Il futuro dei partiti nell'era della democrazia matura
Secondo certi protagonisti e commentatori autorevoli delle nostre vicende pubbliche, «la politica» sarebbe entrata in una fase di crisi irreversibile. A sostegno di questa opinione viene invocata la circostanza, verificabile in ogni occasione, del distacco crescente del cittadino comune – il cosiddetto uomo della strada – da tutto ciò che riguarda la lotta ed il dibattito politico in corso nel nostro paese. Come tutti i luoghi comuni, anche questa convinzione diffusa conserva una parte di verità. Come negare, infatti, la diffidenza e la riluttanza dei cittadini nel seguire le controversie, spesso incomprensibili, che animano il nostro teatro politico? È sufficiente tuttavia spingere lo sguardo più a fondo per capire che la situazione è più complessa e che la realtà è più sfumata ed articolata. Se per politica si intende la lotta per il potere reale oppure lo sforzo a far prevalere gli interessi particolari sull'interesse generale (o viceversa), dobbiamo arguire che la politica non è andata mai in crisi. Anzi, la stessa tesi del rifiuto o della inutilità della politica rappresenta di per sé una determinata scelta politica: è cioè la politica di chi intende conseguire certi obiettivi particolari senza dover fare i conti con gli interessi e le opinioni della generalità dei cittadini.
Se tutto ciò è vero, la crisi attuale allora non riguarda tanto la politica, che continuerà ad esistere finché dureranno le passioni, gli interessi e le ambizioni degli uomini, e quanto un certo modo di fare politica: o, meglio ancora, la crisi riguarda soprattutto gli strumenti principali preposti all'attività politica, cioè i partiti ed, in modo particolare, i grandi partiti di massa. Sui moderni partiti di massa, sulla loro nascita e sulla loro crisi esiste una letteratura talmente sterminata che non è certo il caso di evocarla in tutta la sua ampiezza ed articolazione. Qui basterà, per ora, richiamare due dati essenziali: da un lato, che gli attuali partiti popolari (Dc, Pci, Psi) si sono affermati nel clima politico del primo dopoguerra: essi sono cioè il frutto dell'allargamento del suffragio elettorale e della terribile forzatura operata dalla guerra sull'intera società nazionale; e, dall'altro, che nel giro di pochi anni, essi sono andati in crisi per essere sostituiti dal partito nazionale fascista, cioè da un altro partito di massa.
In concreto, l'esperienza storica dimostra, per un verso, che l'avvento dei partiti di massa coincide con il risveglio delle masse causato dai processi di industrializzazione e dalle guerre «totali» e, per altro, che tale risveglio può trovare sbocchi di varia natura e non necessariamente democratici: può, cioè, dar vita anche, per dirla con Togliatti, a «partiti reazionari di massa», come nel caso del fascismo e del nazismo. Il maggiore studioso di questi fenomeni, George L. Mosse, in un intervento dedicato all'opera politica di Aldo Moro, ha osservato di recente,:.Viviamo in un'epoca altamente industrializzata, il che significa che viviamo anche in un'epoca di sempre maggiore alienazione». Ne deriva, sempre secondo Mosse, che il bisogno irriducibile di partecipazione attiva delle masse alla lotta politica ed alla gestione del potere, tende per sua natura a manifestarsi «in forma emotiva e mitologica», ad invocare soluzioni di tipo simbolico ed a risolversi in «rappresentazioni drammatiche». Di qui il carattere fortemente ambiguo del fenomeno che può tradursi tanto nell'esaltazione e nel potenziamento della democrazia del- 1'autogoverno, quanto nel sostegno emotivo a soluzioni autoritarie ed a scelte affidate a capi carismatici.
Orbene, il nodo di fondo della società contemporanea risiede nella capacità di legare la questione del partito e della democrazia alla rapida trasformazione della nostra società. Il compito principale e prioritario per il nostro movimento giovanile è quello di saper creare una classe dirigente che sappia mantenere inalterata l'identità culturale e il ruolo politico del partito in un clima di sconvolgimento sociale ed economico qual è quello contemporaneo. Dobbiamo por mano, dunque, a questa riflessione cruciale per il futuro della politica e della Democrazia cristiana.
La crisi dei partiti di massa coincide col venir meno graduale dei fattori che per lunghi decenni ne hanno favorito il radicamento nella nostra società. Si tratta d'un fenomeno complesso e articolato che investe ogni aspetto della partecipazione politica e che attiene tanto all'affievolirsi della forza delle ideologie tradizionali su masse da tempo uscite da condizioni di indigenza e sollecitate da nuovi modelli di vita e di consumo, quanto alla crisi di rappresentanza che da tempo travaglia, per l'estrema mobilità delle classi sociali e delle categorie professionali.
Pare inutile osservare come non basti, per porre rimedio a questa situazione, vivere alla giornata attraverso le misure congiunturali che di anno in anno vengono prese con una legge finanziaria che è, essa stessa, tra le cause strutturali dello squilibrio in atto: ma che occorra, finalmente, elaborare un piano a medio termine che incida tanto sulle entrate (attraverso lariforma fiscale), quanto sulle uscite (responsabilizzando i gestori della spesa) e che liberi le risorse necessarie per ridurre la nostra dipendenza dal vincolo esterno e per allargare le basi produttive del sistema industriale.
Ma come è possibile che tutto ciò avvenga se all'interno dei partiti di massa la questione sociale non è più al centro dell'attenzione e vien spesso riguardata come un residuo anacronistico del passato? L'indebolimento elettorale del Pci e la crisi di rappresentanza del sindacato non contribuiscono certo a modificare, anche sul piano della sensibilità e della cultura politica, una situazione già fortemente squilibrata. E non è un caso se nella stessa Dc negli ultimi tempi è stata brutalmente emarginata e penalizzata l'unica componente interna che ha sempre cercato di richiamare, in ogni occasione, l'attenzione dell'intero partito sulla centralità della questione sociale. Ma dove la degenerazione ha toccato livelli preoccupanti è soprattutto sul versante dei partiti politici. Da tempo molti di noi non si stancano di mettere il dito sulla piaga, facendo eco alle allarmate dichiarazioni dello stesso capo dello stato, quando, nel messaggio di fine d'anno 1987, invitava i partiti a desistere dallo svolgere «una mera funzione di potere», per limitarsi ad «organizzare la presenza dei cittadini nello Stato». In effetti, col passare degli anni, i partiti di massa hanno per strada quella funzione discreta accennata nell'articolo 30 della Costituzione ed hanno assunto tendenze e facoltà sempre più corposa ed estese in ogni direzione.
I grandi partiti di massa, nati e organizzati nella società per portare nello stato regole nuove ed imparziali di giustizia e democrazia, col passare del tempo si sono identificati a tutti i livelli con l'amministrazione pubblica col risultato, da un lato, di rendere sterile la loro originaria funzione di proposta e di mediazione politica e, dall'altro, di ridurre lo stato, che dovrebbe essere espressione della generalità dei cittadini, a succursale partigiana di questa o quella corrente partitica. La degenerazione è davanti agli occhi di tutti perché vi si debba insistere con ulteriori descrizioni. Sta di fatto che il rapporto tra cittadini e istituzioni risulta fortemente turbato: di qui la crescente
ripulsa dell'«uomo della strada» nei confronti dei partiti e dell'attività politica. E mentre tutto il potere pubblico è finito nelle mani dei partiti – al punto che non esiste banca o ente che sfugga al controllo esoso delle segreterie politiche questi continuano a conservare la fisionomia giuridica delle associazioni private o di fatto, all'interno delle quali spesso non trovano cittadinanza i valori di trasparenza e di correttezza democratica che sono alla base del nostro patto costituzionale. La realtà è che l'avvento del sistema dei partiti ha prodotto a tutti i livelli una vera e propria classe sociale che, con l'occupazione dello Stato e con la degenerazione burocratica ed oligarchica dei partiti stessi, tende sempre più ad assumersi i connotati di una casta chiusa ed invalicabile, cioè staccata dai problemi reali della società e portata ad agire in funzione della propria autoconservazione ed autoriproduzione. In tal modo i partiti di massa che per lunghi decenni hanno presentato lo strumento decisivo per amalgamare ed integrare nello stato milioni e milioni di cittadini un tempo emarginati e costretti al- 1'astensione, corrono oggi il rischio di ostacolare i nuovi processi di partecipazione attiva delle masse e di generare forme nuove e pericolose di astensione e di disaffezione nei confronti della lotta politica.
La stessa frammentazione corporativa e localistica del corpo elettorale , contro cui i partiti nazionali hanno sempre condotto battaglie memorabili per convogliare le aspirazioni e le volontà dei cittadini all'interno di scelte unificanti e sintetiche, rischia oggi di ricevere un impulso inaspettato proprio da parte dei partiti e del loro atteggiamento di chiusura nei confronti della società civile: e difatti la proliferazione delle liste locali è oggi spesso causata dal clima di intolleranza e di sopraffazione che caratterizza la gestione dei partiti e che costringe le realtà mortificate a ricercare nella società quegli spazi di libertà e di rappresentanza negati all'interno dei partiti.
Certo, nei partiti di massa e, soprattutto, nel corpo elettorale che vi aderisce, troviamo ancora notevoli resistenze alle tendenze che ho cercato di individuare: e ciò si deve non solo all'inerzia delle opzioni ideologiche tradizionali ma anche al forte radicamento sociale che i partiti di massa sono riusciti ad acquisire nella nostra società. Non dobbiamo tuttavia farci illusioni. Col venir meno dei pilastri su cui hanno basato la loro tenuta elettorale ed il coinvolgimento di vasti ceti popolari, i partiti di massa rischiano di apparire giganti dai piedi d'argilla e di non reggere all'urto dei rapidi processi di modernizzazione in atto nella società: rischiano cioè di subire una crisi pari a quella che li ha visti sconfitti nel primo dopoguerra. Ciò che sta capitando oggi al Pci dovrebbe farci riflettere. Qui la crisi è dovuta soprattutto a ragioni di identità politica ed ideologica: al fatto cioè che, da un lato, sono venuti meno quasi tutti i motivi ispiratori che ne hanno determinato la nascita con l'indebolimento su scala mondiale, della cultura marxista leninista e che, dall'altro, è andata sempre più riducendosi la consistenza numerica e qualitativa della classe operaia, sulla cui «missione storica» e «funzione generale» il Pci ha giocato tutte le sue carte. Ed un partito di massa che non può più disporre di un passato da cui trarre alimento sul piano delle idee e dell'orgoglio, è destinato ad esaurirsi nel presente e nell'ordinaria amministrazione: cioè a finire ogni giorno in balìa degli eventi e ad essere sopraffatto al suo interno da miopi istinti di autoconservazione. Ma non si tratta solo di questo. A ben vedere il Pci, tra tutti i partiti di massa, è quello che ha esaltato al massimo certe caratteristiche burocratiche e centralistiche che, per un verso, l'hanno portato ad isolarsi dal tessuto vivo della società e che, per l'altro, l'hanno costretto perennemente ad ondeggiare ora in senso riformistico ora in senso protestatario col risultato di perdere consensi sia a destra sia a sinistra.
Ora, la tendenza a separarsi dalla società e a ricercare il consenso, non attraverso la soluzione dei problemi reali, cioè sociali, delle masse, ma attraverso il ricorso alle suggestioni propagandistiche ed all'uso spregiudicato dei media, non riguarda solo il Pci ma anche le oligarchie che oggi controllano gli altri partiti di massa. Si tratta d'una tendenza che marcia di conserva con i processi di concentrazione finanziaria e dell'informazione in atto nel nostro paese e che punta a ridurre ad ogni livello la partecipazione popolare e l'attività politica per non dover fare i conti con l'interesse generale. Sul piano della cultura e del pensiero riflesso questa tendenza cerca di assegnare ai propositi di semplificazione, in senso autoritario, delle decisioni politiche, il significato delle scelte moderne ed avanzate e di bollare come «vecchio» tutto ciò che ha rappresentato la forza e la ragione della crescita civile ed economica del nostro paese: come è noto, durante gli anni venti, toccò proprio alla cultura futurista un ruolo non indifferente nella affermazione del fascismo. Difatti, non si contano ormai, dentro e fuori i partiti di massa, le proposte «innovative» per abolire la proporzionale, per l'elezione diretta dei sindaci e presidenti della repubblica, per passare attraverso referendum e plebisciti vari a nuovi e più esaltanti regimi. Sotto questo aspetto la sintonia tra certe oligarchie economiche e certe oligarchie di partito appare quasi perfetta. Ed il risultato è che i partiti di massa, nel mentre affidano la loro iniziativa quasi unicamente alla politica-spettacolo ed alla ricerca nevrotica di soluzioni carismatiche, dimostrano anche tutta la loro fragilità, nonché la loro subalternità ad interessi ristretti alla loro storia ed alla loro natura.
Lo ha denunciato con forza Arnaldo Forlani: «Mentre avanza la logica della politica che diventa spettacolo la politica rischia il naufragio. Tutto diventa un fatto teatrale, una facciata dietro la quale c'è il nulla. Ma siccome il nulla non esiste, c'è in realtà il potere dei grandi potentati economici».
La crisi dei partiti di massa, se non viene affrontata in tempo e nella direzione giusta, rischia di consegnare il futuro del paese non nelle mani delle nuove generazioni ma nelle mani dei padroni di sempre. Ma il futuro della Dc, su questo terreno, dipende in misura non meno determinante della risposta che il partito d'ispirazione cristiana saprà dare ad alcuni interrogativi specifici che oggi mettono in questione i principi stessi dell'intuizione sturziana che l'hanno fatta nascere. Infatti non solo il radicale mutamento della società, ma anche l'evoluzione del mondo cattolico ed ecclesiale dopo il Concilio impongono un ripensamento delle ragioni di fondo che giustificano la presenza in Italia della Dc e l'aspirazione che essa ha di continuare a guidare il paese, dopo quarant'anni di governo. Perciò, trattandosi di rivedere in termini moderni i punti fondamentali dell'intuizione sturziana ci sembra, come ha fatto Martinazzoli in congresso, parlare di «ricominciare» che non di «rinnovare».
Il nostro paese, nella delicata fase di crescita che sta attraversando, ha bisogno più di ieri della presenza di un partito di ispirazione cristiana. Per diverse ragioni.
Una prima ragione è il ruolo determinante che questa stessa presenza ha avuto nella vita del paese, durante la fase della ricostruzione post-bellica, nella quale l'elettorato affidò alla Dc una responsabilità predominante. Questo largo consenso popolare si è rinnovato costantemente per quarant'anni, e la Dc – nonostante tutto – ha saputo tradurlo in scelte di fondo coerenti ed efficaci, insieme con tutte le altre forze democratiche. Basti pensare al contributo preminente dato alla elaborazione della Carta Costituzionale, alla trasformazione economica del paese, alla collocazione onorevole dell'Italia in seno alla Comunità Europea e nel mondo occidentale. Ma c'è un'altra ragione, non meno cogente, a esigere oggi ancora in Italia il contributo di una fattiva presenza politica d'ispirazione cristiana. Infatti, siamo consapevoli di trovarci ad un bivio, a una svolta decisiva nella vita del paese, dopo la prima di quarant'anni fa. È giunto, cioè, il momento di dare il passo a una democrazia matura, superando, con lo sforzo di tutti, il «blocco» in cui il nostro sistema di fatto oggi si trova per una serie complesse di cause.
Ora, tutte le analisi convergono nel ritenere che la nostra democrazia è «bloccata» da una crisi fondamentale di valori e di natura ideologica e culturale; dovuta cioè in gran parte, alla perdita delle evidenze etiche a una caduta di tensione ideale. Ciò ha prodotto la frammentazione e la lacerazione del nostro tessuto sociale, tradizionalmente omogeneo, mettendo in discussione l'unità della coscienza nazionale intorno a valori fondamentali della convivenza e alimentando forme inquietanti di disimpegno politico e di nichilismo ideologico. Ovviamente, se le cose stanno così, per passare a una democrazia matura occorre innanzitutto ricomporre moralmente e culturalmente la coscienza del paese intorno a quegli stessi valori cui si fonda il nostro stato democratico.
Ebbene, come potrebbe allora – proprio in un passaggio così decisivo - venir meno il contributo di quella forza politica maggioritaria che, in virtù della sua specifica ispirazione ai valori cristiani, affonda più profondamente le radici nel patrimonio etico e culturale del popolo italiano? Come potrebbe la Dc scomparire, senza grave pregiudizio della libertà in Italia, quando si tratta di realizzare compiutamente quella democrazia che essa contribuì in modo determinante a fondare e difendere? Ecco perché ancora oggi in Italia - più di ieri – non solo c'è spazio, ma c'è bisogno di una presenza politica cristianamente ispirata.
C'è bisogno, però, di una Dc nuova, moderna. La necessità di ripensarla in forma moderna non deriva solo e soprattutto dal fatto che, dopo quarant'anni, la Dc appare visibilmente provata dal tempo e dalle lotte, nelle strutture e negli uomini. Certo, anche queste ragioni interne le impongono un profondo rinnovamento in un momento che richiede forte tensione morale e ideale, oltre che coraggio e lucidità nelle scelte. Non basterebbe, perciò, un mero rinnovamento di facciata, né un normale avvicendamento di uomini. Ma, più delle ragioni interne, premono quelle esterne.
La ragione esterna più stringente, che esige la nascita di una Dc moderna, è senza dubbio la fine del regime di cristianità nel nostro paese. La revisione dei Patti Lateranensi, con la quale lo Stato e la chiesa hanno preso atto ufficialmente che in Italia «si considera non più in vigore il principio della religione cattolica come la sola religione dello stato», in pratica ha posto termine anche sul piano giuridico a quella cristianità sociologica che nei fatti era già finita da tempo, in conseguenza del processo di secolarizzazione e del pluralismo culturale. Paradossalmente, però, la fine della cristianità sociologica ha favorito in Italia l'affermarsi di un cristianesimo qualitativamente più esigente, sebbene quantitativamente minoritario; soprattutto ha fatto crescere una coscienza più matura del rapporto tra fede e storia, tra chiesa e mondo, tra cultura e fede, tra fede e politica. Così, le acquisizioni teologiche del Concilio sono andate di pari passo con la crescita democratica della società italiana. Ne è derivata una seconda ragione esterna, non meno incalzante della prima, che impone di ripensare in forma moderna l'intuizione sturziana: è profondamente quel mondo cattolico, che da sempre ha costituito lo «zoccolo duro» e il retroterra naturale della Dc. Esso, infatti, non solo ha acquisito una coscienza nuova del rapporto fede-politica, ma ha trasformato pure la sua geografia esterna.
Oggi il mondo cattolico non è più il blocco compatto di ieri, omogeno culturalmente e politicamente. I movimenti e le associazioni in cui si articola non sono più tanti rami di un unico albero, ma alberi diversi, con finalità proprie, che operano con metodi differenti, che intrattengono rapporti non uguali tra di loro, con la gerarchia e con la società civile. Ciò ha privato la Dc – quasi di colpo – del supporto culturale e organizzativo, di cui aveva goduto negli anni del «collateralismo», aggravando così la crisi interna del partito. Perciò, se da un lato si deve ammettere che una presenza politica di ispirazione cristiana è lungi dall'aver esaurito il suo compito in Italia, d'altro lato però il «ricominciare» da questa presenza in forma moderna è questione di vita o di morte, sia per la sopravvivenza della Dc, sia per il progresso della democrazia nel nostro paese. Non si sfugge al dilemma: o una «Dc nuova», nel senso di un partito modernamente rinnovato; o una «nuova Dc», nel senso di una eventuale seconda aggregazione politica d'ispirazione cristiana. Ma, poiché quest'ultima ipotesi appare fuori d'ogni reale possibilità, non resta che il grave dovere morale da portare avanti con coraggio e coscienza, sino in fondo, il rinnovamento già iniziato, che ancora è in gran parte da compiere.
Si tratta, in sostanza, di dare una risposta moderna a tre interrogativi, relativi a tre aspetti essenziali che – secondo l'intuizione sturziana – qualificano una presenza politica riferita all'ideale evangelico: ispirazione cristiana, popolarismo, riformismo democratico. In altri termini, occorre chiedersi: saparà la Dc mediare in termini moderni e adulti, la sua ispirazione cristiana, restandovi fedele in via di principio e in via di fatto, così da evitare il rischio di trasformarsi in un «partito di opinione» (un partito repubblicano di massa, come qualcuno l'accusa) o di cedere a pressioni neointegriste, che purtroppo non mancano nel mondo cattolico italiano? In secondo luogo, saprà la Dc essere un partito popolare in senso moderno, collegandosi in modo aperto con i problemi e con le attese della gente più umile, così da evitare il rischio di trasformarsi nel partito dei ceti medi o di altri interessi particolari, fossero pure interessi cattolici? Infine, saprà la Dc essere un partito moderno, coraggiosamente riformatore, in grado di guidare il cambiamento verso una democrazia matura e compiuta, capace cioè di elaborare un progetto di società post-industriale, così da evitare il rischio di trasformarsi in un polo moderato e conservatore, come vorrebbero i fautori del cosiddetto «polo laico» alternativo? Concludendo, sarebbe miopia non accorgersi che qualcosa finalmente si sta muovendo. Ma sarebbe ingenuità imperdonabile crearsi facili illusioni. Il cammino è solo iniziato, resta in gran parte da fare. Né mancano resistenze e silenzi, che fanno riflettere.
Affinché nasca una «Dc nuova», come chiedono le trasformazioni del paese e i tempi nuovi, occorrono soprattutto creatività e lo sforzo lèale di tutti. Certo, il cammino è difficile, impervio, pieno di incognite; ma, se lo si vorrà veramente e con l'aiuto di Dio, quello che oggi ancora può apparire un traguardo lontano, può divenire realtà.






















