Lo stato sociale nella bufera
In questi ultimi mesi si è molto parlato dello Stato sociale, sottolineandone le falle finanziarie che lo caratterizzano nel nostro paese. È sul banco degli imputati, a tratti persino nella bufera, eppure «piace»: secondo infatti un sondaggio condotto dalla Doxa e apparso sul «Corriere della Sera» qualche tempo fa (nei giorni in cui più rovente era il dibattito), gli italiani favorevoli a un mantenimento e/o espansione degli attuali livelli di intervento, anche a costo di un aumento della pressione fiscale sono il 46,2% quelli favorevoli a che le cose restino all'attuale livello sono il 19,7%, mentre il 32,9% sono «riduzionisti».
La bibliografia su questo tema è davvero molto ampia: mi limito a ricordare uno dei contributi più recenti, quello di Maurizio Fenera, «Welfare State in Italia. Sviluppo e crisi in prospettiva comparata» (Bologna, 1985). Una sintesi di questo lavoro, con riferimento anche alle ultime polemiche, è contenuta nel n. 4/85 de «II Mulino», e la sentenza sul ruolo di un quarantennio di Stato sociale in Italia è, nei confronti di quest'ultimo, «assolutoria».
Questa opinione è fatta propria, nella sostanza, da Luca Zanderighi: lo Stato sociale deve e non può non rinnovarsi, ma rappresenta una delle maggiori conquiste e sociali e politiche del nostro secolo, uno strumento grazie al quale la democrazia non è più una questione di alcune migliaia di persone, madi decine di milioni di cittadini.
Ma se il breve saggio di Ferrara è un buon contributo sintetico, questo di Zangerighi («la protezione sociale in Italia», in «Aggiornamenti sociali» n. 9-10/85) è soprattutto uno strumento analitico. In poche ma efficaci pagine vengono riassunti i livelli di spesa sociale in Italia, confrontandoli con quelli di alcuni paesi europei omogenei come reddito e struttura sociale (Francia, Germania, Gran Bretagna), e disaggregandoli per settori (sanità, previdenza, assistenza), «eventi» (malattia, invalidità, vecchiaia, maternità, occupazione...) e aree geografiche.
Da queste tabelle emerge una rapida fotografia del quanto-come-perché si spende e si è speso in Italia per la protezione sociale. Ed emergono anche una serie di rilievi interessanti: in Italia si spende pro-capite meno che nei tre paesi Europei considerati, c'è stata negli ultimi venti anni una costante crescita della spesa sociale sia in rapporto al PIL (Prodotto Interno Lordo), sia in valore assoluto, sono cresciute le voci sanitarie e previdenziali ed è calata quella assistenziale, al Nord si spende di più per la previdenza, al Sud per l'assistenza.
Nel complesso una struttura di protezione sociale che conosce alcune disfunzioni, che sente già incombere il peso della crisi occupazionale e demografica (meno popolazione in età lavorativa, sempre maggiore quella con necessità), ma anche una struttura che ha conseguito notevoli successi (secondo Fenera, buoni nella lotta alla povertà, sufficienti in quella alla disuguaglianza, ottimi in quella alla mancanza di sicurezza sociale vera e propria).
Per non affondare però, s'impone l'esigenza di un doppio livello di interventi: uno d'«assistenza», finanziato interamente dallo Stato, l'altro opzionale e finanziato con contributi volontari, affidabile in gestione anche ai privati.

























