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Partiti, istituzioni e potere

Partiti da buttare o da riformare

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Nuova Politica - Partiti da buttare o da riformare

Affermare che i partiti non godono di un forte sex-appeal è un po' come scoprire la classica acqua calda. Con più o meno consapevolezza e convinzione, anche le segreterie dei partiti ne hanno, alla fine, preso atto. Ed hanno messo in moto tutti i meccanismi possibili per restaurare le proprie creature senza rischiare di buttare via assieme – per utilizzare un'altra espressione comune – il bambino e l'acqua sporca. D'altra parte, le strutture organizzative seguono l'andamento dei tempi ed è pacifico che ne sentano, a lungo andare, il logoramento. Altrove in questo catalogo si narra l'evoluzione che i partiti hanno avuto rispetto al proprio Paese d'origine o alla propria ideologia di riferimento, ed è stato solo un atto di superbia e d'ignoranza quello del Movimento Verde quando si scagliò, lancia in resta e vessilli al vento, contro i partiti in quanto tali convinto di poter rimanere "movimento" in eterno senza bisogno di strutture organizzative. Salvo poi dover sperimentare, come era scontato, dissidi interni sulla gestione dei finanziamenti, sulla linea politica, sulle candidature, per non parlare delle scissioni e delle ricomposizioni...

Ma quali sono i punti nodali sui quali si può articolare la riforma dei partiti. Proviamo ad individuarne alcuni.

Innanzitutto il bacino di reclutamento. È passata la contrapposizione tra cellule di fabbrica e sezioni territoriali; oggi, quasi tutti i partiti fanno riferimento sia a sezioni su base territoriale che a sezioni, noi le chiamiamo così, "d'ambiente": l'Università, l'Azienda X o Y, la Banca Z, la Sip ecc. È normale e giusto che i militanti vengano reclutati laddove spendono con maggiore intensità le proprie relazioni interpersonali. Anzi, a dire il vero, nelle grandi città, le sezioni territoriali perdono di significato poiché l'individuo si muove nel territorio urbano durante la propria giornata: ha amici in un quartiere, i parenti nell'altro, l'ufficio in un altro ancora e magari frequenta un'associazione localizzata altrove.

Va rilevata, invece, l'esperienza del vecchio Pci e del nuovo Pds, estremizzata dalla ex Fgci, oggi Sinistra Giovanile, di aggregare, sotto un cappello poco invadente ambienti ed interessi autonomi organizzati in Leghe o Associazioni. li Partito diventa una sorta di Federazione di Movimenti, ma sperimenta la difficoltà di condurre a sintesi le proprie articolazioni: che dire della accanita disputa referendaria fra Arei Caccia ed Arei Ambiente che ha generato addirittura alcune liste autonome alle elezioni politiche come la CPA?

Altra questione spinosa: il ruolo degli iscritti e dei simpatizzanti. Sembra logico dedurre che chi vuole partecipare alla vita di un partito, deve iscriversi e contribuire al dibattito interno e che un buon numero di iscritti testimonia la vitalità del partito. DC e PSI, seguendo questo ragionamento, godono di ottima salute poichè aumentano i propri aderenti. Ma come mai la DC aumenta i propri iscritti laddove perde voti ? Come mai in alcune zone del Paese la DC ha più iscritti che elettori? Per non parlare degli iscritti fantasma che nessuno conosce e nessuno ha mai visto partecipare, delle vocazioni "mature" alla politica di nuovi iscritti 85enni ecc. Entra qui, con prepotenza, la questione della tessera come strumento necessario per altri traguardi nella vita professionale e privata, del consenso interno al partito come mezzo per conquistare le redini per poter sfruttare a titolo personale, di clan o di corrente alcuni spazi di vantaggio. Tutti sanno che esistono realtà dove la celebrazione legale dei Congressi è addirittura probita da fattori economici: spedire infatti decine di migliaia di regolari lettere di convocazione di assemblea costerebbe troppo caro. Meglio provvedere con un sano tavolino...

Non è casuale, dunque, che nella DC qualcuno, in vista della Conferenza Organizzativa, abbia lanciato la proposta di sospensione del tesseramento quale mezzo di "conta" dei propri sostenitori o in alternativa il drastico innalzamento della quota di iscrizione (vedi Partito Radicale, Rifondazione Comunista ecc.) per selezionare adesioni sincere ed impedire la competizione economica tra le correnti, atrimenti miliardaria, così come si comprende meglio il percorso seguito dall'Mg da Lanciano ad oggi per la conquista di un'autonomia nel partito, intesa come strumento di dialogo flessibile con l'esterno e di tutela interna dai tesseramenti gonfiati dagli adulti.

Non è casuale che, nel corso del dibattito propedeutico alla Conferenza Organizzativa, anziani, donne, ambienti professionali abbiano chiesto spazi interni al partito, scevri dagli anonimi meccanismi matematici del tesseramento; che si chieda una valorizzazione degli eletti nelle istituzioni e la riconduzione della responsabilità di ogni nomina e designazione ali' organo politico di riferimento (gruppi consiliari per gli enti di secondo grado dei Comuni, gruppo parlamentare per i sottosegretari ecc.).

Resta il problema degli "esterni", della scelta dei candidati per le competizioni elettorali che tante volte ha fatto evocare lo strumento delle "primarie aperte". Ma come definire anche l'ambito di partecipazione degli esterni? E quali esterni? Qualcuno ricorda anche che leprimarie aperte in alcuni Stati degli Usa hanno prodotto risultati apparentemente paradossali: il partito che era sicuro del proprio candidato alla nomination ha invitato i propri elettori a recarsi a votare per la scelta del candidato del partito avversario... ovviamente sponsorizzando il candidato peggiore, quello che potesse avere meno chances di battere il proprio beniamino.

Sono queste le domande, o almeno alcune delle domande, che i partiti – e la Democrazia Cristiana fra questi – si pongono e si devono porre alla vigilia del nuovo millennio per capire se si è dotati dell'attrezzatura necessaria per saper interpretare le domande di una società mutata e per saperle trasformare in cultura di governo.

Ma non è stata una legislatura inutile

Antonio Maccanico – come tutto il PRI – non fa parte del Governo Andreotti VII scaturito dal rimpasto di Pasqua. Ma pur privato della delega che attendeva sulle riforme istituzionali, non perde occasione per difendere i risultati raggiunti dal 1987 ad oggi in materia di nuove regole del gioco.

In effetti, per quanto il Parlamento non abbia tuttora trovato un'intesa sulla nuova legge elettorale e meno che mai su un nuovo assetto dei poteri della Repubblica nonostante le pressioni del Capo dello Stato, la X Legislatura si chiude con un bilancio ben più positivo delle precedenti.

 

E questo breve bilancio viene stilato non tenendo conto della lunga stagione referendaria partita nella primavera 1990 con la raccolta delle 650.000 firme per i tre quesiti sulla legge elettorale, poi ridotti ad uno solo dalla decisione della Corte Costituzionale, recepito in modo inequivocabile dall'opinione pubblica italiana nella consultazione del 9 giugno scorso.

Dal 1987, il Parlamento ha varato, nel giugno 1990, la legge di riforma delle autonomie locali (trattata più diffusamente in altra parte di questo catalogo) che, pur priva della riforma elettorale, ha ridato fiato evita alla cultura delle autonomie. Pochi mesi dopo, in agosto, pur nel silenzio dei mass-media, ha approvato la legge sul procedimento amministrativo più nota come Legge 241 andando nella direzione della trasparenza e della responsablità della Pubblica Amministrazione.

Inoltre il Parlamento ha avviato la riforma delle Regioni e il processo che dovrà portare gli enti locali all'autonomia impositiva. Il Senato della Repubblica ha poi già concluso l'esame della legge sulla riforma del bicameralismo, al fine di introdurre una doverosa differenziazione di un meccanismo gemello che, da garanzia contro i colpi di mano delle Assemblee, è diventato causa di duplicazione inutile di tempi già lunghi.

Ma anche in materia di regole "interne" al Palazzo, qualcosa si è mosso: all'inizio di questa legislatura (ottobre 1988) sono stati modificati i regolamenti parlamentari con la riduzione drastica del ricorso al voto segreto (anche se qualcuno fa notare come questo abbia provocato un maggior assenteismo dei deputati); è stata portata a termine nel luglio dello stesso anno, dopo vent'anni, la riforma della Presidenza del Consiglio che ora attende solo la sua completa attuazione, ma che ha già messo in moto il meccanismo della Conferenza Stato-Regioni.

Non si tratta certo delle "grandi riforme" di cui si vagheggia da un decennio, ma certo i risultati della X Legislatura ci dicono che il tema istituzionale non è più argomento da elites profetiche, e che anche la fase di mera discussione che caratterizzò il tempo della Commissione Bozzi è oramai alle spalle. Molti lo chiedono a gran voce, qualcuno manifesta anche timori e perplessità: sarà la prossima legislatura la stagione decisiva per un "secondo tempo" della Repubblica?

Quel male chiamato partitocrazia
I partiti negli Stati Uniti

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