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Siamo ormai in una fase che necessita un chiarimento interno ai grandi partiti di massa.

Storicamente la stagione congressuale rientra nei momenti più significativi dell'intera esperienza politica della Democrazia cristiana. Attraverso questi passaggi la storia del partito e dell'intero paese ha trovato svolte memorabili, dal Congresso di Napoli del '62 che aveva inaugurato la politica del centro-sinistra al Congresso del 1980 con l'interruzione dell'alleanza con il Pci e l'apertura delle coalizioni di pentapartito. La classe dirigente democristiana da sempre, scaraventa nel dibattito congressuale tensione culturale e passione politica, circoscrivendo la «scelta», che rimane il momento centrale. In tutti i congressi, infatti, la selezione della classe dirigente e la definizione della linea politica rappresentano i due tasselli fondamentali dei congressi democristiani.

Anche il XVII Congresso del partito entra in questo solco di riflessione e di scelte, al di là di trasformarlo in un seminario di studi e in una passerella di relazioni.

Vorrei introdurre alcuni elementi di riflessione per il prossimo Congresso partendo dalle novità che hanno contraddistinto l'ultima stagione politica della Democrazia cristiana.

1. Innanzitutto la rinascita delle correnti. Da Saint-Vincent a Chianciano, da Sirmione a Padova, è stato, nella Dc, un susseguirsi di incontri convegni e dibattiti: l'autunno ci ha così riservato una sorta di esplosione primaverile, ribollente di vitalità politica e di iniziative culturali, tanto più vigorosa e tenace quanto più rigido e gelido è stato il lungo inverno che l'ha preceduta. Nella Dc si riprende così a fare politica e, come d'incanto, si sono dissolte le nebbie che – attraverso slogan come «il superamento delle correnti» e il «rinnovamento» - hanno paralizzato il dibattito interno. Non solo le correnti sono rinate ma, fatto ancor più singolare, sono apparse come non mai lontane da immediate preoccupazioni di bottega, tese cioè a farsi carico degli interessi generali del partito e del paese. Ciò sta a significare che la misura da tempo era colma e che un grande partito popolare, capillarmente insediato in una società articolata come la nostra non può sentirsi a lungo «bloccata» da un vertice monocratico e monocorde, né può subire più di tanto un processo di semplificazione e di censura. E, difatti, anche le componenti della Dc che non si sono raccolte al convegno, hanno, con tempestiva vivacità, portato il loro contributo al dibattito interno, respingendo antiche e recenti soggezioni, interessati inviti alla moderazione. Da questa rinascita di idee e di dibattito interno emerge purtuttavia la considerazione che le correnti, come le leadership autentiche, non nascono a caso e non sono mai il frutto di parti indolori: o nascono sotto il segno dell'autonomia e del carattere o sono destinate a dissolversi presto non solo e non tanto perché rischiano di essere «colonizzati», quanto perché rappresentano una copertura troppo comoda per coloro che preferiscono, piuttosto che risolvere le interne contraddizioni, scaricarle sugli altri e lusingare ora Tizio ora Caio pur di mantenere intatti la propria unità ed il proprio potere.

2. Un secondo elemento da non sottovalutare è che si è avviato un confronto aperto tra le sinistre all'interno della Democrazia cristiana, dopo un periodo di relativa incomprensione. L'esperienza di questo ultimo decennio ha dimostrato, in maniera spesso drammatica, come il dissidio all'interno della sinistra non abbia rappres ntato un episodio marginale e circoscritto, ma, al contrario, abbia investito il modo di essere di tutta la Dc, l'abbia come paralizzata in ogni sua iniziativa ed abbia contribuito a farla decadere dal ruolo centrale e di intesi all'interno della società italiana; con pesanti GOnseguenze anche d'ordine elettorale. Non a caso Moro si batté sempre – fin dall'operazione di San Ginesio – contro ogni tentativo teso a spezzare la solidarietà all'in- terno della sinistra e a discriminare ora come ora quella sua componente. Egli – a differenza di tanti interessati esegeti – sapeva benissimo che, in un sistema basato sulla proporzionale, debbono trovare nella Dc una composizione strategica due esigenze tendenzialmente divaricanti: l'una tesa ad affermare l'identità del partito e l'altra a ricercare la strada delle alleanze politiche; l'una con l'occhio rivolto ai dati strutturali operanti nella società civile e nei provassi sociali, l'altra con l'occhio fisso alla dialettica tra le classi politiche e alle sovrastrutture istituzionali. Esigenze che, certo, sono sempre state latenti e diffuse in tutto il partito ma che raggiungono, per ragioni storiche e culturali, un alto grado di concentrazione soprattutto nelle due componenti della sinistra interna, quella sociale e quella politica; le quali rappresentano perciò le due sensibilità, i due occhi, le due anime senza cui non è possibile vedere la realtà delle cose, non è possibile governare il partito, né assegnarli un ruolo di guida nella società. E difatti ogni qualvolta l'una delle due esigenze prevarica sull'altra oppure subentra nella Dc la pretesa di vedere con un occhio solo, ecco che il dato sociale e strutturale si irrigidisce nella regressione integralista e cooperativa; oppure ecco che la propensione alla solidarietà con le altre forze politiche si dissolve nella prassi trasformistica e nella ricerca miope del potere.

Da sinistra a sinistre

Ed allora tutto il partito è costretto, come un calabrone privo di orientamento, a sbandare paurosamente ora in una direzione ora nell'altra a giocare ruoli subalterni nei confronti di altre forze politiche di gruppi di pressione esterni. È quanto si è verificato e si verifica nella Dc da quando le due sinistre interne hanno smarrito la strada del dialogo e della collaborazione. Nella società contemporanea, l'incalzare di tendenze nuove ed inedite non può lasciar tranquilli coloro che ancora credono nel ruolo storico della Dc ed hanno a cuore le sorti della nostra democrazia. Una presa di coscienza da parte dell'intera sinistra democristiana rappresenta, quindi, un passaggio obbligato, una scelta decisiva e prioritaria. Ma la semplice consapevolezza in ordine·alla gravità della situazione non può bastare. I processi di involuzione sono oggi così radicati e diffusi, dentro e fuori il partito, che una iniziativa meramente difensiva non è certo in grado di arrestarli: è come se pensassimo di bloccare un vasto smottamento del s olo aggrappandoci al terreno. E necessario fare di più, molto di più.

Necessita una sortita di vasto respiro, incurante dei risultati immediati e refrattaria a lusinghe trasformistiche, che sappia ribaltare la prospettiva che ci rende prigionieri dell'esitante e complici involontari di un disegno conservatore. La sinistra democristiana, proprio perché ha alle spalle una storia che risale al Partito Popolare, non può inseguire le mode del momento, né farsi abbagliare da certa cultura psuedo-progressista che oggi tende a confondere i termini della lotta politica ed a coprire sofisticate operazioni di destra. A ben guardare, fin dai tempi di Ferrari e Donati, nel primo dopoguerra e di Dossetti e di Pastore nel secondo dopoguerra, la sinistra popolare e democristiana ha sempre coltivato con coerenza un obiettivo di fondo e di lungo periodo: quello di legare, in un comune disegno di libertà e di progresso, la sorte della classe operaia a quella dei ceti medi produttivi, il lavoro dipendente al lavoro autonomo. Si tratta d'un obiettivo che, nonostante l'evoluzione della società italiana, non ha perso né di attualità né di importanza e, di fronte a certe mode correnti tendendi ad enfatizzare la perdita di centralità della classe operaia, hanno ragione coloro che osservano che «gli aspetti della prestazione del lavoro stanno cambiando e la mobilità sociale sta diventando più intensa: ma saranno ancora molti i decenni per i quali è possibile, è prevedibile un mondo in cui il salario, cioè il lavoro retribuito, avrà dimensioni imponenti ed il lavoro dipendente, in varie forme, in forme cambiate, sarà prevalente tra la popolazione attiva».

Ma v'è di più: il passaggio dalla società industriale a quella postindustriale è destinata, da un lato, ad incrementare l'osmosi tra lavoro autonomo e lavoro dipendente (cercando con le moderne professioni nuovi ceti medi all'interno di quest'ultimo) e, dall'altro, ad incentivare le spinte corporative tanto nel mondo del lavoro salariato quanto nei ceti medi produttivi, rendendo quindi più che mai necessaria un'opera costante di amalgama e di unificazione tra le classi sociali, tra le varie categorie professionali e tra gli interessi settoriali e corporativi.

Siamo quindi in presenza di dati strutturali che tendono non a deprimere ma ad esaltare il ruolo politico d'una sinistra democraticocristiana, che intenda ancora una volta esercitare una funzione di cerniera tra ceti medi e classe lavoratrice per impedire che i primi forniscano una base di massa a nuove avventure autoritarie e corporative e che la seconda ricada nel ghetto della protesta massimalista e minoritaria.

Gramsci diceva che non è il pensiero che unisce gli uomini, ma ciò che concretamente essi pensano. Se ciò è vero, è necessario allora lavorare perché, non su aspirazioni generiche né su nostalgie del passato, ma su ipotesi concrete di lavoro e su progetti precisi le sinistre trovino le ragioni della loro convergenza. Ciò deve riguardare non solo la politica economica e sociale, ma anche il ruolo e la riforma del nostro partito.

Dopo le critiche rivolte da vasti settori dell'opinione pubblica contro le degenerazioni oligarchiche del sistema dei partiti, forse non basta più sperare in una autoriforma degli stessi: il problema della «costituzionalizzazione» dei partiti e del loro riconoscimento giuridico si pone ormai con urgenza ed anche qui le sinistre democristiane devono dimostrare coraggio e lungimiranza, avanzando proposte precise.

3. La peculiarietà della Democrazia cristiana. In una stagione politica di crescente confusione è quantomai necessario risottolineare la personalità politica del partito. Dimenticarsene significherebbe compiere un grave errore di omissione politica complessiva.

Giova sottolineare le preminenti ragioni politiche e culturali che hanno consentito alla Dc non solo di promuovere e guidare quella prodigiosa trasformazione ma anche di conservare per tanti anni un largo consenso popolare nonostante la grande mobilità sociale che ha attraversato l'intero corpo elettorale.

Almeno tre appaiono le ragioni che spiegano, al di là dei dati contingenti il successo storico e politico della Dc: la prima riguarda il ruolo di garanzia democristiana sempre recitato nelle scelte di politica interna e di politica estera contro le tendenze autoritarie provenienti dalla destra come dalla sinistra dello schieramento; la seconda riguarda il ruolo di promozione sociale esercitato nell'integrare nello stato democratico vasti strati popolari che da sempre si sentivano emarginati politicamente ma soprattutto socialmente; la terza riguarda l'impegno nel diffondere ed esaltare i valori dell'ispirazione cristiana, e soprattutto l'attitudine a ricavare dalla difesa di questi valori un progetto generali di convivenza umana e civile nel quale potessero riconoscersi tutti gli uomini di «buona volontà», cioè anche i non credenti. Questi tre elementi, seppur attraverso cedimenti momentanei e periodi di grave incertezza, hanno caratterizzato in ogni fase storico-politicj:i l'azione della Dc ed hanno contribuito a definirne la fisionomia popolare, cristiana e democratica: cioè a creare quell'amalgama di atteggiamenti e di volontà, di intuizioni e di sentimenti cui spesso si richiamava Aldo Moro e che ha reso inconfondibile, quasi per ragioni di carattere antropologico, l'appartenenza alla Dc. 

4. La crisi dei partiti di massa e la loro tendenza totalizzante sarà al centro della nostra riflessione congressuale.

La crisi dei partiti di massa

La crisi dei partiti di massa coincide col venir meno graduale dei fattori che, per lunghi decenni, ne hanno favorito il radicamento nella nostra società. Si tratta d'un fenomeno complesso e articolato che investe ogni aspetto della partecipazione politica e che attiene tanto all'affievolirsi della presa delle ideologie tradizionali su masse da tempo uscite da condizioni di indigenza e sollecitate da nuovi modelli di vita e di consumo quanto alla crisi di rappresentanza che da tempo travaglia, per l'estrema mobilità delle classi sociali e delle categorie professionali, le stesse organizzazioni sindacali di massa. Sta di fatto che se guardiamo con animo sgombro da pregiudizi e da inerzie emotive alla realtà delle cose, ci rendiamo subito conto come i tre pilastri, su cui i partiti di massa hanno costruito la loro fortuna storica coivolgendo non solo le passioni .ma anche gli interessi reali di vasti ceti popolari, appaiono fortemente indeboliti se non addirittura incrinati. Sul versante delle scelte di politica economica abbiamo assitito all'eclissi progressiva di ogni forma di impegno sociale: il quale è stato via via deposto dal ruolo centrale che manteneva nel passato ed è stato ridotto ad appendice marginale e quasi caritativa all'interno delle manovre economiche e finanziarie del governo nazionale. Su questo tema si potrebbe scrivere un intero volume. Per ora basterà osservare che nei tempi il paese, mentre è uscito dall'inflazione ed è venuto manifestando una prodigiosa vitalità produttiva riportando i profitti nelle aziende, non ha per nulla eliminato le due cause congenite che rendono precario ed incerto il nostro avvenire: la nostra eccessiva dipendenza dall'estero, anche laddove potremmo renderci autosufficienti, e la continua espulsione di manodopera via via che avanzano i processi di ristrutturazione produttiva e di innovazione tecnologica. A tutto ciò si aggiunga un debito pubblico dalle proporzioni gigantesche che, da un lato, sottrae risorse immani allo sviluppo complessivo del paese arricchendo solo una parte, seppur estesa, di cittadini possessori di buoni del !esoro e che, dall'altro, rente talmente rigido e ripetitivo il bilancio dello stato da impedire qualsiasi manovra di riequilibrio e di rilancio degli investimenti pubblici. Siamo cioè in presenza d'un meccanismo che appare, nel bene e nel male, affidato esclusivamente al determinismo cieco delle leggi economiche e che è destinato non già a riformare, ma a demolire parti sempre più estese e consistenti dello stato sociale costruito con sacrifici incalcolabili da intere generazioni di lavoratori. Ma dove la degenerazione ha toccato livelli preoccupanti è soprattutto sul versante dei partiti politici. Da tempo non ci stanchiamo di mettere il dito sulla piaga, facendo eco alle stesse dichiarazioni del capo dello Stato, quando invita i partiti a desistere dallo svolgere «una mera funzione di potere» per limitarsi «ad organizzare la presenza dei cittadini nello Stato». In effetti, col passare degli anni, i partiti di massa hanno perso per strada quella funzione «discreta» accennata all'articolo 49 della nostra Costituzione («concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale») ed hanno assunto tendenze e facoltà sempre più corporee ed estese in ogni direzione.

I grandi partiti di massa, nati e organizzati nella società per portare nello stato regole nuove ed imparziali di giustizia e democrazia, col passare del tempo si sono identificati a tutti i livelli con l'amministrazione pubblica col risultato, da un lato, di rendere sterile la loro originaria funzione di proposta e di mediazione politica e, dall'altro, di ridurre lo Stato, che dovrebbe essere l'espressione della generalità dei cittadini, a succursale partigiana di questa o quella corrente politica. La degenerazione è davanti agli occhi di tutti perché vi si debba insistere con ulteriori descrizioni. Sta di fatto che il rapporto tra cittadini e istituzioni risulta fortemente turbato: di qui la crescente ripulsa dell'uomo della strada nei confronti dei partiti e dell'attività politica. E oltre tutto il potere pubblico è finito nelle mani dei partiti – al punto che non esiste banca o ente che sfugga al controllo esoso delle segreterie politiche – questi continuano a conservare la fisionomia giuridica delle associazioni private o di fatto, all'interno delle quali spesso non trovano cittadinanza i valori di trasparenza e di correttezza democratica che sono alla base del nostro patto costituzionale.

La realtà è che l'avvento del sistema dei partiti ha prodotto a tutti i livelli una vera e propria classe sociale che, con l'occupazione dello stato e con la degenerazione burocratica ed oligarchica dei partiti stessi, tende sempre più ad assumere i connotati di una casta chiusa ed invalicabile, cioè staccata dai problemi reali della società e portata ad agire in funzione della propria autoconservazione ed autoriproduzione. In tal modo i partiti di massa che per lunghi decenni hanno rappresentato lo strumento decisivo per amalgamare ed integrare nello stato milioni e milioni di cittadini un tempo emarginati e costretti all'astensione, corrono oggi il rischio di ostacolare i nuovi processi di partecipazione attiva delle masse e di generare forme nuove e pericolose di astensione e di disaffezione nei confronti della lotta politica.

Una spinta alla frammentazione

La stessa frammentazione corporativa e localistica del corpo elettorale, contro cui i partiti nazionali hanno sempre condotto battaglie memorabili per convogliare le aspirazioni e le volontà dei cittadini all'interno di scelte unificanti e sintetiche, rischia oggi di ricevere un impulso inaspettato proprio da parte dei partiti e del loro atteggiamento di chiusura nei confronti della società civile: e difatti la proliferazione delle liste locali è oggi spesso causata dal clima di intolleranza e di sopraffazione che caratterizza la gestione dei partiti e che costringe le realtà mortificate a ricercare nella società quegli spazi di libertà e di rappresentanza negati all'interno dei partiti.

Sono questi, alcuni elementi di riflessione – accanto a molti altri, ovviamente – da avanzare, anche come movimento giovanile, in sede congressuale. Per questo, il congresso della Democrazia cristiana rappresenta un momento decisivo ed essenziale nel processo di rinnovamento del partito, del sistema politico e dell'intero paese.

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