Il rischio di un congresso dimezzato
Ad ogni congresso di partito, sia esso nazionale, regionale o provinciale, sentiamo dire che si tratta di un congresso «fondamentale» o di «transizione». E spesso, più che sulle linee politiche ci si divide su questi due aspetti del problema, senza star troppo a pensare che non esistono congressi che non siano a fondamento delle azioni future, spesso con larga incidenza sul comportamento generale del partito (si pensi alle scelte del centrismo, del centro-sinistra, della solidarietà nazionale e del preambolo), né si può immaginare che il «cambio» avvenga esattamente dal giorno dopo la conclusione delle assise congressuali senza un periodo di riflessione, decantamento, e dunque di transizione.
Sarà così per il diciottesimo congresso nazionale del partito e, naturalmente, per quelli futuri.
Ma entriamo dunque appieno nelle problematiche «vere» di questo congresso.
Chiariamo subito che al movimento giovanile dc e a noi personalmente non interessano questioni nominalistiche sulla persona del segretario politico nazionale o sul numero di incarichi, a meno che con i nominalismi non siano in gioco altre cose, e cioè una linea politica per il futuro del Paese, e quindi le modalità con cui il nostro partito vuole attrezzarsi a guidare i processi sociali, economici e politici in corso e futuri.
Dunque, quello che ci interessa, è davvero un congresso nazionale sulla linea politica in cui vorremmo giocare un ruolo da protagonisti non nell'indossare casacche prefabbricate o indicando simpatie e antipatie, ma ragionando sull'identità del partito in cui militiamo e sulla «forma-partito» in generale.
E dunque, se davvero i meccanismi di rinnovamento sono stati immessi nel corpo del partito, dobbiamo dire che, spesso, il concetto di «rinnovamento» è stato adattato come una coperta troppo-corta, tirandolo ora di qua ora di là, a coprire un correntismo senza ideali e senza base sociale, un rampantismo generazionale senza comuni motivazioni, una ricerca di fedeltà «canina» senza alcuna lealtà, per cui ognuno di noi e non solo del movimento giovanile, ha potuto scoprire non solo lacune strutturali che dovranno essere colmate, ma anche che, in ogni parte della Democrazia cristiana, esistono uomini, ominicchi e quaquaraquà, per parafrasare una celebre immagine di Sciascia.
Ora, naturalmente, questo non vuol dire immaginare che il partito debba all'unisono muoversi verso un rinnovamento che, nell'indistinto delle posizioni, sarebbe solo «gattopardesco» e non reale.
Anzi è un invito, a 70 anni dal manifesto del Partito Popolare Italiano, ad essere davvero un movimento di «liberi e forti»: nelle proprie convinzioni, nella lealtà del confronto, nella proposizione di risoluzione dei problemi sociali ed economici della società civile.
E dunque il confronto, a nostro avviso, non può che essere sul ripensamento della «forma-partito» che, non va dimenticato, è davvero uno spezzone fondamentale delle riforme istituzionali per il nostro Paese. Un ripensamento che risponda concretamente a coloro che (Baget-Bozzo su "Il Sabato" come ieri Gramsci a proposito del Partito popolare) ritengono che il cammino della Democrazia cristiana si sia concluso, avendo portato tutte le masse cattoliche alla democrazia, e sia giunto il momento di assumere il ruolo di partito conservatore che si contrappone ad un polo presunto progressista.
Sul tipo di risposta il nostro partito ha idee diverse e naturalmente non entriamo nel merito (a questo serve il congresso...) ma ciò che è portato storico di tutti (anche se non tutti oggi lo accettano) è che essere cattolici democratici significa essere un partito della società civile e dunque dello Stato. Non di uno Stato «padre-padrone» come per marxisti e socialisti, ma di uno «Stato-espressione», che risponde cioè alla società civile, alla sua grande varietà di capacità ed interessi, con discernimento, con la diligenza di chi deve garantire tutta la società e non solo frazioni di essa.
Certo oggi non è più tempo solo di «progetto», bensì soprattutto di programma, e dunque di un partito che sia strumento concreto di elaborazione. Torna dunque alla memoria Aldo Moro che ci ricordava come oltre ad una moralità dei fini deve esistere una moralità dei mezzi. È questo il nodo del XVIII Congresso.












































