Sollicitudo rei socialis. Ma noi non partiamo da zero
Sollicitudo rei socialis, ovvero la sollecitudine sociale della Chiesa: questa l'ultima enciclica papale redatta in occasione del ventesimo anniversario della Populorum progressio di Papa Montini. Molto è stato scritto e molto di più è stato detto a proposito di questa lettera enciclica. E a ragione Giovanni Paolo II con coraggio e chiarezza che non consente dubbi o interpretazioni ambigue sottolinea ancora una volta quale è, e non può non essere, la scelta della Chiesa: essere accanto agli ultimi, ai dimenticati. Nelle parole del pontefice, che proseguono la riflessione sui temi sociali avviata e sviluppata da Paolo VI nel 1967 sulla scia del Concilio, un particolare significato assume la denuncia di uno sviluppo fondato sulle ingiustizie e sullo sfruttamento di una parte sempre maggiore dell'umanità.
Il divario crescente tra Nord e Sud, le nuove insidiose forme di povertà che, travalicando la sfera prettamente economica, riguardano oggi il campo spirituale, religioso, culturale e politico, con la negazione dei più elementari diritti umani, sono gli elementi che attentano alla dignità dell'uomo e compromettono irrimediabilmente la possibilità di una piena realizzazione sociale dell'individuo. Di·fronte a questa realtà si alza fiero e coraggioso l'insegnamento della Chiesa.
Sulle pagine dei giornali, in verità qualcuno, troppi, non hanno resistito alla tentazione della strumentalizzazione a fini politici dell'enciclica papale. Così carità e solidarietà si sono «storicizzate» diventando l'alternativa, una sorta di «terza via», al di là di marxismo e capitalismo.
Noi abbiamo troppo rispetto della Chiesa e del suo magistero per ridurre una riflessione preziosa e profonda come quella dell'enciclica, ad uno schema o ad una formula politica.
E tuttavia, coscienti di ciò, non possiamo non svolgere un ulteriore riflessione: approfondire il messaggio della «Sollicitudo» è certo necessario, soprattutto per chi ha responsabilità politiche. E questa è anche la nostra intenzione. Ma nello stesso tempo, forse ispirati da un minimo di orgoglio, non possiamo non sottolineare che di fronte all'ammonimento della Chiesa non siamo tutti uguali, tutti colpevoli, allo stesso modo.
Noi che abbiamo sempre creduto nel solidarismo, nella cooperazione internazionale, nel personalismo e nell'interclassismo come rifiuto della lotta di classe, noi che abbiamo scelto come profeti Maritain, Sturzo, De Gasperi, Dossetti, Lazzati e Moro, noi che abbiamo fatto nostre le parole di Paolo VI «lo sviluppo è il nuovo nome della pace», noi non partiamo da zero.




































