Una grande fedeltà nell'amicizia
Parlando dell'uomo Aldo Moro, lei che ne era amico e collaboratore, come lo ricorderebbe alle nuove generazioni che non hanno avuto modo di conoscerlo?
lo raccomanderei loro di leggere i suoi scritti giovanili, quelli che nei volumi editi dalle «Cinque Lune» riguardano il periodo della guerra, quelli sulla rivista «Studium», quelli sulle riviste baresi che si pubblicavano quando l'Italia era ancora divisa, con a sud gli alleati e a nord i tedeschi, e già Lui aveva cominciato ad occuparsi di politica. Sono scritti molto interessanti, dove si vede il pensiero, la mentalità, ma anche le caratteristiche dell'uomo Moro. Era una personalità molto ricca, un pensiero molto profondo e aveva una formazione mentale filosofico-giuridica molto articolata. Lui era inizialmente professore di filosofia del diritto, poi è passato a diritto penale. Aveva una formazione religiosa e una coscienza religiosa pure molto profonde e molto sicure e aveva come sua caratteristica ulteriore un grande senso della storia, una grande attenzione ai movimenti della società, ai fermenti che in essa si agitavano, il che lo portava ad essere molto attento a ciò che succedeva nel mondo esterno e ad una ricerca di una comprensione delle posizioni altrui, convinto che attraverso il dialogo emergesse in ultima analisi la concezione vera della società e dell'uomo e quindi fosse possibile un'intesa utile. Questa sua fiducia accompagnava sempre la sua grande attenzione per gli altri, per le motivazioni che ispiravano i vari movimenti, oltre al suo sforzo per cercare di capire, per riuscire a conciliare, non con arrendevolezza, non cedendo, ma facendo emergere dallo sforzo quell'incontro, dal dialogo, quello che c'era di vero, di accettabile, per poter quindi andare d'accordo.
È esatto allora definire Moro un «uomo di mediazione»?
Mediazione può essere un termine anche equivoco. Moro apparteneva senza dubbio al filone della mediazione che poi è caratteristica della FUCI, dei laureati di cui Lui era stato Presidente, dirigente, scrittore sulla rivista. Certamente era l'uomo non dello scontro ma del dialogo e quindi, per quanto possibile, dell'intesa, dell'intesa su presupposti accettabili che non rappresentavano un cedimento.
Tipico di questo suo comportamento è senz'altro la lunga vicenda dell'allargamento delle basi della democrazia nel nostro paese. Moro fu sempre non per la linea dello scontro ma del recupero graduale, il più largo possibile di tutto il popolo italiano alla democrazia. Lui riteneva che ciò fosse indispensabile per tutelare non solo la democrazia, ma anche la libertà, nel nostro paese. Questo tuttavia non a costo di cedimenti, perché Moro agì sempre con estrema gradualità, basti pensare ai rapporti con il partito socialista.
L'esigenza di arrivare ad un allargamento delle basi della democrazia, recuperando, in qualche modo il partito socialista, emerse ancora nella seconda legislatura e continuò nella terza, col governo Fanfani. Quando Moro divenne segretario del partito, nel '59, i rapporti con le forze del centro erano deteriorati a tal punto che non si sapeva più dar vita ad un governo. lo allora ero Presidente del gruppo alla camera, dal '58 al '62, ed era quindi al suo fianco. Caduto il governo Fanfani, ci fu il governo Segni, sostenuto solo dai liberali, dall'esterno, fino al '60, poi il tentativo, non riuscito, di riformare il governo Fanfani, poi il governo Tambroni che non aveva nessun appoggio esterno, e per cui praticamente votavano i missini, con rifiuto della DC e con grande turbamento dell'opinione pubblica. Allora Moro, con la sua duttilità, vista la gravità della situazione, riuscì a fare il governo delle «convergenze parallele» sostenuto dall'esterno dai tre partiti di centro ma dove non c'era un'alleanza vera tra i partiti. Questo governo durò un anno e mezzo poi crollò. Si arrivò allora, per la prima volta, alla possibilità di un governo che potesse contare sull'astensione dei socialisti ma non sulla loro presenza: il governo Fanfani, che varato all'inizio del '62, durò fino alla fine della legislatura, nel '63. Furono tutti tentativi di allargamento prudenti, cauti, perché bisognava essere sicuri che i socialisti si staccassero completamente dai comunisti e assumessero una politica interna ed estera accettabile. Solo nel '63, dopo le elezioni ed alcuni mesi di incertezze ancora, in cui ci fu il governo «amministrativo» Leone, senza maggioranza, fu possibile realizzare l'intesa coi socialisti e divenne Presidente del consiglio Moro. Tutto questo per dire come l'operazione di superamento del centrismo durò 5 o 6 anni e come Moro agì sempre, nella sua visione di allargamento delle basi della democrazia in Italia, senza avventure, senza rischi. Ci fu certo una mediazione che non aveva però il significato di un cedimento, ma di uno sforzo intelligente di penetrare, di conoscere lo sviluppo della situazione, di allargare le basi della democrazia senza però mai compromettere la sicurezza democratica all'interno e nella politica estera e salvaguardando sempre la funzione di guida per la DC, come la forza che garantisce il processo e lo sviluppo nella sicurezza.
Moro non fu mai della tesi dell'alternativa, del bipolarismo, perché ciò avrebbe significato spaccare lo schieramento politico e mettere la DC sull'uno o sull'altro versante, cosa che Moro non accettava perché vedeva sempre la DC al centro, con la funzione di guida, di perno, di punto di riferimento di tutti i processi, almeno fino a quando la democrazia non fosse stata completamente assicurata nel nostro paese.
Fino alla cosiddetta «democrazia compiuta»?
Sì, ma anche questo è un discorso che Moro non faceva. Lui era ancora nel periodo in cui la democrazia doveva essere «compiuta», quindi non si poneva i problemi del dopo, ma del come procedere nella situazione in cui si trovava. Anche per quanto riguarda il discorso con i comunisti il suo comportamento fu analogo. Moro si rendeva conto che si doveva far aderire alla democrazia anche la parte che seguiva il partito comunista, ma con grande prudenza, senza avventatezza .
Fu in gran parte responsabilità dei socialisti se in un certo momento questo processo fu accelerato. Fu quando Moro era tornato Presidente del Consiglio, nel '74, e tra la fine del '75 e i primi mesi del '76 i socialisti, segretario De Martino, sostenevano dall'esterno il governo Moro e lo fecero cadere. Cominciò allora la strategia dell'attenzione verso i comunisti che portò prima al governo Andreotti della «non sfiducia» in cui i comunisti votavano né a favore né contro e due anni dopo, il governo in cui i comunisti entrarono nella maggioranza, non nel governo, nel '78 e quindi nel periodo dell'ultimo discorso ai gruppi parlamentari e del rapimento. Anche qui Moro agì sempre con grande gradualità, valutando gli eventi, i movimenti della società, conservando alla DC la funzione di' guida, di garanzia di questo processo, affinché fosse fisiologico, evitando gli scontri frontali.
Quali erano i rapporti di Moro con i colleghi di partito e con gli amici come Lei?
Moro era un uomo con cui era molto facile andare d'accordo. Era molto fine, molto rispettoso, un uomo di grande sensibilità, molto fedele all'amicizia. lo lo conoscevo da molto tempo.
Da prima dell'assemblea costituente, poi per i periodi Dosséttiani e non ho mai avuto problemi con lui perché era una personalità elevata, senza nessun sentimento deteriore. L'amiciza accompagnata dall'ammirazione per lui era naturale, spontanea così come l'affetto che gli ho sempre mantenuto. Credo che quelli che gli stavano vicino avessero i medesimi sentimenti. Poteva esserci qualche volta quale leggera disputa d'opinione, ma lui era sempre molto rispettoso, molto comprensivo. Ho collaborato con lui quando era segretario del partito e io ero presidente del gruppo della camera, quindi abbiamo vissuto insieme tutto il travagliato periodo dal '59 al '62. Poi sono stato con lui tanti anni al governo, dal '63 al '68, io ministro della pubblica istruzione e lui presidente del consiglio. Ho avuto sempre una grande intesa e cordialità, nonostante qualche valutazione diversa. Ad esempio io ero piuttosto allarmato perché i socialisti volevano l'approvazione del famoso programma economico di sviluppo, il cosiddetto piano Pieraccini, che Fanfani chiamava «il libro dei sogni», che doveva essere una programmazione dello sviluppo economico degli anni futuri, ma che poi non ebbe nessuna applicazione. Era un grosso volume che i socialisti avevano preteso fosse approvato, riga per riga, dal parlamento, tenendo occupata la camera per quasi tutto il '67. lo avevo pronta la riforma universitaria e più volte mi lamentai con lui perché dovette attendere l'approvazione
del piano Pieraccini e non poté andare in discussione se non nei primi mesi del '68, troppo tardi per essere approvata anche dal Senato. Ci sono state dunque, a volte delle differenze di valuta_zione ma senza mai veri contrasti o attriti. Anche privatamente, qualche volta, la sera ci trovavamo a passeggiare insieme, con grande spirito di amicizia.
Qual'era l'atteggiamento di Moro verso i giovani, in particolar modo di fronte alla contestazione giovanile del '68?
Come era sua caratteristica si sforzava di capire le ragioni di questo fenomeno che fu mondiale. Il '68 non fu solo la contestazione dell'Università, la richiesta degli studenti di riformare gli ordinamenti per ridurre il potere dei professori universitari e per articolare diversamente gli studi. Ci furono altri aspetti a cui lui guardava, che andavano al di là di questi: una nuova mentalità che nasceva nei giovani di fronte ai quali Moro fu sempre molto sensibile e molto aperto. Infatti volle sempre conservare l'insegnamento universitario, anche quando aveva le massime responsabilità (cosa in cui io ero molto d'accordo), perché gli pareva così di non perdere il contatto con i giovani e con quanto avveniva nel mondo giovanile.
Veniamo ora all'uomo politico. Moro, all'interno della DC, non ebbe mai più de/1'8-9% e, tuttavia, per un certo periodo di tempo divenne il principale punto di riferimento di tutta la vita politica italiana....
È assolutamente vero. Nonostante dopo le elezioni del '68, ci siano stati dei tentativi per · emarginarlo, dentro la DC, da parte di quelli che si chiamavano i «doratei», e con Moro fossimo rimàsti in pochi amici, tra i quali io, Scaglia, Zaccagnini, Morlino e alcuni altri della sua regione. Nonostante questo, la sua intelligenza, la sua capacità di vedere le cose, di guidare, di illuminare, lo riportarono ad essere il Presidente del consiglio, nel '74, dopo essere stato per parecchi anni Ministro degli affari esteri. Ma poi, dopo le elezioni del '76, Moro pensava di disimpegnarsi gradualmente dalle grandi responsabilità della politica attiva per dedicarsi agli studi e ai rapporti con i giovani. Ricordo che, molto allarmato e d'accordo con Zaccagnini, allora segretario, sono andato a palazzo Chigi a dirgli che non doveva assolutamente ritirarsi perché la sua presenza era necessaria e lui si lasciò persuadere. Successivamente, diventò Presidente del Consiglio Nazionale e in questo ruolo finì per assumere un rilievo, un'importanza forse superiore a quella che aveva quando era segretario del Partito. In una fase molto critica per i governi, per l'emergenza, per il terrorismo, per una situazione economica molto difficile, per certe evoluzioni intervenute dentro il partito comunista, Lui era diventato più che mai, dentro e fuori la DC, il punto di riferimento, il cardine del processo di consolidamento della democrazia.
È per questo dunque che fu colpito Aldo Moro?
Certamente fu scelto per questo. In lui forze estremiste di sinistra vedevano sfuggire progressivamente la possibilità di una rivoluzione e vista la funzione che Moro esercitava dentro la DC e nei confronti delle altre forze politiche, compreso il PCI, pensavano che, tolto di mezzo Moro, il processo di allargamento pacifico, fisiologico, della democrazia sarebbe stato interrotto e sarebbe stato possibile un rivolgimento traumatico della situazione politica.
Altri hanno pensato che il rapimento di Moro fu sì fatto «per mano sinistra» ma in realtà sarebbe partito dalla «destra», magari anche con qualche assenso statunitense. Quanto vi può essere di vero in tutto ciò?
Io non ho elementi ma non ci credo. Che poi la sinistra e le B.R. agissero per conto degli americani, mi sembra improbabile e fantascientifico. In realtà, per me quelli agivano come dei fanatici rivoluzionari di sinistra.
Veniamo ora al rapimento dell'On. Moro. La DC fu per la linea della fermezza. Come fu vissuto il periodo della prigionia di Moro all'interno del partito e che effetto provocarono le lettere che lui scriveva, una delle quali fu indirizzata proprio a tutta la DC?
Quando nel Marzo del '78, Moro fu imprigionato e la sua scorta fu uccisa, io ero in una situazione per cui non potevo prendere posizioni politiche, quindi non posso riferire esperienze personali molto acute. Devo dire che io avrei preferito che la questione non diventasse «preda» delle dispute tra partiti. Devo riconoscere che lo è diventata soprattutto per responsabilità dei comunisti e dei repubblicani diventati gli alfieri della fermezza, del «senso dello Stato», costringendo la DC a prendere posizione pubblica. Io avrei preferito che la questione fosse avocata al Governo, alla sua intera responsabilità e che il governo avesse poi risposto quando la questione fosse stata chiusa.
Io non so se avrebbero ucciso Moro in ogni caso, ma la DC non ha potuto non assumere una posizione di fermezza, di difesa dello stato perché era giusto, ma anche perché la questione era degenerata in una concorrenza tra forze politiche che secondo me non è stata molto bella. Sono state certamente settimane di grande pena, di grande disagio. lo sono stato anche interpellato in una di quelle lettere in cui Moro dice di non approvare la tesi della ragion di stato, non perché coinvolgeva lui, ma perché aveva sempre ritenuto che la vita umana fosse il valore primo, più valido della ragion di stato stessa, e che perciò Lui non accettava le argomentazioni proposte dalle forze politiche nella disputa pubblica cui accennavo prima. E si è appellato alla mia testimonianza dicendo: «Come sa Gui...», perché, quando io ero ministro dell'interno, qualche anno prima del '75, ed era di grande attualità la questione dei sequestri di persona, pensavo di fare una legge che disponeva preventivamente il blocco di tutte le disponibilità economiche dei sequestrati per togliere un incentivo ai malviventi. Preparai un abbozzo di legge, ne discutemmo, ma lui non fu d'accordo e mi disse: «Io non sono d'accordo perché se poi ti capita che sequestrano una persona ugualmente tu che fai? I soldi non glieli puoi dare, allora, o infrangi la legge o devi far morire una persona. Ma la vita di una persona vale più di tutto, quindi non ti devi mettere nella condizione di dover scegliere tra la vita di un uomo o il violare la legge» e io non presentai il disegno di legge. Moro invocò questo precedente e io feci una dichiarazione affermando che era così; quindi furono settimane di grande disagio, di grande pena. Alla fine il presidente Leone, dato che era in una delle lettere di Moro si accennava al fatto che le B.R. si sarebbero accontentate della liberazione di una persona mentre prima volevano la liberazione di tutti i loro detenuti, allora si preparò a fare un decreto di grazia per uno di questi brigatisti che in prigione ammalato, ma l'operazione non poté andare in porto in quanto tra le B.R. tra loro stesse divise, prevalsero gli intransigenti, i quali, per evitare che la disputa al loro interno dovesse continuare, ammazzarono Moro.
Ritornando alle lettere che Moro fece pervenire dalla prigione, qualcuno disse che non potevano essere state scritte di sua spontanea volontà...
Certamente Moro avrà conosciuto della situazione solo quello che gli facevano conoscere. Questo bisogna metterlo in conto, non lo si può negare. Lui non avrà avuto una conoscenza a trecentosessanta gradi della realtà e quindi non credo che fosse nelle perfette condizioni di libertà di giudizio, ma che questa fosse un'alterazione del suo modo di pensare non ne sono mai stato convinto. Perciò io non ho sottoscritto la dichiarazione in questo senso, di alcuni amici, uscita allora.
Quanto ancora oggi a distanza di 10 anni, turbano le lettere di Aldo Moro?
Naturalmente questo è collegato con quanto si può sapere di quei giorni. Molti elementi sono emersi dai vari processi ma le domande sono ancora quelle, gli stati d'animo sono ancora quelli, accompagnati naturalmente dalla permanenza del dolore per la sua scomparsa e dalla valutazione dei danni che questa ha prodotto.
Può essere che all'interno delle lettere di Moro vi fossero dei messaggi cifrati?
Già allora qualcuno pensava che ci potesse essere qualche indicazione nelle citazioni di certi nomi che potessero fare riferimento a località, però mi pare che non sia venuto fuori niente di concreto.
In questo periodo la DC assunse la linea della fermezza. Oggi un'altra que:. stione divide l'opinione pubblica: l'atteggiamento da assumere nei confronti dei pentiti del terrorismo. Di fronte a quanto è successo, di fronte al ricordo ancora vivo di Aldo Moro, non è elemento di confusione che qualche personaggio, allora intransigente, adesso si schieri a favore del «perdonismo»?
Certo c'è una certa contraddizione e c'è stata anche con atteggiamenti assunti successivamente dallo Stato. Per esempio durante il sequestro del giudice D'Urso sono state chieste alcune operazioni per poterlo liberare e lo stato ha acconsentito, facendo fra l'altro, per me, bene. La stessa legge sui pentiti, che stabilisce che chi dà delle indicazioni valide per scoprire autori di certi sequestri, ha un forte «abbuono» di pena o addirittura la liberazione, è un compromesso. Personalmente non mi sento di condannare totalmente il ricorso a qualche compromesso pur di ottenere un beneficio superiore; come non ho niente da dire su coloro che esprimono il perdono personale, ma questo è un atteggiamento che appartiene alla sfera privata di ciascuno. Che lo stato debba adottare la linea del perdonismo, cioè del perdono in ogni caso, questo no, è eccessivo. Non mi sento di accettare il principio di un perdono indiscriminato, senza che serva al bene comune, e trovo che in parte è contraddittorio con la linea seguita ai tempi del rapimento Moro. Bisogna distinguere l'atteggiamento personale da quello della legge, che deve essere oggettivo. La legge deve aver di mira l'interesse comune e il bene pubblico, con la massima umanità, ma senza derogare da questa regola.
Qual è l'eredità che Moro ha lasciato al paese?
L'eredità che Moro ha lasciato al paese, è grandissima nei suoi insegnamenti morali, culturali, politici e anche pratici perché il suo sacrificio ha portato praticamente al superamento dell'emergenza, alla disfatta del terrorismo, delle brigate rosse, effetto opposto a quello che immaginavano i suoi persecutori. Noi dobbiamo anche a lui e al suo sacrificio in modo rilevante, il consolidamento della libertà e delle istituzioni democratiche.
E quale eredità ha lasciato al partito e ai giovani?
È un esempio, un maestro, non c'è dubbio. Dai suoi discorsi si ricava veramente un esempio illuminatore ai fini dell'attività politica oltre che della comprensione del suo valore. Devo dire che, negli ultimi tempi, nel suo desiderio di impegno c'era la percezione di una crisi morale profonda nella società nazionale, che emerge nei suoi discorsi, nelle sue frasi, ricordate poi sui manifesti: «se non nascerà un nuovo senso del dovere, la stagione della libertà e dei diritti si rivelerà effimera». Moro si rendeva conto che c'era una crisi di ordirte morale e spirituale profonda nel paese; non più soltanto il problema dell'emergenza ·politica, economica; dell'ordine pubblico, ma una crisi delle convinzioni e dei costumi nel profondo della nostra gente. Dieci anni fa la situazione era ancora meno grave di oggi. C'era già stato tuttavia il referendum sul divorzio come sintomo gi questo cambiamento. Perciò, il suo insegnamento deve essere visto come un richiamo alle ispirazioni cristiane, ai valori morali di fondo, indispensabili per la stessa convivenza politica. Per quanto riguarda il partito, in ciò c'era giù un appello a una forma di reazione al cedimento di ordine morale, presente nella società e di riflesso anche nei partiti, sulla base della concezione della politica come servizio, come esercizio di un dovere di ispirazione cristiana. Non credo ci possano essere indicazioni concrete sul modo di fronteggiare gli avvenimenti di attualità nei rapporti fra le forze politiche perché naturalmente, dopo la sua morte, la situazione politica si è modificata. Probabilmente, se fosse stato vivo Moro, i comunisti non avrebbero interrotto così presto la politica di solidarietà nazionale e le cose sarebbero andate diversamente. Quindi non credo si possano ricavare indicazioni minute, se non l'orientamento di fondo, di consolidare ulteriormente la democrazia, rendendola partecipata a tutto il popolo italiano, conservando per la DC la funzione di guida e di orientamento.
Secondo Lei, oggi, chi degli uom1m sulla scena politica, ha avuto l'eredità di Moro?
Direi che nessuno esercita più la funzione che esercitava Moro perché sono cambiati i rapporti tra le forze politiche e sono cambiati anche gli schieramenti all'interno della DC. Un vero successore di Moro non c'è. Ci sono amici che hanno cercato di interpretare la sua linea, come Zaccagnini, gli amici Morotei... però i Morotei senza Moro non hanno molto significato.
Ma Craxi si vanta anch'egli di essere un leader al centro della vita politica...
È un'altra cosa. Moro non aveva nessuna debolezza per le modifiche costituzionali o istituzionali. Non sarebbe stato ostile a qualche variante modesta, ma egli credeva ai comportamenti, alle idee, alle convinzioni profonde, non ai giochi di modifica delle leggi, alla ricerca di un potere personale garantito dalla modifica della Costituzione o delle leggi elettorali. Lui credeva nel valore della persona, delle idee, al senso del dovere cui faceva riferimento nei suoi discorsi. Certamente Craxi non ha niente a che vedere con Moro. L'impostazione, la formazione e il pensiero dei due, sono diversi, hanno un'origine diversa e sono senza dubbio tutt'altra cosa.
Si è sempre parlato della lungimiranza di Moro. Quanto di quello che Moro temeva si è realizzato a distanza di dieci anni?
Direi che quello che temeva si è purtroppo in parte verificato. Ciò che lui temeva maggiormente, non erano i problemi delle forze politiche, ma il cedimento del costume, della adesione ai valori, del senso del dovere, del senso del servizio, la prevalenza dell'interesse individuale sull'interesse generale. Per il resto, credo pensasse che gli schieramenti si sarebbero sviluppati diversamente. L'attuale continua oscillazione non rientrava nelle sue previsioni, perché oggi siamo in un periodo molto friabile, molto incerto, il fatto stesso che spesso si facciano accordi di programma ma non accordi politici, dimostra come la situazione sia fluida. Senza dubbio, una fase si è chiusa nel nostro paese con la sua scomparsa. Cercare di capire come si sarebbe comportato lui è inutile, sono pensieri che non hanno fondamento. Ciò che a noi resta è l'esempio della sua vita come contributo al consolidamento ulteriore della democrazia e il ricordo del suo tremendo sacrificio che non potremo dimenticare mai.
















