Limiti e vantaggi della 142
Come accennavamo nell'articolo "Guida alla riforma", con la legge 142, approvata nel giugno del 1990, il Parlamento ha finalmente dato attuazione, dopo oltre 40 anni di attesa, al dettato costituzionale sull'ordinamento dei poteri locali. Siamo dunque in presenza di una legge estremamente importante la cui portata innovativa è stata però attenuata da due imperdonabili lacune. Aver dimenticato, per esplicita volontà politica, la riforma del sistema elettorale e quella, altrettanto importante anche se meno appariscente, della finanza locale significa aver realizzato una riforma a metà, secondo il peggiore stile della politica italiana.
Il sistema delle autonomie continua così ad essere vittima di un metodo elettorale che mortifica sistematicamente la volontà dei cittadini, rende inutili anche le più evidenti espressioni di consenso popolare, trasforma ogni passaggio elettorale nella consegna di una delega in bianco ai partiti.
Per non dire poi del vetusto meccanismo di finanziamento degli enti locali, la cui finanza dipende quasi esclusivamente dalla volubile generosità dello Stato. Oltre il 70% delle entrate dei Comuni sono rappresentate dai trasferimenti statali che condannano la finanza locale alla quasi totale dipendenza da quella centrale. Ma fino a quando non saranno introdotti margini più ampi di autonomia finanziaria non potrà mai esserci una reale autonomia di indirizzo politico da parte degli enti locali.
Nella 142 mancano risposte concrete a questi due nodi essenziali ed è quindi evidente che la riforma delle autonomie appare come un provvedimento insufficiente i cui limiti non giustificano però un giudizio radicalmente negativo.
Nonostante le riserve che si possono esprimere, la legge 142 rappresenta ugualmente un contenitore di novità, un insieme di opportunità da non lasciarsi sfuggire, insomma una scommessa da accettare.
In particolare, con il riconoscimento di una autonoma potestà statutaria, si è aperta per gli enti locali una vera e propria fase costituente il cui esito dipenderà fortemente da come essa sarà gestita e attuata proprio da Comuni e Province. Nell'ambito di competenze predeterminate e sottoposte ai principi stabiliti dalle leggi nazionali, ciascun Comune potrà dotarsi di un proprio Statuto, una sorta di Costituzione in piccolo, che disciplinerà ·le norme fondamentali dell'organizzazione dell'ente.
Si supera così il difetto principale della vecchia normativa che prevedeva un regime istituzionale identico per gli oltre 8000 Comuni italiani. Un Comune con poche decine di abitanti ed una grande metropoli erano assurdamente sottoposti alle stesse regole, allo stesso modo di funzionamento, allo stesso tipo di organizzazione. Una disciplina palesemente incongrua rispetto alla variegata realtà degli enti locali italiani.
Passando concretamente alla procedura di elaborazione degli Statuti, che dovranno essere approvati entro il 17 ottobre di quest'anno, pena lo scioglimento del Consiglio comunale, sarebbe stato auspicabile che essa venisse sottratta ad una logica esclusivamente burocratica e amministrativa. Insomma, doveva essere evitata la tentazione, nella quale sono caduti molti enti locali, che tutto si riducesse ad una faccenda di consiglieri, funzionari, giuristi e altri esperti, senza un grande coinvolgimento dei cittadini, della società civile e delle sue articolazioni associative. Anche perché le norme del capo terzo della 142 sugli istituti di partecipazione, se lette in stretto raccordo con la legge 241 sulla trasparenza del procedimento amministrativo e il diritto di accesso agli atti, potrebbero davvero rivoluzionare i non certo facili rapporti fra cittadini e pubblica amministrazione.
Per la prima volta in una legge dello Stato si leggono affermazioni come tempi certi per la conclusione della pratiche, individuazione del responsabile di procedimento, diritto ali' informazione e diritto di accesso agli atti garantito a tutti i cittadini. Innovazioni rivoluzionarie che spetta agli Statuti rendere concretamente operative.
Un capitolo a parte merita il ruolo del volontariato appena sfiorato dalla 142 nella quale si dice genericamente che "gli enti locali devono valorizzare le libere forme associative e garantire l' accesso alle strutture ed ai servizi alle organizzazioni di volontariato". Ma qui bisogna davvero andare oltre il semplice dettato della legge. Oggi, il volontariato è una realtà dalla quale non si può più prescindere nella programmazione e nella gestione delle politiche sociali. Purtroppo si continua a far finta di niente e così l'atteggiamento più ricorrente da parte di molti amministratori locali è ancora quello di immaginare il volontariato come il tappabuchi delle carenze istituzionali. Si pensa cioè erroneamente che il volontariato sia utile solo quando vi è debolezza o latitanza delle istituzioni, dimenticando che si tratta invece di una componente essenziale della vita democratica e sociale.
Le associazioni ed i gruppi del cosiddetto privato sociale non si sono mai sottratte a compiti di supplenza, ma il loro ruolo nella società odierna deve andare ben oltre. Oggi il volontariato si configura come un sistema emergente di valori che non dev'essere strumentalizzato o mortificato politicamente, ma valorizzato nella sua capacità di dare risposte concrete ed immediate ai bisogni sociali, quella capacità che troppo spesso manca ad istituzioni malate e lontane dai cittadini. Lo sforzo da compiere in fase di elaborazione degli Statuti dovrà essere quello di immaginare per il volontariato un ruolo attivo di collaborazione con le istituzioni locali nella gestione delle politiche sociali. Senza assurde commistioni di ruoli e competenze questo è il salto di qualità che uno Statuto aperto alle istanze della società civile dovrà compiere.
Come dicevamo prima, il 17 ottobre è la scadenza finale per l'approvazione degli Statuti da parte degli enti locali. È quindi ancora troppo presto per poter esprimere un giudizio compiuto sul lavoro svolto dalle amministrazioni locali. Ma l'impressione a caldo è che non si sia colta fino in fondo l'occasione storica che il legislatore nazionale aveva offerto a Comuni e Province.
Non c'è stato un grande coinvolgimento dei cittadini, molti Statuti assomigliano più a regolamenti organizzativi che non a vere e proprie Costituzioni, l'impegno degli stessi amministratori locali è apparso alquanto limitato.
Ma vogliamo aspettare prima di dare un giudizio definitivo. Una cosa però è certa fin da ora. Per la prima volta nella storia della nostra Repubblica, se la fase costituente aperta dalla legge 142 dovesse avere un esito negativo, gli amministratori locali non potranno inveire, come spesso giustamente accade, contro lo Stato centrale. Dovranno solo recitare il mea culpa.















































