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Le nuove alchimie trasformistiche

Nuova Politica - Le nuove alchimie trasformistiche pagina 10
Nuova Politica - Le nuove alchimie trasformistiche
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I nuovi soggetti sociali, il rapporto con la democrazia. I rischi della sudditanza ai «poteri reali» della società.

L'approssimarsi del congresso nazionale democraticocristiano ripropone v cchi e nuovi quesiti da sempre al centro del dibattito politico nazionale. Molti sarebbero i temi oggetto di attenzione, ma, per esigenze di spazio, ci limitiamo ad alcuni: il trasformismo, per esempio.

Analizzare e studiare il trasformismo e i suoi risvolti politici e culturali nel panorama politico italiano, da Depetris in poi, significa porre attenzione ad un aspetto, oserei dire, strutturale della nostra vita democratica.

Oggi, noi tutti, abbiamo una sensazione: la sensazione di galleggiare sulla realtà avvertita da tutti quelli che sono impegnati nella vita politica, trova riscontro sia nel fatto che partiti, gruppi politici e correnti ideali si trovano spesso a convergere o a divergere non sulla base di orientamenti politici generali, ma sulla base della difesa passiva di interessi corporativi o dietro la spinta di gruppi di pressione, che attraversano orizzontalmente tutte le formazioni politiche; sia nel fatto che è venuto meno un rapporto di rappresentanza esclusiva dei singoli partiti nei confronti di determinate classi e ceti, i quali, di conseguenza, rifuggono sempre più dal ricercare nei programmi e nei comportamenti dei partiti stessi gli elementi decisivi e persuasivi della loro aggregazione politica e sociale.

L'eclissi della ragione politica

Queste emergenti condizioni, se da un lato denunciano una grande mobilità nell'evoluzione delle classi e dei ceti e nella dislocazione del potere reale, dall'altro mettono in luce l'inerzia e l'andamento rituale delle culture che ispirano i comportamenti e le scelte delle stesse forze politiche. Siamo di fronte ad un'eclissi progressiva della «ragione politica», alla sua crescente impotenza nel governare l'evoluzione della società. -Non deve perciò meravigliare se in questi ultimi anni abbìamo assistito ad una preoccupante metamorfosi nella lotta politica del nostro paese: se la contesa tra le forze si è progressivamente trasferita su terreni diversi da quelli democratici e se appaiono ormai stravolte persino le regole classiche delle responsabilità istituzionali. In questo contesto le stesse distinzioni, fondate su metri tradizionali, tra destra, sinistra e centro sono venute perdendo ogni potere persuasivo. Ne è prova il fatto che, di fronte alle scelte concrete – dove cioè contano i fatti più delle parole –, sembrano destinati a saltare gli schieramenti consueti e a dissolversi etichette codificate. Di qui la spinta al trasformismo e la tendenza a conciliare verbalmente realtà che sono di fatto inconciliabili. In questo clima va prendendo piede una pericolosa spinta qualunquistica, che enfatizza le categorie di per sé valide dell'onestà e del tecnicismo e tende a stravolgere e ad annullare ogni distinzione e valutazione politiche, preparando così la strada a nuove forme di avventurismo autoritario. Sotto certi aspetti scrivere una storia del trasformismo, significa ripercorrere tutta la storia politica nazionale ed offrire elementi decisivi di analisi a fenomeni come il giolittismo o il fascismo, come il centro-sinistra o il compromesso storico che sarebbero, altrimenti, di difficile comprensione. Infatti il trasformismo si è identificato con un certo modo d'essere della lotta politica italiana, ne rappresenta una caratteristica per così dire strutturale al punto che molti lo ritengono parte integrante non solo del costume politico, ma anche del carattere degli italiani, di tutti gli italiani. D'altro canto basterebbe osservare con un certo distacco critico le cronache politiche «romane» attuali e confrontarle con quelle di Depretis per riscontrare sorprendenti assonanze di comportamenti e di stile come se i personaggi di oggi e di allora debbano obbedire agli stessi meccanismi o recitare il medesimo copione. Tutto ciò viene a dirci che siamo in presenza d'un fenomeno che va affrontato e studiato con la massima serietà; che va cioè «storicizzato» per impedire che, almeno sul piano culturale, possa tradursi in una sorta di fatalità senza rimedio. Con l'approssimarsi dello stesso dibattito congressuale, la verifica critica di questo fenomeno può servire per capire il sistema politico del nostro paese e alcuni atteggiamenti e comportamenti del nostro stesso partito.

Accanto a motivazioni strutturali che hanno causato storicamente la nascita del trasformismo, dall'età dei Governi Depretis, la tecnica trasformistica rappresenta in un certo senso una strada obbligata per conciliare lo sviluppo disuguale del paese e l'accentramento amministrativo con l'allargamento progressivo della base sociale dello stato: rappresenta cioè una componente per così dire costitutiva della stessa politica riformistica. Lo prova non solo il fatto che ogni fase di apertura riformistica (da Depretis a Giolitti a Moro) è accompagnata dall'esaltazione delle tendenze trasformistiche, ma anche il fatto che le alternative reali che via via si affacciano nei confronti delle operazioni trasformistiche si collocano sempre alla destra dello schieramento politico: e si qualificano soprattutto per la volontà di liquidare ogni spinta riformistica e democratica e per l'ambizione egemonica delle élites borghesi che si sentono più compatte ed omogenee, nonché saldamente inserite nelle strutture accentrate dell'amministrazione statale. Non a caso fino all'avvento del fascismo, al termine di ogni fase trasformistica assistiamo alla nascita di governi autoritari: dopo Depretis, Crispi; dopo Giolitti prima Salandra e poi Mussolini. Tutto ciò va tenuto ben presente non solo per sottolineare il carattere elitario e spesso reazionario di certo ricorrente moralismo contro il trasformismo, ma anche per ribadire come quest'ultimo, «da effetto», sia destinato a diventare causa di ulteriore squilibrio nello sviluppo economico e sociale e di ulteriore accentramento autoritario nella amministrazione statale. Infatti la prassi trasformistica, spesso al di là degli intenti di chi la esercita, è portata a potenziare l'intreccio malsano tra interessi particolaristici (vero ostacolo ad ogni politica di risquilibrio economico e sociale) e burocrazia statale (che diventa sempre più partigiana e asserita a poteri privati palesi o occulti): essa, cioè, mentre da un lato rappresenta per così dire il prezzo necessario per avviare ogni politica riformistica, dall'altro, è destinata, a lungo andare, a corrompere ed a soffocare ogni spinta democratica e innovatrice. In breve, il trasformismo è portato ad esaltare le cause che l'hanno prodotto e, quindi, a sfociare, prima o poi, in forme più o meno mascherate di regressione autoritaria.

Le carenze di autonomia

Come si vede, è sufficiente approfondire la genesi e la natura del trasformismo per scoprire il carattere ambiguo del sistema politico italiano. Ma ancora non riusciamo a giungere al cuore del fenomeno se – come direbbero gli scolastici – non risalissimo alla causa prima che riassume e comprende tutte le altre e che sta alla base di ogni atteggiamento trasformistico: ed è la carenza di autonomia che riscontriamo in ogni fase storica e ad ogni livello della società italiana. Carenza di autonomia nei rapporti tra potere centrale e poteri locali: tra società civile e società politica; tra forze sociali e forze politiche; tra realtà produttiva e poteri pubblici; tra politica e cultura e così via.

È questa endemica, diffusa, generalizzata carenza di autonomia che ha reso difficile, nelle varie situazioni storiche, il formarsi di coscienze indipendenti ed integre e che ha svilito negli accomodamenti pratici la vocazione storica e la personalità delle realtà via via emergenti: in breve, che ha consentito al trasformismo di farsi costume e stile di vita e di provocare una sorta di mutazione genetica nel carattere degli italiani, al punto che sempre più rari appaiono gli uomini – e non solo nella vita politica – ed i gruppi capaci di restare fedeli a sé stessi e di resistere alla tentazione di correre «in soccorso dei vincitori».

Con l'avvento, nel primo dopoguerra, dei grandi partiti popolari e con l'adozione del metodo elettorale proporzionale viene assestato un colpo decisivo alla prassi trasformistica. Il fallimento dell'ultimo governo Giolitti e l'avvento del fascismo stanno, infatti, a dimostrare come la mutata situazione ponesse limiti invalicabili ai tentativi parlamentari di scomposizione e ricomposizione dei partiti e delle maggioranze ministeriali, costringendo il sistema di governo tradizionale a dismettere il volto liberale ed a mostrare apertamente quello autoritario.

La nascita della Repubblica

Resta invece da chiarire per quali ragioni al crollo del fascismo e nonostante l'avvento della nuova Costituzione repubblicana, le inerzie del trasformismo riescono ancora una volta a prevalere. Il fatto è che, nonostante la generosa rottura resistenziale, la continuità col passato non viene spezzata né sul piano dello sviluppo dualistico della società italiana né su quello delle strutture amministrative dello Stato: cioè perdurano nella nuova situazione le cause antiche e profonde che sono all'origine del fenomeno'trasformistico. Nelle forze e nella cultura politica del tempo è mancata soprattutto la percezione della riforma amministrativa dello Stato. I grandi partiti popolari impegati in uno sforzo di amalgama e di integrazione nella vita politica e sindacale di milioni e milioni di cittadini costretti da sempre all'astensione e alla emarginazione politica e sociale, hanno finito col prestare scarsa o nulla attenzione a questo tema cruciale, al punto che l'esercizio dell'autogoverno locale – unica vera palestra di educazione politica – appare ancora regolato dalla legge fascista del 1934!. Altre due circostanze hanno agito a favorire la ripresa del fenomeno trasformistico. La prima riguarda la graduale ma sempre più estesa e massiccia identificazione tra partiti e stato causata dalla permanenza delle stesse forze politiche alla guida dei governi repubblicani. La seconda riguarda la irriducibile sopravvivenza del dogma leninista – oggi attenuatosi – nel principale partito di opposizione: dogma che, da un lato, ha reso di fatto impraticabile il gioco fisiologico dell'alternanza e che dall'altro ha favorito la diffusione del bacillo trasformistico, la famosa «doppiezza» che rende così italiana la storia del Pci dalla svolta di Salerno in poi. L'insieme di queste cause ha consentito alle tendenze trasformistiche di porre radici tenaci anche nel nuovo terreno: esse – non potendo manifestarsi a livello parlamentare dove il sistema proporzionale tende ad esaltare l'identità e la compattezza formale delle forze politiche - sono dilagate all'interno dei partiti. È qui infatti che si è trasferito il potere politico reale e che opera I selezione delle classi dirigenti. E qui che trovano sfogo e compensazione le istanze corporative e particolaristiche e che, di conseguenza, si formano e si scompongono le maggioranze che contano.

Gli strumenti delle nuove alchimie trasformistiche sono così diventate le correnti di partito ed i numerosi gruppi di amici che si formano intorno ai vari notabili e che ricordano molto da vicino le consorterie che, ai tempi di Depretis e di Giolitti, avevano in ostaggio le eterogenee maggioranze parlamentari.

La seconda rivoluzione industriale

Ma con la seconda rivoluzione industriale, che in pochi decenni ha portato l'Italia ad occupare i primi posti nella gerarchia mondiale delle grandi democrazie industriali, la società italiana ha conosciuto – per redistribuzione della ricchezza prodotta, per diffusione del benessere e della cultura e per mobilità delle classi e dei ceti – una rivoluzione sociale che non ha precedenti in tutta la sua storia secolare. Vasti ceti popolari che il blocco protezionistico teneva inchiodati ad una miserabile economia di sussistenza e prigionieri d'una borghesia rapace che sapeva vedere solo nell'autarchia e nelle guerre gli strumenti dell'espansione industriale del paese, si sono liberati da antiche sudditanze morali e materiali ed hanno posto mano ad un'opera grandiosa e capillare di crescita economica e civile spesso ignorata dalla cultura dominante rimasta ancorata a vecchi schemi idealistici ed elitari. Vincente è risultata la sfida del popolarismo di Sturzo, cioè dell'unico grande leader che nella storia unitaria abbia saputo resistere alle lusinghe del trasformismo ed abbia creduto alle autonome capacità di liberazione civile e di emancipazione sociale di un popolo ritenuto, alla destra come alla sinistra dello schieramento, perennemente bisognoso di tutela e di guida dall'alto.

Certo, lo Stato ha continuato nella sua opera disorganica di intervento, sollecitato non solo da ragioni di sostegno alla grande industria di base ma anche dalla sacrosanta necessità di attutire ed assorbire le conseguenze sociali provocate dal vasto processo di industrializzazione in atto. Così pure, vaste e numerose appaiono ancora le isole sociali e geografiche oppresse da arretratezza economica e sociale. Sta di fatto tuttavia, che, in seguito alle vaste trasformazioni sociali ed economiche, la società italiana è venuta conoscendo un grado di omogeneità nel suo sviluppo complessivo e di autonomia nei confronti del potere politico che non trova paragoni nella nostra storia unitaria.

Verso una politica riformatrice?

In concreto però, col superamento graduale ma irreversibile della situazione dualistica della società italiana e della sua dipendenza nei confronti del potere politico, sono venute meno anche le cause che avevano alimentato nel passato e reso vincente la prassi trasformistica. Ma ciò significa anche che, forse per la prima volta nella storia unitaria, esistono le condizioni oggettive per intraprendere una autentica politica riformatrice senza sfociare in cedimenti opportustinistici e per estirpare finalmente la malapianta del trasformismo senza dover correre nuovi rischi autoritari.

L'Asse Nord-Sud
Maurizio De Vincenzi
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Simone Secondini

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