Il futuro si chiama... neo-corporativismo?
Oggi, nei cenacoli di ricerca sociale, s1 parla a viva voce di neo-corporativismo come se si annunziasse la lieta novella. Il dire ironico dello scrivente non è gratuito, né tantomeno si basa su negative reminescenze storiche, dato chesi considera prive di senso quelle metodologie storico-etico-vendicative (tipo: noi siamo i buoni, voi i cattivi).
Certo è il neocorporativismo un fenomeno progressivo delle società avanzate per quanto riguarda l'organizzazione economico-sociale di base, ma, dobbiamo analizzare il fenomeno suddetto nelle sue variegate forme per non fame quasi il toccasana del futuro. Bisogna, innanzitutto, dire che il problema sta affiorando ora, quindi, non è facilmente determinabile e non possiamo con sufficiente chiarezza portare alla luce le linee di tendenza di detta «strutturazione» sociale.
È bene dire che Schimitter, lo studioso che ha portato a galla il neocorporativismo dandogli la patina di dignità teorica, si riferisce a società socialdemocratiche non nascondendo, però, che detta fenomelologia sociale dovrà determinarsi ovunque per la sua stessa strutturazione nelle società occidentali. Ma, già da ora si deve dire che a questo riguardo vi sono notevoli differenziazioni da nazione a nazione e questo per esigenze di cultura nazionale. Schimitter sostiene, per lineegenerali, che in una società del benessere, ovvero in una società avanzata, lo Stato non si comporta più come il risolutore delle vertenze sindacali, bensì come l'organo che demanda la propria funzione risolutrice a gruppi, che di volta in volta si fanno difensori degli interessi economico-sociali di base, siano essi di carattere rivendicazionistico o meno.
Allora, potremo domandarci, lo Stato che fa? Lo Stato è il garante del libero svolgersi delle attività sociali, senza entrare in merito alle vertenze che non hanno più l'acredine del conflitto vetero-sindacale, come noi siamo stati abituati a vedere ed a soffrire in Italia. Detto ciò appare subito chiaro che il fenomeno in parola si distingue dal corporativismo del famoso ventennio in quanto dal punto di vista prettamente genetico promana direttamente dalla base sociale, ed è quindi una sua realizzazione. In un'ottica del genere lo Stato sarebbe vistocome «IoStatominimale» voluto dal padre del laissez faire A. Smith (nihil novi sub sole!) e teorizzato di recente in grandi linee da Nozik.
Ciò implica dei grossi processi di trasformazione che noi in Italia cominciamo solo ora cd anche in parte ad apprezzare. Infatti, anche noi con tutti i problemi degli squilibri derivanti e dalla secolare questione meridionale e da problemi di ordine congiunturale e funzionale di carattere anche internazionale, ci avviamo lentamente alla società dei «Colletti bianchi», quindi alla formazione di gruppi sociali che chiedono una tutela assai diversa da quella richiesta, ad esempio, dalla classe operaia «del famoso autunno».
Questo implica, ancora, una diversa cultura e operaia e impiegatizia. quindi, una diversa cultura sociale nonché una diversa strutturazione tra dipendenti, impiegati, imprenditori e Stato.
Ma, il neocorporativisrno, secondo lo scrivente, rappresenta anche un esautoramento non del tutto positivo del ruolo del sindacato che, soprattutto oggi, ha avuto un ruolo fondamentale nell'assetto socio-economico del nostro paese in particolare in quanto ha ricoperto, e ricopre tuttora, un incarico di notevole rilevanza dal punto di vista politico (vedi Fois), aiutando, ed è doveroso dirlo, gli organi preposti istituzionalmente, alla guida del paese, con tutte le lacune e le incomprensioni derivanti della sua posizione antagonista.
Non è un bene che il sindacato perda questa sua caratteristica derivante ormai da una certa consuetudine a scapito magari di un interesse generale ed a vantaggio di determinati «gruppi di pressione» cosiddetti «autonomi», che poco o nulla fanno per l'autotutela sociale secondo la logica neocorporativa. Bisogna quindi che le forze sindacali riesaminino la loro piattaforma proprio in funzione di un mutamento così radicale, anche se lento, della società.
La crescita e lo sviluppo dei gruppi di pressione non è altro che un campanello d'allarme per una riprogrammazione sindacale a lungo termine.
Il neocorporativismo è, appunto, una risposta della società avanzata, alla situazione mutante. È importante vedere a questo punto le forze che gestiscono o, che possono gestire !'esigenze sociali. Sonoqueste forze «particolari» o «generali»? In poche parole riescono o riusciranno, dove il fenomeno in considerazione è in attoa guardare oltre il proprio naso? O come meglio si dice a gestire politicamente il cambiamento? Detta domanda è un'incognita per lo studioso di scienze sociali. Non si possono chiaramente evidenziare con lo scrupolo dello scienziato le linee di tendenza del processo, si può solo dire che la conflittualità potrebbe portare ad un periodo di stasi soporifera, il che non è positivo per qualsiasi tipo di società, sia essa arcaica o avanzata. Per cui i gruppi che si fanno portavoce degli interessi di base non devono essere semplici organismi di autotutela, bensì dei centri di creatività permanente per la migliore risoluzione delle esigenze sociali ed individuali sensibili al valore della persona-individuo nella comunità e delle sue esigenze anche di carattere simbolico (tipo soddisfacimento integrale dell'utenza culturale).
Ciò dal lettore può essere tacciato di moumierismo ed in effetti bisogna considerare anche questo per una buona realizzazione democratica e progressiva del futuro assetto sociale della società industriale (secondo quanto ci dice Touraine), che anche noi in Italia ci avviamo a percorrere.
Manoilesco evidentemente aveva ragione quando parlava del secolo ventesimo come del secolo del corporativismo, ma solo se detto fenomeno lo si considera come una atomizzazione dei gruppi sociali collegati tra di loro come una ragnatela che coinvolge tutti gli individui nel corpo sociale e quindi nello Stato del futuro.
Certo guardando al nostro paese riesce impossibile credere che vi possa essere un'evoluzione del genere dal punto di vista sociale, ma, se si osserva attentamente il processodi crisi del sindacatoe dello Stato rappresentativo si deve convenire che qualcosa bolle in pentola con tutte le contraddizioni inerenti ad ogni fase di transizione ed in particolare di anomalia tipiche del nostro paese.
Ancora il processo è latente, ma, comincia a farsi sentire nel malessere dei cosiddetti «quadri» e dei pubblici dipendenti che non vogliono più accettare le regole del gioco delle strutture statali e sindacali ormai obsolete, perché legate ancora ad un qualcosa che risale allo Stato cripto-liberale di Giolitti.
L'avvento pieno del Welfare State porterà a processi senz'altro nuovi e fecjndi che rivoluzioneranno l'organizzazione della società ed a questo punto bisogna augurarsi soltanto che non vi siano strappi troppo bruschi e che la gestione dell'evoluzione non sia affidata ad incompetenti.



























