Il politologo Gianfranco Pasquino lo ripete da tempo: in Italia, la discussione sulle riforme istituzionali è più un argomento per inutili cortine fumogene, per polemiche da bruciare nello spazio di un mattino, piuttosto che per analisi serie e "sistemiche" sulle istituzioni nazionali.
Il termine che conta è "sistemico", cioè un pacchetto di scelte che non si contraddicano a vicenda, che configurino un nuovo ordine politico definito e calcolato nelle sue conseguenze.
Che senso avrebbe, ad esempio, riformare il Parlamento rafforzando il potere delle Camere di sforacchiare il Governo e poi attribuire poteri forti al medesimo Governo? Non è una perdita di tempo difendere ogni giorno l'indipendenza dei magistrati e poi chiederne la sottomissione al potere esecutivo?
Insomma, se nel 1946 l'Assemblea Costituente operò consapevolmente una scelta sistemicamente debole – introducendo numerosi pesi e contrappesi – per evitare la prevalenza di un potere sull'altro in un contesto democratico tutto da sperimentare, è tempo oggi che le riforme disegnino un ordine politico forte che "restituisca lo scettro al principe". Non si tratta, ovviamente, di nostalgie monarchiche, ma di configurare un potere visibile e responsabile delle proprie scelte, legittimato dalla espressione elettorale e padrone di mezzi e strumenti che gli consentano di realizzare gli impegni programmatici assunti e su quelli essere valutato e sanzionato.
Va riconosciuto che, almeno sotto il profilo cronologico, il primo partito italiano a evocare "la grande riforma" è stato il Partito Socialista della fine anni 70. Il primato è solo cronologico perché non solo la "grande riforma" era più la fusione di un sostantivo e di un aggettivo senza contenuti determinati (oggi si direbbe una scelta di metodo), ma quei pochi contenuti accennati non coincidono nemmeno con le proposte che oggi il Psi sostiene e difende. Al tempo della Commissione Bozzi, il Psi bocciò risolutamente le ipotesi presidenziali avanzate dai missini.
Del resto a queste ritirate strategiche il Psi ha continuato ad abituarci: la Conferenza Programmatica di Rimini di un anno fa approvò la riforma elettorale con la riduzione ad una sola preferenza, ma il segretario del partito ha invitato gli elettori ad andare al mare proprio il giorno che si era chiamati a votare un referendum in quella direzione.
Quali sono dunque le grandi riforme che i tre principali partiti italiani propongono in questa fine convulsa di legislatura? Il PSI è approdato da tempo sulle sponde semi-presidenziali. Il termine che conta, in questo caso, è "semi" poiché – va detto subito – l'elezione diretta del Capo dello Stato non configura affatto un sistema presidenziale. Il Presidente è eletto direttamente in sistemi parlamentari come l'Austria e la Finlandia senza mutare la natura di quei regimi. Complessivamente, Craxi e colleghi spingono per una leggibilità della responsabilità fondata sulla personalizzazione del potere, sono attratti dalla riconduzione dei magistrati sotto il controllo dell'Esecutivo, plaudono alle riforme che riducono la rissosità parlamentare come l'avvenuta abolizione del voto segreto. La proposta, ad oggi, difetta di molti non trascurabili dettagli: in che modo eleggere questo Presidente e con quali poteri rispetto ad un Parlamento legittimato in pari grado? Quale rapporto con il Governo (il Capo dello Stato è anche Premier come negli Usa o se lo sceglie come in Francia?) e quale riforma elettorale, dato che il Psi rifugge ad ogni patto di coalizione che ne sveli le intenzioni prima del voto? La base socialista, in parte, fugge contraddittoriamente dalla parallela proposta di eleggere direttamente i Sindaci delle città, poiché questo evidentemente li priverebbe del consueto "ricatto di coalizione".
I pidiessini, ostili fino agli anni 80 a qualsiasi riforma costituzionale che alterasse il patto degli anni 40, si sono lentamente persuasi ad una grande riforma che snellisca il Parlamento lasciandolo però "centrale" in ogni processo riformatore: una sorta di Parlamento governante: fine del bicameralismo, riduzione della Camera a 400 deputati. Il PDS non ha poi definito con chiarezza quale legge elettorale (anche se sembra più vicino alla proposta DC corretta) e quali poteri al Governo ma – a parte i comunicati di amore/odio col PSI, tipici della guerriglia tattica sull'unità a sinistra – non sembra affascinato né dalle proposte socialiste sulla Giustizia né dai sogni presidenzialisti di Bettino Craxi. Cuore e le Feste dell'Unità sono un buon termometro in proposito.
La Democrazia Cristiana, che a lungo aveva coltivato al proprio interno disegni parziali e diversi, ha recentemente sciolto gli ormeggi all'ultimo suo Consiglio Nazionale, disegnando con Leopoldo Elia una riforma sistemica che, senza scorciatoie, recupera i valori della "cultura delle coalizioni" affidandoli però alla sanzione elettorale invece che agli umori mutevoli delle segreterie di partito.
Ecco dunque la rivisitazione della proposta Ruffilli-De Mita sui premi di coalizione, ecco il meccanismo della sfiducia costruttiva in Parlamento (già introdotta negli Enti Locali), ecco l'incompatibilità fra l'incarico governativo ed il mandato parlamentare. Nasce – così l'hanno battezzato i giornali – il Governo del Cancelliere, con poteri forti derivanti da un forte mandato elettorale e da un altrettanto forte legame di fiducia con il Parlamento. Così si salvano i partiti, ma li si impegna anche ad un diverso rapporto con l'opinione pubblica.
La parola passa ora al Parlamento. Un solo dubbio, cattivello ma lecito: come si esce dal vicolo cieco che condanna i governi DC-PSI a non parlare di riforme istituzionali, pena la loro crisi immediata? Eh già, riforme e governabilità sono divenute parole inconciliabili fra loro, a meno di non immaginare soluzioni diverse...




















