedi la famosa «Proposta di progetto a medio termine») – l'assunzione di scelte non sempre popolari, e comunque nuove per il PCI, in materia di finanza pubblica e di costo del lavoro: da cui, non a caso, Forattini trae spunto per alcune celebri vignette.
Sul piano della politica estera emerge poi – sia pure all'interno di una ribadita centralità del rapporto con il PCUS – un atteggiamento assai più elastico nei confronti dell'Europa e dell'Alleanza atlantica, che ha il suo sigillo nella celebre intervista del 1976 a G. Pansa, in cui Berlinguer afferma per la prima volta di considerare il Patto atlantico come «uno scudo utile per costruire il socialismo nella libertà».
Nel complesso, indipendentemente dai giudizi suì governi della «non sfiducia» e della «solidarietà nazionale», buona parte dei commentatori comincia a chiedersi se l'elefante comunista non stia offrendo i primi segni di uila mutazione genetica all'interno di un rapporto sempre più problematico con la matrice culturale d'origine.
L'alternativa democratica e lo «sviluppo»
Tra il 1979 e il 1980 – dall'uscita dalla maggioranza di governo (feb. 1979), alla sconfitta elettorale del giugno 1979, all'ultima vigorosa difesa della linea politica fino ad allora seguita (E. Berlinguer, «Il compromesso nella fase attuale», Rinascita, 24 agosto '79) matura la svolta del novembre 1980, la rinuncia alla prospettiva del compromesso storico (cd. «seconda svolta di Salerno»).
Da allora ad oggi, sanzionata dal 16° Congresso, l'obiettivo politico ufficiale diventa l'«alternativa democratica» al sistema di potere della DC, una strategia di alleanze aperta anche alle forze laiche e ai «cattolici onesti» mai completamente chiarita, della quale ci si è limitati a rimarcare soltanto in negativo le differenze rispetto ad una comune alternativa di sinistra o dalla proposta di solidarietà nazionale.
Il processo di secolarizzazione tuttavia non si arresta. E non tanto sul piano del dibattito ideologico, nel quale in modo abbastanza attutito si evoca sempre più frequentemente l'esigenza di imboccare una non meglio precisata «terza via» fra leninismo e social-democrazia, quanto sul piano dei rapporti con l'URSS. Tra il 1979 e il 1982, si consuma infatti la parabola del breznevismo più deteriore, tra la crisi polacca, l'invasione afghana e il dispiegamento unilaterale degli SS-20 sul fronte europeo: Berlinguer ne prende atto, parlando senza equivoci nel dicembre '81 di «esaurimento della spinta propulsiva della rivoluzione d'ottobre», destando non poco sconcerto fra i militanti e provocando su questo tema la reazione esplicita dell'ala cossuttiana (vedi il libro di A. Cossutta, «Lo strappo» del 1982).
Ma naturalmente, l'aver compiuto un passo ulteriore verso la laicizzazione del partito e l'isolamento politico nel quale continua a trovarsi il PCI per le posizioni da tempo assunte dal nuovo PSI di Craxi, rendono drammatica l'urgenza di iniziative politiche tese a bilanciare l'impressione di smarrimento o di banale revisionismo che esso può offrire all'opinione pubblica. Di qui, sul piano internazionale, favorita anche dalla netta chiusura mostrata dall'amministrazione Reagan su molte tematiche, l'attenzione spasmodica (quasi un «buttarsi a pesce») per i movimenti pacifisti. Di qui anche, sul piano interno, un alternarsi di atteggiamenti che sembrano ispirati al vecchio insegnamento togliattiano («aderire a tutte le pieghe della società») – l'appoggio promesso ad un'eventuale occupazione della Fiat nel 1980, la sottolineatura legittima ma praticamente esclusiva della cd «questione morale», la promozione tanto enfatizzata quanto poco·convinta del referendum sulla scala mobile – nessuno dei quali riesce a costituire una linea politica vera e propria ma sembra più che altro un argomento per richiamare l'attenzione.
Il PCI dopo Berlinguer
Con la morte di Berlinguer, si apre la fase che dovrà trovare un epilogo nel XVII Congresso. Il venire meno del leader carismatico e le sconfitte elettorali del 1981 fanno da catalizzatore ai processi già segnalati. Se non altro – in un momento in cui la linea politico ideologica sembra come sospesa – la laicizzazione è già nel modo particolarmente aperto per un partito come il PCI con cui è stato condotto il dibattito: questa volta, cioè, è difficile negare che tutto sia stato messo in discussione, ivi compresa la famosa «diversità» comunista.
Sul piano ideologico, dirigenti di primissimo piano hanno ammesso che la cd. «terza via» è in realtà un'araba fenice e che le esperienze socialdemocratiche del Nord, tanto vituperate in passato, vanno già considerate un punto di arrivo notevole. Per tutta Ì'estate si sviluppa un dibattito – necessariamente sterile nei risultati, ma alquanto significativo date le premesse – se la fuoriuscita dal capitalismo rappresenti ancora l'obiettivo di fondo del PCI e se l'aggettivo «comunista» definisca in modo fedele la vera natura del partito. Del resto, il C.C. che il 9 e 10 dicembre approva il Progetto di Tesi (delle quali si parla a parte in questo numero) è stato, a detta dei commentatori, il più vivace e contrastato che la storia del partito ricordi.
Sul piano della politica interna, il PCI cerca di reagire a quella che definisce abitualmente dalle colonne di «Rinascita» come offensiva neoconservatrice del liberismo selvaggio, attestandosi su una posizione di prudente richiamo ai permanenti valori del Welfare State, che qualche anno or sono sarebbe stata considerata una esecranda posizione revisionista; aggiungendo a ciò, alcuni spezzoni di iniziativa politica come la richiesta di una imposta patrimoniale o una più efficace tassazione delle rendite finanziarie. Sul piano internazionale, l'avvento dell'era Gorbaciov, ha offerto nuov mente all'establishment del PCI spazi di iniziativa politica, che é probabilmente prematuro definire come una ricucitura dello «strappo».
Conclusioni
Cosa attendersi in queste condizioni dal XVII Congresso?
Non certo che un'assise di migliaia di persone riesca ad elaborare quella piattafomr adi idee e di proposte concrete di riforma cui il PCI allude di continuo e che la sua semplice presenza nell'ambito di governo dovrebbe far scaturire quasi in via naturale. Piuttosto, ci si può aspettare forma di idee e di proposte concrete di a questo riguardo che nel Congresso si levino finalmente molte voci autorevoli per cassare ogni retorica di partito e prendere onestamente atto che questa é la carenza principale di un partito che ha vissuto di rendita sui dogmi e sulle parole d'ordine e che – fuori dall'opposizione e dalla contrattazione parlamentare – si troverebbe sprovvisto di una d cente cultura di governo.
D'altra parte sarà importante valutare a quale livello di consapevolezza sarà arrivato il processo di revisione critica dei miti tradizionali: in questo senso, lungi dall'attendersi un Bad Godesberg italiana, sarebbe già alquanto significativo se le posizioni pragmatiche dei cd. «miglioristi» incontrassero consensi non trascurabili fra la base dei delegati.
Detto questo, non si può non concludere con una osservazione a scadenza più lunga. Si è detto più volte che l'anomalia del caso italiano deriva, oltre che dalla frammentazione dei partiti, dall'esistenza sulla sinistra di un forte schieramento «antisistema» che induce gran parte degli elettori a ritenere che un'eventuale alternativa non costituirebbe affatto un meccanismo fisiologico di ricambio capace di migliorare il rendimento del sistema, bensì un evento traumatico e indesiderabile. Probabilmente, ogni passo verso la secolarizzazione del PCI attenuerà questa atmosfera e preparerà le condizioni dell'alternativa. D'altra parte, quando la stessa DC é tornata ad agitare la «paura del sorpasso» non lo ha più fatto evocando i carri armati e le «purghe», ma – molto più realisticamente – sottolineando l'arretratezza culturale del PCI e la sua incapacità di misurarsi con i mutamenti in atto.
Non ci si può nascondere tuttavia che una progressiva anche se silenziosa acquisizione da parte del PCI di posizioni socialdemocratiche obbliga la stessa DC a riprendere quegli sforzi di elaborazione culturale ai quali essa troppo spesso si sottrae; perché, in assenza di questi, una normalizzazione di stampo europeo del caso italiano in cui si contrapponessero banalmente uno schieramento di tipo laburista socialdemocratico ed uno di carattere liberista-thatcheriano, vedrebbe probabilmente la DC sospinta ad occupare la posizione centrale di quest'ultimo. Il che non ci piace affatto, perché un'alternativa tradizionale di questo tipo si dimostra ovunque inadeguata ad affrontare i problemi epocali del mondo contemporaneo, e perché la tradizione personalistica e solidaristica nella quale ci riconosciamo richiede ben altre risposte da quelle che vediamo in giro. Ma di questo si parlerà un'altra volta.










