Per non ripetere un copione già visto
Forse è un virus non ancora identificato. Di certo si tratta di un fenomeno contagioso che si diffonde, inevitabilmente, prima di ogni congresso nazionale della Democrazia Cristiana.
L'ansia, di troppe persone, di volere essere ad ogni costo protagoniste, di volersi sentire indispensabili o determinanti, per mantenere o fare saltare gli equilibri interni, per creare o disfare alleanze inventate o da inventare, fa partire ogni volta questa sorta di «grandi manovre», un po' felliniane, in cui i confini tra realtà e invenzione tra azioni e aspirazioni diventano sempre più sfumati.
E così, il Congresso, partito per essere l'occasione per dare maggiore forza e minori condizionamenti all'opera di rinnovamento del partito avviata da un Segretario Nazionale, rischia di ripetersi con un copione già visto, in cui il «nuovo» non riesce a prevalere sul «vecchio», perché è proprio il vecchio che, per restare a galla, si traveste da sostenitore del nuovo.
Allora chi ha creduto dall'inizio e crede tutt'ora che l'azione di De Mita debba uscire rafforzata dal Congresso, che debba andare avanti, all'interno del partito, il ritorno dell'aggregazione attorno a linee politiche diverse e non più soltanto attorno a vecchi personalismi o vincoli di amicizia e riconoscenza, non deve cadere nella tentazione di limitarsi a denunciare chi, in modo più o meno scoperto, sta cercando di condizionare o rallentare la spinta di rinnovamento del Segretario. Sarebbe troppo facile e poco produttivo. Si tratta invece di rispondere al vecchio non combattendo sul suo terreno e con 1 suoi soliti meccanismi ma mettendosi invece completamente dalla parte del nuovo, riuscendo, in concreto, a concludere il Congresso con alcuni passi in avanti. In primo luogo cercando di dare al Segretario la forza necessaria per respingere ogni tentativo di freno sul piano dell'azione di rinnovamento interno e del rilancio della proposta politica a lungo respiro della DC.
In secondo luogo favorendo il più possibile la crescita di una nuova classe dirigente del partito.
Non si tratta di avviare semplicemente un inevitabile processo di ricambio generazionale con il rischio che, come tante volte è successo in passato, la carica di novità e voglia di cambiare dei giovani, si annebbi fino quasi ad essere risucchiata nella serie di filtri attraverso cui chi cresce nel partito è costretto a passare.
Si tratta, invece, di eliminare un vizio di fondo: per chi vuole oggi guadagnarsi uno spazio od un ruolo in cui fare politica, diviene indispensabile prima ricercare e poi faticosamente mantenere, la propria quota di consenso, sia essa interna al partito o all'esterno nell'elettorato. Questo impegno diventa troppe volte, e ad ogni livello, assurdamente assorbente e a volte quasi totalizzante rispetto alla quota di tempo dedicata alla politica, facendo spesso anche arrivare a perdere la dimensione dell'importanza delle cose.
Sarebbe interessante, ma forse troppo avvilente, rilevare statisticamente quanto tempo è dedicato in una giornata tipo di un nostro dirigente di partito, sia parlamentare o consigliere di circoscrizione o segretario di sezione, alla risoluzione o alla riflessione sui problemi e quanto alla cura del proprio consenso, o del proprio gruppo, esterno o interno al partito. È un meccanismo in cui finisce per cadere anche chi, in buona fede, vuole mantenere un ruolo non per interesse o per fascino del potere ma, più semplicemente per restare in una posizione in cui è possibile concretamente fare politica.
La crescita di una classe dirigente autenticamente nuova, dovrebbe allora partire dalla scelta del Congresso e di chi guida il partito, di consentire la crescita di un nucleo di persone, in particolare giovani, al di fuori di questi canali ordinari, mantenendole svincolate dai problemi di conservazione del consenso e quindi più libere di pensare e con meno condizionamenti nel cercare la soluzione ai problemi.











































