Fratelli dilettissimi,
Il Simposio dei vescovi d'Europa, che voi chiudete con questa celebrazione giubilare, ci sta molto a cuore. Mediante un serio esame delle questioni che si pongono ai pastori per un migliore servizio della fede, in un'atmosfera di fraterna amicizia e di preghiera, favorita dalla discrezione dell'ambiente scelto, avete potuto stringere legami a un livello più profondo, allargando così la comunione indispensabile nell'episcopato e progredendo nella consapevolezza delle comuni responsabilità al servizio delle popolazioni europee.
Le vostre sollecitudini, speranze, risoluzioni, noi le condividiamo, come sapete, a un titolo particolare: la nostra fede è stata incessantemente plasmata dalla civiltà cristiana di questo continente, dai suoi maestri spirituali, e noi continuiamo a essere solidali con tali sforzi pastorali, pur portando la sollecitudine di tutte le Chiese. Reciprocamente, come appunto voi questa mattina manifestate, il vostro ministero apostolico non attinge la sua piena dimensione, se non intorno all'umile successore di Pietro. Fra tutte le manifestazioni dell'Anno Santo, questa ci è particolarmente cara.
Di là dalle vostre persone, noi pensiamo allevostre comunità cattoliche, a tutte le comunità cattoliche sparse in Europa, all'Europa stessa. In tal modo, senza perdere di vista la pertinenza delle molteplici questioni pastorali che voi avete affrontato in questi giorni e di cui noi abbiamo con interesse preso conoscenza, consentiteci di porci a una certa distanza, o, se preferite, a una certa altezza, rispetto all'Europa.
Allora ne scaturisce una idea e una missione. L'Europa! Vi sono molti modi di considerarla. Si è mai potuto parlare della sua unità? Essa sembra essere stata fino a ieri un campo di continue battaglie. Tuttavia i tentativi di unificazione politica vi hanno conosciuto momenti di gloria, sol che si pensi all'Impero romano, poi agli Imperi Carolingio e Germanico che gli sono succeduti.
A livello più profondo, la civiltà greco-romana li ha tutti segnati, e più ancora, una-medesima cultura cristiana. Sì, qualcosa di comune animava questo grande complesso: era la fede. Non si può forse dire che è la fede, la fede cristiana, la fede cattolica che ha fatto l'Europa, al punto d'esserne come l'anima? La Riforma, è un dato storico, ha contribuito a una dispersione. L'avvento della scienza, della tecnica, poi quello della ricchezza produttiva hanno conferito lustro e potenza all'Europa, non le hanno restituito un'anima. Il periodo delle rivoluzioni ha visto accentuarsi il frazionamento, l'indipendenza. Le nazioni si sono consolidate nella loro diversità, ben spesso in opposizione fra di loro. Le guerre si sono fatte sempre più gravi. Il processo dei raggruppamenti nazionali sul rispettito territorio non è senza dubbio ancora del tutto terminato, ma dovrebbe risolversi per vie pacifiche. Insomma, noi assistiamo sempre a divisioni molto profonde tra le nazioni e all'interno delle nazioni.
A questo punto si può ancora pensare ad una unità, ad una coscienza comune dell'Europa? Ci sia consentito richiamare oggi un episodio significativo. Quando esercitavamo il nostro ministero pastorale a Milano, ci fu fatto l'onore d'essere invitati, insieme con altri personaggi, all'incontro delle autorità italiane con il generale de Gaulle che, come capo dello Stato francese, veniva in Italia per celebrare il centenario dell'indipendenza del Paese. Questa fu inaugurata con la campagna militare che ebbe il suo epilogo cruento e vittorioso nelle battaglie di Solferino e di San Martino nel giugno milleottocentocinquantanove. La commemorazione ebbe luogo a Magenta, dove si svolse il primo memorabile scontro dei due eserciti, austriaco e francopiemontese, con un impressionante numero di morti dall'una e dall'altra parte, e dove oggi sorge un monumentale ossario alla memoria dei combattenti.
Dinanzi a tale ossario, celebrammo la santa Messa. Il generale de Gaulle e il presidente Granchi vi assistevano su tribune, circondati da schieramento di forze militari, dalle autorità e dalla popolazione. Rammentiamo che al termine della cerimonia religiosa, indirizzammo un rispettoso saluto ai due Capi di Stato presenti ed esprimemmo questo voto: come il diciannovesimo secolo fu caratterizzato dalle lotte per l'indipendenza e per la formazione dei vari Stati che compongono oggi l'Europa, così il ventesimo secolo, il nostro, possa essere, almeno in Europa, caratterizzato a sua volta non più da guerre e opposizioni tra i popoli, ma dall'unità. Alle nazioni ormai politicamente distinte e organizzate in Stati liberi e sovrani, resta da scorpire l'espressione comunitaria e continentale della fraternità dei popoli, associati per promuovere una civiltà solidale, animata naturalmente da un medesimo spirito. Rammentiamo allora, che al termine del breve discorso il generale de Gaulle, discendendo, solo, dal suo palco riservato, venne verso di noi tra la sopresa e lo stupore di tutta la solenne assistenza. Giunto dinanzi all'altare, ci tese la mano e, stringendo la nostra, ci disse con gravità queste parole: «Ciò che ha detto, sarà fatto».
Oggi si avverte di nuovo, effettivamente, il bisogno dell'unione, ma inizialmente a livello d'una indispensabile concertazione su problemi tecnici, economici, commerciali, culturali, politici. Sforzi laboriosi e meritori, che noi incoraggiamo, pur consapevoli dei molteplici ostacoli da essi incontrati. A livello più profondo, si pensa di nuovo a una unità spirituale, che dia senso e dinamismo a tutti questi sforzi, che restituisca agli uomini il significato della loro esistenza personale e collettiva. I poteri politici e tecnici sono incapaci di produrre tale risultato, e non potrebbero imporlo che con la schiavitù. Noi pensiamo, da parte nostra, che soltanto la civiltà cristiana da cui l'Europa è nata, può salvare questo continente dal senso di vuoto che soffre, consentendole di dominare umanamente il «progresso» tecnico, di cui essa ha dato il gusto al mondo, di ritrovare la propria identità spirituale e di assumersi le proprie responsabilità morali verso gli altri partners del mondo. Qui appunto sta l'originalità, la possibilità, la vocazione dell'Europa, mediante la fede. E qui la nostra missione di vescovi in Europa assume un rilievo sorprendente. Nessun'altra istanza umana in Europa può prestare il servizio affidato a noi, promotori della fede: risvegliare l'anima cristiana dell'Europa in cui si radica la sua unità.
Comprendiamo bene che le condizioni sono mutate rispetto allo stato di cristianità conosciuto dalla storia. Si ha oggi una maturità civica a livello dei Paesi, a livello del continente. In ogni caso, non siamo certo noi, vescovi, gli artefici dell'unità sul piano temporale, sul piano politico. La fede, di cui siamo i servitori, non è un elemento politico. Essa si riceve liberamente da Dio, attraverso Cristo, nello Spirito Santo. E che fa? Essa conferisce un senso alla vita degli uomini, rivelando il loro destino eterno di figli di Dio: questo non è apprezzabile in una simile èra di smarrimento? Essa nutre il loro cuore con una speranza che non delude. Essa ispira loro una vera parità, generatrice di giustizia e di pace, che li spinge al rispetto dell'altro nella complementarietà, alla condivisione, alla collaborazione, alla sollecitudine verso i più sfavoriti. Essa affina le coscienze. In un mondo spesso rinchiuso nella propria ricchezza o nel proprio potere, divorato dai conflitti, ebbro di violenza o di libertà sessuale, la fede procura una liberazione, un interiore riordinamento delle meravigliose facoltà dell'uomo.
L'unità che essa ricerca non è l'unificazione attuata con la forza, è il concetto in cui le buone volontà armonizzano i loro sforzi nel rispetto delle diverse concezioni politiche. È quella d'una Chiesa tutta intera travagliata da un sano ecumenismo. È quella d'una Pentecoste in cui la diversità delle lingue lascia parlare il medesimo Spirito Santo. Esattamente ciò si potrebbe chiamare l'anima di questa civiltà, e noi sappia mo quanto voi lavoriate ogni giorno a farla sviluppare.
Utopia? No! Certo, il processo di secolarizzazione che investe profondamente l'Europa cristiana sembrerebbe passar sempre più sotto silenzio la funzione vitale della fede. Tuttavia, se i valori evangelici sono troppo spesso come disarticolati, imperniati su obiettivi puramente terrestri, essi restano radicati nell'anima della maggioranza dei popoli europei; essi continuano a segnarli; essi possono essere purificati, ricondotti alla loro Sorgente: è questo compito dell'evangelizzazione. Gli altri continenti, d'altronde, continuano a guardare all'Europa come al centro del cristianesimo. La nostra responsabilità è grande. Non siamo pusillanimi, disfattisti, complessati! Abbiamo l'audacia apostolica dei santi che noi beatificheremo domani! Più che mai, lo Spirito Santo ci intima la missione di predicare nella sua interezza la fede della Chiesa, in ogni occasione opportuna o inopportuna, di risvegliare e di fortificare le coscienze alla sua luce, di far convergere il loro ardore al di sopra di tutte le barriere, come accade qui, in questo Anno Santo, di suscitare la loro testimonianza attiva, evangelica, in tutti i cantieri in cui si costruisce l'unità umana dell'Europa.
Ma ciò non potrà prodursi se non nell'autenticità e nell'unità della fede. E oggi noi dobbiamo vigilare per non lasciarci abbagliare da quanto il «pluralismo» nasconde di ambiguità e di equivoco, nella misura in cui significherebbe un pluralismo soggettivo e indifferente all'interpretazione della dottrina della fede. Sarebbe uno scivolare verso il libero esame che, come sappiamo molto bene, compromette e spesso avnifica l'unità oggettiva e univoca della dottrina della fede. Sì, all'«una fides» verrebbe sostituito quel libero esame che corrompe la Parola della fede, sicura e fonte di unità, e, anziché favorire una vera convergenza ecumenica, ne vanifica i motivi, gli sforzi meritori, la speranza. Pluralismo, per noi, deve significare la fecondità inesauribile delle ricchezze contenute nel «deposito» della medesima fede, cioè nella varietà straordinaria, ma sempre coerente e fedele, delle espressioni utilizzabili dal linguaggio della fede e della spiritualità, in armonia con il messaggio del magistero. Il deposito rimane sempre aperto all'esplorazione delle profondità della verità teologica, che la dottrina autentica non soltanto consente, ma offre allo studio della contemplazione, alla scuola della Chiesa, docente per carisma e per mandato divino.
Questo deve anzitutto costituire la sollecitudine di noi vescovi: lo sviluppo del fermento evangelico nell'unità della fede, in tutti i paesi d'Europa affidati alla nostra cura. A questo obiettivo devono convergere i nostri sforzi. Poiché l'unità di noi cristiani, di noi pastori, esiste già. Il vostro Simposio di vescovi la manifesta per un aspetto. Noi dobbiamo darle espressione, celebrarla, farla fiorire in carità, in quella carità che dalla fede deriva. Attraverso siffatto cammino spirituale l'Europa deve ritrovare il segreto della propria identità, del proprio dinamismo, del servizio provvidenziale cui Dio sempre la chiama, della testimonianza che essa deve offrire di fronte al mondo. Parafrasando la famosa epistola a Diogneto, potremmo dire: Ciò che l'anima è nel corpo, i cristiani lo sono nel mondo, in questo mondo dell'Europa. Oh! certo, come ai tempi di Diogneto, essi devono proporre la loro testimonianza in condizioni di povertà, nell'incomprensione, nella contraddizione, anzi nella persecuzione. Ma se il loro fermento ha l'umiltà del Vangelo, ne ha altresì tutta la forza, come portatore di salvezza per il tutto. Tale è la nostra fede. Servendo tale fede, come vescovi, custodendola e promovendola, e tutto ciò di concerto, voi aiutate l'Europa a ritrovare la sua anima. Tale vostro ministero, noi lo confermiamo con una particolare benedizione apostolica.





















































