Può finire la «diversità»?
Capita frequentemente di incontrare qualcuno, all'interno della DC, che rivolge alla nostra generazione di giovani democratici cristiani l'accusa di essere incapaci di uscire dalla logica dell'attivismo o dell'analisi delle singole questioni, per approdare al dibattito sulle prospettive generali della. politica italiana, sul tema delle alleanze, recuperando quel ruolo di rapporto dialettico o anche di «avanguardia», proprio tante volte, nel passato, dei più giovani rispetto al partito. Pensate, sottolinea qualcuno, ai dossettiani o a quella fetta della «terza generazione» capace di anticipare la scelta del centrosinistra.
È vero. Ma è anche vero che la nostra generazione è cresciuta in una stagione politica che sembra essere condannata all'immutabilità, in cui vi è soltanto la possibilità, anche per il futuro, di fare sopravvivere l'attuale formula di governo, cambi o no il Presidente del Consiglio, si facciano o no elezioni anticipate.
Cosa fare, allora, per non rassegnarsi ad operare per anni in una situazione politica in cui, in mancanza della possibilità di poter scegliere, o anche solo di pensare in prospettiva, ad alleanze diverse, ogni dibattito scade su questioni marginali o su polemiche spesso solo pretestuose tra partiti che si sentono condannati a dover convivere nella maggioranza?
Molte delle risposte possibili a questa domanda sono affidate ai prossimi congressi nazionali di DC e PCI.
In particolare l'assise comunista dovrà fare capire quanto di vero e realizzabile c'è nella possibilità di veder prevalere nel dibattito interno, chi vuole porre fine alla «diversità» del PCI dalle altre forze politiche italiane e non, chi resta invece ancorato proprio al modello di partito «diverso». I dibattiti nelle sezioni e nei congressi provinciali, sembrano avere sin qui mostrato che l'ansia di cambiare finisce per impantanarsi in un meccanismo ancora condizionato da vecchi schemi e antichi pregiudizi. La speranza è che, comunque, si faccia chiarezza e che la dirigenza nazionale non annebbi tutto in un mare di slogans e di patriottismo di partito.
È un'attenzione giustificata quella che, va rivolta al Congresso di Firenze. Se il partito comunista avviasse un processo di cambiamento in grado di farlo divenire meno «diverso», così da poter in futuro inserirsi nel gioco delle alleanze di governo possibili, senza provocare rischi e traumi per la situazione interna ed internazionale dell'Italia, il quadro politico si sbloccherebbe veramente. L'alternativa sarebbe allora possibile non soltanto tra maggioranze legate alla DC o al PCI, con l'inevitabile conseguenza di avere un partito socialista ancora più ago della bilancia e quindi padrone della situazione, ma tra varie possibili alleanze, aggregate attorno alle diverse proposte per risolvere i problemi e non necessariamente con i due partiti più grandi su fronti comunque opposti.
È certo difficile e improbabile pensare oggi che l'attuale partito comunista riesca in tempi brevi a modificare se stesso. Però se è vero, come è vero, che all'interno del PCI è in corso un dibattito serrato su come e perché cambiare, può essere un elemento non trascurabile per condizionarne l'andamento, il sapere che fuori, anche nella DC, c'è qualcuno che aspetta la fine della «diversità».
Pensare invece, come qualcuno tra di noi continua a fare, che alla DC convenga ancora, negli anni '90, avere di fronte un PCI arroccato sulle vecchie posizioni e quindi facilmente individuabile come nemico da cui difendersi, significa non avere capito che il periodo in cui un partito raccoglieva consensi solo per il fatto di essere contrapposto ad un altro è finito, che oggi l'elettore decide in base alle risposte che vengono date ai suoi problemi, e che per risolvere i problemi è necessario, almeno qualche volta, poter scegliersi come compagno di strada chi è, per quel tratto da percorrere, d'accordo sulle possibili soluzioni, anziché dovere sempre accettare le soluzioni più confuse per non rischiare di perdere il solito compagno di strada.






