Il cuore nella storia
Se l'importanza di uno storico si misurasse dalla lunghezza dei coccodrilli dei giornali, Paolo Spriano sarebbe tanto importante quanto Fernand Baudel, o quasi. Sicuramente più di altri autorevoli suoi colleghi scomparsi di recente, come Giorgio Candeloro o Rosario Romeo.
L'importanza di uno storico si misura da ben altre cose. I coccodrilli dei giornali però danno un'idea di quanto un uomo abbia inciso sui contemporanei. Paolo Spriano allora è un uomo che ha lasciato la sua impronta. Più di Rosario Romeo, più di Giorgio Candeloro, entrambi storici di grande valore, ma troppo accademico e distaccato dal mondo il primo e troppo di parte, anche.se per uno storico queste parole suonano ad insulto, e troppo attaccato al mondo il secondo.
Anche Paolo Spriano era uno storico di parte. Ma nel significato più nobile che questa espressione può contenere: quello di storico con le sue idee ben precise, discutibili quanto si vuole (ed infatti le poneva continuamente in discussione), ma ben chiare e precise. Era uno storico di sinistra, ma non si è mai mischiato a quella parte becerona e «passionaria» della cultura che è emersa soprattutto dopo il 1968. Poco prima della sua morte, un transfuga del gruppo del «manifesto» finito a scrivere sul «Il Giornale», lo aveva definito più o meno storico di corte del partito comunista italiano. Lui si era risentito, e ne aveva ben ragione, perché normalmente gli storici di corte, anche i migliori, non mancano mai di strusciarsi un attimino alle gambe del principe. Mentre Spriano il suo principe collettivo, il partito, lo ammirava sul serio, e pertanto non aveva paura di metterne in mostra le magagne. Chi, dopo l'uscita della sua imponente «Storia del partito comunista», ha scritto una propria versione, magari critica, del lungo cammino di un partito nato per fare la rivoluzione e che la rivoluzione non l'ha mai fatta, dalle pagine di Spriano ha tratto molto più materiale critico nei confronti del Pci che non apologia. Spriano è stato il primo, dopo gli scritti di Giuseppe Fiori basati sulle ammissioni dei familiari, a rivelare che Antonio Gramsci era stato praticamente espulso dal partito negli anni della prigione. Spriano ha messo in evidenza, anche se con una certa dose di comprensibile pudore, il ruolo svolto da Togliatti quando era segretario del Comintern, negli anni delle epurazioni staliniane quando si macchiò del crimine di corresponsabilità nell'eliminazione dei dirigenti comunisti polacchi.
Il Togliatti che esce dalle pagine di Spriano non è un mostro che puliva la scure macchiata di sangue di Stalin, è un personaggio colto nei suoi aspetti di strategia ed opportunista, un po' gretto e un po' genio dell'arte del primum vivere.
Si dirà, ed è vero, che è sempre mancata una aperta condanna del segretario comunista. Ma sarebbe stato difficile immaginarsi il contrario: è come chiedere ad un repubblicano convinto di ammettere che tra le cause dell'avvento del Fascismo c'è il provincialismo della classe politica liberale e che la storia del Risorgimento è stata anche storia di sopraffazioni e decisioni prese contro il parere dei più e dei più illuminati.
Cosa resterà tra qualche anno di Paolo Spriano? E difficile dirlo. Non vogliamo utilizzare gli stereotipi dei giornali e dei suoi colleghi. Paolo Spriano era un ottimo storico, ed una persona eccellente. Preferiamo ricordarlo pertanto come un professore universitario che trattava con rispetto i suoi studenti, e (cosa rara tra gli accademici) cercava di aiutarli a raggiungere la laurea. Un professore universitario che prendeva le sue elezioni quasi come confessioni di fronte ad una platea che forse non era in grado di capirlo, ma era certamente preferibile a quelle ufficiali.
Come quella volta che, proprio a lezione, terminò una spiegazione con l'ammissione: «vedete, io sono figlio della cultura illuminista», poi ci pensò un po' su, e fece: «e, perché no, un po' anche del marxismo». Beati i poveri di spirito perché di essi è il regno dei cieli.
















