... Sulle ceneri del Nicolinismo
L'estate 1984, tra le nequizie metereologiche e l'assenteismo dei bagnanti dalle riviere, pare abbia fatto registrare anche un altro elemento di novità: l'intorpidimento di quelle effervescenze festaiole e spettacolistiche che da Nicolini in poi avevano imperversato, attraverso i pubblici mecenati dello spettacolo di piazza, spiagge - rocche - aiuole spiazzi e corti municipali nell'ultimo lustro.
L'onda lunga che inondava la grande provincia italiana degli assessori epigoni tradissimi del capostipite Nicolini, insomma, pare ritirarsi.
E del resto lo stesso onorevole fondatore della breve schiatta confessava a Panorama qualche mese fa che certo tipo di spettacolo, certo effimero, andava risolto, rimediato per adeguarlo ai nuovi bisogni della gente.
Il tramonto dell'effimero? Un soprassalto di resipiscenza da parte degli assessori alla cultura indotti a maggiore attenzione, alle ragioni del risparmio pubblico?
Dalla frizzante arguzia di Umberto Eco scaturisce una distinzione semiologica fondamentale tra spettacolismo e «cultura» che ci porta a certe conclusioni: lo spettacolismo (che si sposa con le smanie organizzativistiche del nuovo mecenatismo pubblico) sbriciola in eventi di intrattenimento non necessariamente motivati, bricolage culturali e non che staccati da un contesto e mescolati improvvisamente fra loro rispondono ad una pura ragione di entroinerment.
La nozione di evento culturale suppone invece una scelta, un contesto, una motivazione e forse anche una fruizione in senso didattico da parte del pubblico. Alla stregua delle rigorose distinzioni echiane, dunque, il modello nicoliniano ha risposto più che a ragioni levate all'aspetto «culturale» della funzione assesoriale,a motivazioni di spettacolo: l'eterno, ricorrente «panem et circenses» di latina memoria.
Il che, beninteso, non è da giudiéarsi necessanamente in termini negativi; il nicolin1smo ha assolto ad una funzione fondamentale di stravolgimento dei grigi scenari metropolitani, adducendo, soprattutto negli anni pesanti di piombo, nuove motivazioni all'aggregazione umana, instillando nuovi bisogni collettivi, nuove esigibilità ai pubblici poteri chiamati a dispensare alle comunità non più soltanto balzelli e gravami burocratici, bensì anche occasioni di divertissment. Il che non è poco, soprattutto se si immagina che ogni terapia ha bisogno di una forza d'urto iniziale, uno shock che dia il senso della rottura tra un «modo» ed un altro. Ma allora perché si è esaurita la spinta propulsiva di certo modo di fare effimero da parte della pubblica amministrazione?
Può darsi che la terapia d'urto abbia generato effetti: il bisogno collettivo ha preso direzioni diverse, si è reso più consapevole più capace di distinzioni. Del resto le ingenti somme di danaro pubblico impegnate nelle piazze estive, da Roma (parecchi miliardi) a Roccacannuccia, in un clima recessivo e di tagli ferali alla spesa pubblica, proponevano questo aberrante paradosso: io Stato, nel mentre induco te cittadino a stringere la cinghia e a rinunciare al personale superfluo, quindi al voluttario, quindi ad un biglietto teatrale o ad un libro in più, che però avresti scelto con tuo gusto e per tua personale soddisfazione, nello stesso tempo ti ammanisco – a tue spese, perché è danaro delle collettività – uno spettacolo di piazza che tu non scegli, magari propinandoti la prima compagnia di avanspettacolo (o balletto brasiliano, o coro russo, o cantante rock) che capita a tiro dell'impresario - Comune.
Di più. Esiste tra le altre una ragione antropologico-artichitettonica che è elemento di discrimine nell'animazione «culturale» degli scenari urbani. Perché lo spettacolo di «piazza» aveva un sensodiverso da oggi in epoche antiche? Perché la struttura urbanistica dei nuclei antichi delle nostre città era «contenitore» naturale di eventi naturalmente peculiari ad esso: la chiesa, per esempio, era luogo di aggregazione anche civile, in un continuar con la piazza antistante, con i vicoli che questa intersecavano. In altre parole non esistevano i «luoghi deputati all'evento culturale» modernamente intesi: in un sistema di interazioni umane di scambi sociali più immediati, tutti i luoghi erano deputati. Lo spettacolismo metropolitano di questi anni ha capovolto il rapporto: la città come scenario, come comenitore di eventi ad essa estranei. Un rapporto artificioso (è tutta da spiegare – e da motivare – quell'idea del carnevale di Rio per i Fori Imperiali a Roma!).
Inoltre (e riprendo il filo) la gente è oggi più capace di esigere dalla Pubblica Amministrazione e di fare distinzioni. Quali distinzioni, dunque, e quali esigenze?
Ebbe a dire una volta Raphael Alberti all'estensore di questo articolo che gli venga presentato nella sua funzione (ahi!) di assessore alla cultura: «non è corretto dire «alla culi ura»; dovrebbe dirsi «per la cultura»!
Il compito della Pubblica Amministrazione in questo delicato settore, non è quello (che molti hanno scorrettamente inteso) di surrogazione dell'impresa privata nella organizzazione di spettacoli; né quello identificato nella sindrome da minculpop, la popolazione e la tutela di un programmazione monodirezionale.
È un compito, invece, di promozione delle condizioni che consentano alle for,:e culturali agenti nel territorio, una libera espressione (ricordiamoci ogni tanto dell'art. 21 Cost.), senza confusione o surrogazione di ruoli.
In questo senso si manifesta la più matura esigenza della collettività: no all'effimero fine a sé stesso, sì alle realizzazioni di struttura.
Sì dunque, all'intervento pubblico per la realizzazione di nuovi teatri, di produzioni, di confronti di esperienze culturali di livello, di recupero e valorizzazione delle identità storiche del territorio.
Sì anche al divertissment, se può avere un senso economico in una dimensione di sostegno al turismo,e in coerenza con un progetto. No all'improvvisazione, al rabberciamento, all'elettoralismo, al clientelismo a buon mercato, al dilettantismo pagato a caro prezzo.
Per concludere: un cattivo e un buon esempio entrambi dalla terra di Puglia.
Soltanto sorridere possono fare le barµffe chiozzotte registrata a mezza estate dalla stampa locale sulla mancata stagione di spettacolo da parte del Comune di Bari. Sorridere amaro, però, constatando che il registro dominante nelle scelte (si può anche scegliere di «non fare» qualcosa) è di segno melanconicamente clientelare. Nessun progetto, nessun disegno, nessuna meditazione sui bisogni culturali di una città come Bari, e un bel giorno di mezza estate ci vien fatto capire che il Comune dichiara forfait perché non c'è accordo sulla lottizzazione dei «gruppi di animazione».
L'unica consolazione è andata ai vojeristi incalliti: le esclusive occasioni di svago nella calda estate barese erano i sei sette cinema in attività, quattro dei quali a luci rosse.
Il buon esempio viene da Martina Franca. Un festival (di nobili ascendenze: Paolo Grassi, ecco un esempio di organizzatore di Cultura) che s'impone per il rigore filologico delle scelte e (udite, udite) che riesce a fare produzione. Una scelta della Pubblica Amministrazione, orma antica dieci anni, questa sì per le «cose che restano» capace di creare confronto ad alto livello, e di ritagliarsi uno spazio nel panorama nazionale.
Saprà Bari capoluogo di regione, con ambizioni metropolitane e da capitale del meridione, capace di seguire un buon esempio?
Dal programma dei giovani dc
Oggi assistiamo ad una caduta verticale della capacità di coinvolgimento delle aspettative e delle sensibilità del mondo giovanile: le pesanti ingerenze delle istituzioni locali hanno esaurito la capacità innovativa spontanea di queste politiche culturali.
Nemmeno la costituzione di assessorati alla gioventù ha potuto sopperire alle carenze di impegno nel mondo giovanile.
Pur rivedendo la validità politica di un assessorato che cura il coordinamento delle politiche giovanili vogliamo sottolineare il fallimento delle politiche delle giunte di sinistra caratterizzate, in questo campo, dall'ideazione dei cosiddetti «centri giovani». Si tratta di centri polivalenti con sale di ascolto di musica, sale destinate ai video-games, sale di lettura, laboratori finalizzati a piccoli lavoretti artigianali.
Dall'esame, non solo dei fatti ma anche delle dichiarazioni di responsabili politici di questi centri, emerge un'ambiguità: si oscilla, in ordine al problema della valenza educativa dei centri (in senso ampio: di circolazione, di valori, di idee, di confronto tra progetti), tra una concezione «minimale», per cui i centri sono meri «servis» sociali, che non si pongono affatto un problema di approccio a contenuti e percorsi ideali e una «massimale». per cui si arriva a definire i centri come una sorta di «agenzia educativa», deputata anche a una specie di formazione civile del giovane. Ora, nel primocaso può riscontrarsi una scarsa «densità valoriale», una dequalificazione culturale, un'indulgenza a un consumismo che si limita a inseguire i bisogni via via emergenti dei giovani, rinunciando a porre un qualunque filtro tra le istanze di essi e gli interventi delle istituzioni.




































