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Nuova Politica - Il contributo dei mass media
Discorso pronunciato dal cardinale patriarca di Venezia Albino Luciani a Recoaro Terme il 17 settembre 1977, al Convegno ivi organizzato dall'Unione cattolica stampa italiana (Ucsi) per il 17-18 settembre sul tema «La libera stampa per l'Europa unita» (presenti, fra gli altri, il presidente dell'Ucsi on. Flaminio Piccoli, e il presidente dei giornalisti europei dott. Gustavo Selva, direttore del Gr2).

Recoaro Terme accoglie, oggi e domani, un convegno organizzato dall'UCSI su il seguente tema: «La libera stampa per l'Europa unita». Vi partecipano nomi illustri, italiani e stranieri, e c'è da augurare al convegno un buon successo a favore dell'Europa. Questa, infatti, non sarà Europa unita, se agli sforzi di uomini politici e tecnici di vertice non si aggiungono salde convinzioni diffuse tra larghi strati della base popolare. Ma chi può oggi «lavorare» la «base», se non la libera stampa che, informando, illumina, spiega, chiarisce e convince?

lo abito a Venezia, che fu già caso singolare di stato medievale e rinascimentale, piccolissimo per territorio, ma grande per visione politica, arte, commercio e ricchezza. Allora, ciò era possibile, anzi naturale: di quei tempi bastava trovarsi in una posizione privilegiata per le comunicazioni e l'incontro dei popoli – come appunto Venezia – e, con un po' di sagace dinamismo, Provvidenza e uomini aiutando, la fortuna e la grandezza erano fatte. Allora, i territori molto estesi portavano più inconvenienti che vantaggi: le comunicazioni con centri distanti fra loro centinaia o migliaia di chilometri erano rare e difficili, si limitavano a soli scambi di merci preziose e a deboli rapporti politici e culturali.

Allora, i Russi e i Tartari, che percorrevano la steppa sconfinata, folkloristici nei vestiti e costumi, caracollanti sui loro cavalli, restavano, praticamente, quasi dei barbari. Allora. Ma adesso non più. Adesso è possibile percorrere migliaia di chilometri in poche ore, e la tecnica fornisce una infinita varietà di macchine, che permettono di sfruttare in mille maniere suolo e sottosuolo e di portare su tanti punti della steppa antica milioni di persone.

Adesso la situazione s'è capovolta: lo Stato piccolo per territorio è svantaggiato; solo lo Stato a grandissime dimensioni può disporre delle immense risorse di uomini e di materiali necessarie per sfruttare pacificamente l'energia atomica, per avere i grandi complessi siderurgici,

la grande industria, la grande università, gli strumenti e i mezzi per trivellare il suolo in terra e in mare in cerca di petrolio. Adesso Stati Uniti e Russia in certi settori della scienza e della tecnica possono permettersi imprese, che Francia, Germania, Inghilterra da sole nemmeno si sognano, pur essendo paesi altamente industrializzati.

Adesso, dunque, l'avvenire appartiene agli Stati-continente tipo Stati Uniti, Russia, Cina, Australia, Brasile e India. I piccoli Stati dell'Europa occidentale, se non vogliono correre il rischio di diventare fanalini di coda e – in pratica – vassalli un poi alla volta di nuovi grandi feudatari, devono tendere a fare di tutta la punta dell'Eurasia, che s'affaccia sull'Atlantico, un unico Stato-continente, che possa dignitosamente stare a fianco degli altri, non già con mire autarchiche, ma per collaborare più efficacemente a comuni sforzi di pace, di benessere, di aiuti ai paesi in via di sviluppo.

Il movimento è già avviato. Il Consiglio d'Europa e le varie Comunità europee da qualcuno sono già considerate Europa-incuna speranza d'Europa. Si realizzerà questa speranza? Ci sono fattori favorevoli da una parte, ci sono ostacoli dall'altra. La libera stampa può molto per mettere in luce i primi e appianare i secondi, stimolando sia i politici sia i semplici lettori.

Fattori favorevoli? Pur divisa in nazioni, l'Europa forma un gruppo sociologico, che si differenzia da tutti gli altri raggruppamenti umani. Ci siamo date spesso botte da orbi noi, Italiani con Tedeschi, Francesi con Tedeschi e Italiani, eppure ci si sente una sola famiglia con un patrimonio comune di cultura, di religione, di storia, segnati come siamo tutti – atei compresi – da una visione cristiana e rispettosa di tutto l'uomo e di ogni uomo.

Riporto la mia piccola esperienza: giovane, mi sono laureato all'Università Gregoriana con un professore francese; gli altri professori erano italiani, tedeschi, spagnoli, polacchi; i condiscepoli venivano da tutti i paesi europei, e ci si trovava bene insieme. Patriarca, trovo a Venezia tracce numerose dell'Europa.

Proprio questi giorni è esposta alla «Fondazione Cini» una mostra di disegni, con i quali Wolfgang Goethe ha illustrato il proprio libro Viaggio in Italia: non disegna l'Italia così chi non la sente in qualche misura sua. Sulle lapidi delle case leggo spesso: «Qui abitò a lungo Byron», «qui Wagner», «qui Browning», ecc..., «Qui John Ruskin preparò il libro Le pietre di Venezia».

Al «Museo Corer» le pitture di Ugo van der Goes, Bouts, Met de Bles, Bruegel, Hans Fries, Luca Cranach o Berth Brun mi ricordano che artisti fiamminghi e tedeschi hanno soggiornato a lungo a Venezia, influendo sulla nascente pittura veneziana. A sua volta, Venezia ha inviato a Tiziano e Tiepolo a dipingere in Spagna, il Canaletto in Inghilterra, il Bellotto in Germania e in Polonia, Lorenzo da Ponte a Vienna per preparare «libretti», che Mozart poi musicava.

Gli esempi si potrebbero moltiplicare per altre città; perfino un europeo «orientale», come il russo Gogol, manifestava vocazione europeistica, quando scrisse: «L'Europa intera esiste per essere visitata, l'Italia, invece, per passarvi la vita».

Bisogna pure che la necessità di una Europa unita esista, se la stessa Gran Bretagna, prima ostile ad entrare nelle esistenti Comunità, ha insistito poi ben tre volte per esservi integrata, e nel gennaio 1973 vi ha fatto il suo ingresso con l'Irlanda e la Danimarca, portando a nove «l'Europa dei Sei».

La stessa Unione Sovietica ed i partiti comunisti hanno modificato il loro atteggiamento: da una opposizione aperta alle Comunità europee sono passati ad una accettazione realistica, anche se non sempre scevra da qualche ambiguità. E poi quasi dappertutto diventato anacronistico il patriottismo focoso di altri tempi. La «Linea Maginot», eretta quasi muraglia cinese tra Germania e Francia, è diventata oggi quasi un giocattolo visitato la domenica da turisti curiosi; tutti sentono oggi, che il mondo è diventato più piccolo.

Non si possono, però, ignorare le difficoltà. Lo sciovinismo o nazionalismo esagerato ogni tanto dà dei guizzi. Non tutti, come il Gogol sopra citato, sono disposti a preferire un'altra nazione alla propria.

Il buon de Gaulle si oppose, a suo tempo, al- 1'entrata della Gran Bretagna nell'Europa dei Sei; prima ancora, la Francia aveva rifiutato l'adesione alla Comunità Europea di Difesa. Queste sono le occasioni in cui, garbatamente, i giornalisti dovrebbero intervenire.

Uno di essi ad un collega, che millantava la propria nazione fino a dire che avrebbe desiderato proibire l'uso dei frutti del genio nazionale agli esteri, chiese: — Mi può prestare, per favore, un momento i suoi occhiali? Il collega glieli prestò, ma, dopo un po' di tempo, li chiede indietro. — Nemmeno per sogno, rispose il giornalista, che era italiano. — Come sarebbe a dire? — Sarebbe a dire che gli occhiali sono stati inventati da un italiano e quindi, secondo i vostri principi, non si devono dare a chi italiano non è. 

Altra difficoltà: gli squilibri tra stato e stato in fatto di risorse naturali, di sviluppo industriale, di agricoltura ammodernata, di relazioni sociali. Non è facile procurare un accordo su questi punti in tempi normali; figuriamoci poi in tempi, come questi, di crisi economica. Ma bisogna pur tentare.

Pare impossibile, ma succede: quando fra le cosiddette superpotenze pareva imminente la guerra, i politici avevano il piede sull'acceleratore per l'Europa unita; adesso che la distensione sembra affermata e il pericolo allontanato, i politici sono più tiepidi e lenti, sembrano mettere il piede sul freno: «Passata la festa, gabbato lo santo», verrebbe da dire.

L'ultima difficoltà parrà strana. C'è chi diffida dell'Europa unita, perché già caldeggiata da De Gasperi, Schuman e Adenauer, politici democristiani e dai papi Pio Xli e Paolo Vi. Per quanto attiene ai politici, i timidi si possono rassicurare: fervidi europeisti sono stati anche i non democristiani Monnet, francese, il belga Spaak, l'italiano Sforza.

Quanto ai papi, in questione come questa, se essi intervengono, è solo per partecipare alle concrete preoccupazioni, ai problemi, alle angosce, alle speranze dei popoli. Contenti, se possono appoggiare gli sforzi positivi degli addetti ai lavori.

Non già che il papa abbia un rimedio per tutte le questioni: è, però, spesso, in grado di far studiare le questioni: la molteplicità dei suoi contatti, la fiducia che ispira il suo trovarsi al di sopra degli interessi contrapposti, la possibilità di una visione più spassionata lo mettono in condizione di recare qualche buon aiuto.

Siamo poi nel post-concilio: il papa tenta il dialogo con tutti, anche coi più lontani, pur sapendo di andare incontro a delusioni e incomprensioni. Se poi i problemi riguardano problemi schiettamente umani, come la pace e lo sviluppo, il dialogo del papa non si ferma se non davanti al rifiuto opposto da altri. Egli è persuaso che i problemi dell'umanità oggi sono così intricati, che possono essere risolti soltanto con il concorso di tutti e con l'apporto di tante forze non solo economiche, ma anche morali.

In questo senso Pio XII si augurava che l'Europa desse a se stessa la missione di affermare e difendere i valori spirituali, che in passato erano il fondamento e il sostegno del suo esistere e ch'era stata capace di trasmettere in parte ad altri popoli.

La Santa Sede ad Helsinki

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