Riformismo, cultura riformatrice, politica delle riforme
Il riformismo è uno dei principali temi del dibattito politico attuale: è il pomo della discordia tra i due maggiori partiti della sinistra, è la «parola d'ordine» del Congresso socialista di Verona, è una questione tutt'altro che indifferente, anzi decisiva, per un partito popolare come la DC. Ed è anche, a quanto sembra, une delle principali vittime predestinate di quel nuovo corso della politica che va sotto il nome di «riduzione della complessità sociale» (Lumhann e dintorni).
Su questo tema si è tenuta a Roma, il 27 marzo scorso, presso il Centro culturale «Mondo Operaio», una tavola rotonda, con Giorgio Napolitano, Claudio Martelli e Vincenzo Scotti, coordinata da Federico Coen, il cui testo è riportato in «Mondo Operaio» di aprile..(Su questo tema, tra i tanti interventi, v. anche C. Petruccioli «Nuovi riformisti o nuovi integralisti», Rinascita n. 20/84).
Coen inizia affermando che «si ha l'impressione che il termine riformismo abbia perduto in precisione ciò che ha guadagnato in estensione», e prosegue gettando un vero e proprio sasso in piccionaia (in quella del PCI): essendo ormai unicamente acquisito che l'alternativa nella sinistra non è più tra rifornismo e rivoluzione, resta però la distinzione, che opera a tutt'oggi il PCI, tra «riformismo» e «politica riformatrice»; e questa distinzione «è solo una foglia di fico per non dover ammettere apertamente che si è imboccata la via di Damasco».
Detto questo, il confronto tra i due esponenti della sinistra (Scotti fa un po' il grillo parlante della situazione) si svolge a livello valoriale e a livello strutturale.
Per Claudio Martelli, il valore-cardine del riformismo sociale anni 80 è «l'equità», preferita dai socialisti all'uguaglianza che tende «ad appiattire inesorabilmente una società, a burocratizzarla», mentre l'equità «riconosce le differenze dei valori in car,npo», offrendo in ciò «un criterio a un tempo più preciso e più flessibile che non quello dell'uguaglianza».
Napolitano conviene sull'esigenza di distinguere l'uguaglianza dall'appiattimento, ma sembra continuare a considerare questa il principale punto di riferimento.
Sul piano strutturale alle riforme «nel» sistema di Martelli («le riforme utili e possibili», ispirate all'esigenza di far progredire l'insieme della società», collocandosi «dal punto di vista di chi in una società sta peggio») Napolitano contrappone. una riforma «del» sistema («va messo in discussione il modello di sviluppo» in particolare riguardo al temi della svolta tecnologica e dell'occupazione), dovendo il riformismo rapportarsi a un elemento esterno (e quindi ideologico?) al sistema.
Per Scotti il riformismo di Martelli corre due rischi: un inconfessato illuminismo (non si discute l'equità e lo stare «dalla parte di chi sta peggio», ma questo, qui ed ora, che cosa significa? è così facile definire l'equità?) e un latente decisionismo (le società complesse non si governano con una «riduzione della complessità sociale», se non ci si può nemmeno dire riformisti). Si rischia, in altri termini, di configurarsi come «l'operazione di un ceto illuminato sulla testa della società», e di «avallare una prassi di governo calata dall'alto», proprio perché si scavalca, in parte e più o meno coscientemente, il momento dell'indispensabile confronto con la società civile.
Il terreno di una riprogettazione del riformismo è quindi la sfida principale che il PSI di Verona ha lanciato alla DC, anche se è tutta da verificarsela consistenza teorica dell'elaborazione socialista.Per raccoglierla non bastano i rituali appelli alle nostre pur sempre valide tradizioni, ma occorre un supplemento di elaborazione culturale e politica di cui non sempre il partito ha dato prova di disporre: un partito che è stato ed è popolare, infatti, non può non essere riformista.
E allora, domanda da cento milioni: quale riformismo?



















