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Periferia della politica centro della Politica

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Il risultato amministrativo del maggio 1990 ha rappresentato per chi ne ha analizzato i risultati un punto di svolta nella utilizzazione degli strumenti di interpretazione di quello che la gente vuole dalla propria classe dirigente locale. Sugli spostamenti millimetrici ai quali si rivolgevano con interesse spropositato i politologi della democrazia bloccata sono prevalsi femomeni di esplosione anche a livello locale della disaffezione e del disagio dei cittadini nei confronti della politica. Il caso più embematico sul quale è opportuno tornare con una riflessione articolata (che il movimento giovanile ha inizioato con i propri lavori della direzione aperta a Taranto) è certamente il capitolo Leghe. Una lettura dei dati offerti dal saggio commissionato dalla Democrazia cristiana lombarda ai ricercatori dell'istituto dell'Università Cattolica dà modo di leggere dall'interno il caleidoscopio di attese e aspettative e idiosincrasie nei confronti della politica che i dirigenti della lega Lombarda mettono in rilievo nelle loro risposte.

C'è un immaginario collettivo nelle Leghe che andrebbe seriamente analizzato e approfondito nei termini di ciò che il partito della Dc può offrire come soddisfazione di quelle istanze che poi trovano sbocco nel rifiuto della politica. Al di là della banalizzazione dei temi e della interpretazione che Bossi e i massimi dirigenti della Lega Lombarda danno di di questo es..asperato "sentire" localistico. I risultati della ricerca del professor Cesareo, che ha per protagonisti i dirigenti e i simpatizzanti della Lega Lombarda, preso atto della recente formazione e il non irrigidimento in ruoli burocratici della classe dirigente – può essere estesa per analogia al "cosa pensa" e al "chi è" quella grande marea di voti senza volto che ha modificato radicalmente il panorama politico delle autonomie locali e regionali di mezza Italia.

Questo fenomeno di esplosione del localismo serve a dare una chiave di lettura di come si trasforma la politica nella società complessa. Di come cioè le identità culturali, le diverse velocità economiche, la trasformazione etnica in senso multiraziale dell'Europa e del nostro paese può arrivare a modificare comportamenti politici consolidati. Questo interessa la Dc, se è vero che è stato sempre un nostro vanto, anche nella dimensione locale, il rappresentare il dato consolidato di appartenenza politica sinceramente democratica. Abbiamo offerto una fedele interpretazione della cultura di solidarietà che le comunità locali hanno saputo esprimere. E ad una analisi dei flussi elettorali la Dc appare come il partito più colpito dalla emorragia provocata dai fenomeni leghistici al tradizionale corpus di consensi che si indirizzava ai partiti nazionali.

Un nuovo Gramsci riscriverebbe oggi completamente il rapporto tra il centro e le periferie della politica.

C'è chi sostiene insistentemente, e a buon ragione, che questa coppia concettuale (centro/periferia) su cui si basa in buona sostanza l'articolazione dei poteri e del Potere del nostro paese, si è dissolta, non esiste più. Nè in termini culturali, con il diffondersi delle varie forme di "aggio globale", che permettono una veloce e complessa comunicazione tra le diverse realtà, e nemmeno nei termini della tradizionale riverenza politica che vede una periferia debole impegnata a richiedere ad un centro entità superiore "quello che ci manca" e che solo il centro può offrire, com_econcessione o riconoscimento di un diritto da rendere effettivo. La nuova dimensione del localismo che si è aperta, rispetto al centro presenta invece due diverse facce, se è concesso semplificare al massimo.

Da una parte abbiamo una netta prevalenza del "locale" in termini antagonistici o addirittura sostitutivi rispetto al centro. Il centro politico è visto come il motore immobile di mali che arrivano a lambire le terre dell'efficienza, della ricchezza economica e dell'autosufficienza culturale (dice Cesareo nel saggio citato, "una logica dell'aut-aut": o prevale il centro, o prevale il locale, uno degli elementi deve ritirarsi). La seconda faccia somiglia ai termini più conosciuti e tradizionali dell'autonomismo, declinati però in modi rozzi e non filtrati da una elaborazione politica e culturale

sulla autonoinia: una richiesta e un desiderio di riassestamento sistematico del rapporto centro/periferia che dovrebbe condurre a nuovo equilibrio con il potenziameto del locale.

Mi sembra chiaro che una iniziativa della Dc su questi temi debba distinguere un lavoro di classificazione sociale da un giudizio politico sul fenomeno delle leghe. Il capire cosa sta sotto il fenomeno non ci esime dal prendere posizione negativamente sulle impronte nemmeno tanto dissimulate razziste dei loro programmi e la rimasticatura inaccettabile di modelli istituzionali anacronistici.

La risposta tenteremo di fornirla durante la festa dell'Amicizia nei nostri convegni sul regionalismo, sui problemi che porta una società multiraziale, sulla frammentazione della rappresentanza e su come la forma partito può e deve adeguarsi alla richiesta perentoria di dialogo che viene dalla società civile.

Abbiamo visto infatti che non bastano più a dare efficacia alla iniziativa politica su questo versante le boutades spettacolari dell'on. Craxi a Pontida, perché sullo stesso terreno è battuto da un altra, più scintillante e nuova compagnia che si agita sul teatrino della politica.

Il recupero, per quanto ci riguarda, molto probabilmente sarà lento e non potrà prescindere dal contributo che le Dc locali potranno dare alla comprensione di questo fenomeno. C'è da capire bene, infatti, quanto il "quadro" della Lega Lombarda assomigli ad un militante o simpatizzante democratico_cristiano del Nord a cui sono venuti meno, come riferimento, alcuni valori fondamentali che nelle situazioni di debolezza del partito, negli episodi di sua scomparsa organizzativa possono essere difficilmente tramandati. Certo è che il fenomeno delle leghe richiede una risposta specifica ed equilibrata e diversi bisogni. Il bisogno di identità e appartenenza, il bisogno di efficienza della macchina dello Stato (di uno Stato "centrale" e perciò spesso "cattivo" anche quando si manifesta in forme politiche sicuramente periferiche come i comuni e le province). C'è il particolarismo senza solidarietà, misto alla giusta richiesta di valorizzazione delle autonomie. C'è l'esaltazione di un ruvido spirito di concretezza e buon senso, come ricerca di soluzioni e "lezione" da impartire all'andazzo del verbalismo impotente della politica. C'è poi la ricerca del nemico. Il Meridionale è assunto a metafora e simbolo della degenerazione burocratica e del parassitaggio in ogni articolazione della vita sociale.

Bisogni differenti, forme di protesta diverse fanno da contrappeso al fenomeno leghistico nelle zone del Sud. Il sintomo generale della protesta è come sempre la disaffezione dal voto, l'astensionismo. Ma un sintomo della crisi della forma tradizionale di presenza dei partiti è anche il proliferare di liste civiche, molto spesso reazione alle incrostazioni dei potentati locali o facile strumento nelle mani di questi. A ciò si aggiunge il tentativo di infiltrazione criminale nei gangli decisionali dei centri di spesa locali. Certo, le trincee di opposizione civile scavate da molte comunità, da molte realtà amministrative del meridione testimoniano comunque l'attaccamento ai valori della nostra civiltà politica contro la sopraffazione della malavita organizzata e della violenza mafiosa.

Ma còme negare che ci sono intere zone del meridione in cui la libertà di espressione del voto è fortemente limitata dalla presenza di un contropotere dello Stato e dal tentativo di questo contropotere di sostituirvisi per intero con una propria originale forma di legittimazione militare?

I dati di partenza (l'economia del Meridione a scartamento ridotto, la presenza criminale e mafiosa, le sacche di arretratezza culturale, le difficoltà di intervento straordinario nel Mezzogiorno, mi sembrano più conosciuti ed elaborati, come più compiuta mi pare la risposta della Democrazia Cristiana a queste difficoltà della società civile. La risporta, che non può non essere molto conflittuale, molto "tranchant", la reazione più intelligente a questa difficoltà viene ancora dall'iniziativa dei democratici cristiani, i settori della Democrazia cristiana che hanno capito i processi di trasformazione della politica, non hanno dimenticato la lezione di Luigi Sturzo e prestano attenzione a quel che la società civile propone come nuovo desiderio, come nuovo bisogno di ordine democratico della comunità civile.

Come si propone la Democrazia cristiana nelle elezioni del 1990? É parso evidente prima, durante e dopo l'appuntamento elettorale di maggio: si è affermata con una prepotenza inusitata il modello già sperimentato di "catch all party", il partito "pigliatutto". Anche nella Democrazia cristiana la scelta dei candidati ha confezionato liste omnibus per infilarsi indistintamente negli interstizi, in tutti gli intestizi, della società complessa. I candidati sono sempre meno selezionalti in virtù di un criterio che li vuole adeguati alla necessità di sviluppare un programma di governo della città, ma piuttosto li pretende individuati quasi unicamente per il bagaglio di consepsi e i "pacchetti" di voti che riescono a contattare e a conquistare nella competizione elettorale.

Sempre meno ilpartito è quindi uno strumento di selezione e di sintesi degli interessi e dei bisogni. Questo dovrebbe provocare una riflessione non accademica sulla formazione della classe politica negli enti locali. Per quanto ci riguarda è doveroso interrogarci sulle possibilità che gli attuali meccanismi siano in grado di gestire una qualsiasi linea politica pure derivata da un travaglio abbastanza conflittuale quale quello che si verifica nella Democrazia cristiana.

Ci sembra che la linea politica generica diventa ges6bile solo se ininfluente nei concreti rapporti di gestione del potere e delle risorse, solo se è estremamente generica. Certo una concezione del partito in termini minimali può accettare questa situazione, ma un partito che oggi abbia l'ambizione di lanciare messaggi forti non avrebbe poi gruppi consiliari e classe politica adeguata ad interpretarne con efficacia la realizzazione nelle autonomie locali.

Registriamo dunque la vittoria del programma debole: come pendant abbiamo il sindaco sbiadito o addirittura ceduto ad altre forze minoritarie. Questo pone problemi non secondari di gestione della linea politica complessiva della Democrazia cristiana nelle autonomie locali. Osserviamo e dissentiamo da una gestione dei risultati delle elzioni 1990 che ha portato a una trasformazione della Dc negli enti locali in un "partito degli assessori" suo malgrado. La gente vota Dc ed il sindaco è socialista. La gente vota partito comunista ed il sindaco è socialista lo stesso. Questo può forse apparire utile in termini di strategia complessiva degli equilibri di potere nei diversi livelli di governo del Paese, ma certamente non aiuta a costruire il rapporto oggi interrotto tra consenso-potere-responsabilità. E quando questi tre termini vanno in corto circuito la democrazia diventa una finzione incomprensibile: gli "arcana imperii" disaffezionano e allontanano la gente dalla politica. Niente di nuovo quindi sotto il cielo dei rapporti fra i partiti nella costituzione delle giunte, eppure c'era un fatto nuovo per la prima volta dopo la promessa scritta nella costituzione della Repubblica Italiana una legge ha riformato l'ordinamento delle autonomie locali.

I contenuti principali della legge e i suoi sviluppi possibili saranno ulteriormente approfonditi (oltre il lavoro che vi hanno dedicato le centinaia di giovani candidati che hanno partecipato alle iniziative di formazione preelettorali) da un progetto di collegamento delle esperienze dei giovani amministratori dc.

In buona sostanza i punti più importanti della riforma sono la riallocazione dei poteri che registra una rivitalizzazione delle Province e una corretta distribuzione di competenze da valutare volta per volta in un rapporto che le Regioni dovranno instaurare con i Comuni e gli Enti intermedi. Saranno in buona sostanza riprese le ragioni di chi sosteneva che è impossibile governare con le stesse regole realtà profondamente diverse per densità demografica, forme di urbanizzazione, concentrazioni industriali, modelli economici e progetti di sviluppo. Ogni comune dovrà regolamentare autonomamente la propria organizzazione interna, potrà creare strutture di partecipazione diretta. I suggerimenti della legge vanno decisamente a favore della partecipazione del cittadino alla costruzione degli atti che lo interessano e alla trasparenza di tutta l'attività della pubblica amministrazione. Si apre sotto questo profilo una fase costituente dove l'inventiva e la capacità creativa dei giovani amministratori verrà messa alla prova, e solo da questo passaggio capiremo se davvero le comunità locali sapranno dare uno stimolo ad una nuova politica che parta in maniera innovativa dalle autonomie locali. L'obiettinvo certamente è quello di differenziare il ruolo politico dal ruolo amministrativo senza pericolose commistioni che favoriscono fenomeni di clientelismo e di utilizzazione arbitraria della macchina pubblica che da troppo tempo contestiamo e siamo impegnati a combattere. Mal'aspetto di maggior enfasi della riforma sul quale si è concentrata l'attenzione dell'opinione pubblica è stata sicuramente posta sui problemi della governabilità. Ricordiamo gli istituti della sfiducia costruttiva, i termini per la costituzione delle giunte, per la nomina dei rappresentanti degli Enti, pena il loro scioglimento o il commissariamento e soprattutto il voto palese e la necessità di un documento programmatico per la scelta del sindaco e della giunta (proposta dal primo cittadino designato) e per l'individuazione chiara della maggioranza. É una legge che ha positivamente accolto una impostazione da democrazia compiuta, da democrazia dell'alternanza in cui c'è una maggioranza che correttamente governa e c'è un'opposizione che correttamente controlla.

Attraverso questa griglia interpretativa va letta la nuova distribuzione dei poteri tra il Consiglio Comunale, al quale spetta deliberare gli atti di indirizzo generale dell'amministrazione locale, la Giunta che invece concretamente interpreta e gestisce quegli indirizzi.

Oggi assistiamo purtroppo al fallimento di questa prospettiva. I veti del Psi, le paure conservatrici di larghi strati del partito e delle forze laiche, le ambiguità del Pci hanno impedito la contestuale approvazione di regole elettorali nuove che garantissero da una parte la governabilità e la solidità della maggioranza di governo degli enti locali ma soprattutto la possibilità che al cittadino sia davvero restituito lo scettro di principe della propria comunità: come diceva Roberto Ruffilli la nuova frontiera delle riforme istituzionali sta nel riportare al cittadino il ruolo che ha completamente perso di arbitro delle vicende della politica. Oggi gli è attribuito il compito di fischiare al massimo il calcio di inizio. A tutto ciò va aggiunta la fine scontata della politica delle alleanze. Le segraterie nazionali dei partiti non riescono ad imporre alcunché (quando lo fanno spesso sbagliano). E tutto ciò in mancanza di regole di trasparenza sulla base della quale i partiti chiedono una delega di governo e non una mera gestione della rappresentanza popolare che raccolgono favorisce ogni più squallido mercatino sulla formazione delle giunte e la gestione dei poteri locali. É il trionfo della politique d' abord. Se questo è vero (per i giovani dc è talmente vero che hanno aderito alla campagna di promozione dei referendum elettorali, unico momento istituzionale della Dc che ha trovato l'unanimità d'opinione su questo tema) allora ci sembra un gravissimo errore sacrificare l'elaborazione di un'idea originale, di un progetto innovativo che parta dalla presenza democratico cristiana nelle autonomie locali, immolare la ricchezza della nostra esperienza al mantenimento di un certo quadro nazionale, frutto dell 'inconmtrarsi di provvisorie e spesso miopi convenienze che la gente non capisce più. Quel che appare chiaro è che la scomposizione delle appartenenze sociali, la fine delle grandi investiture e dei significati di scelte di civiltà che si attribuiscono al voto rendono l'elettorato più libero. In questa situazione nuova (resa ancora più nuova in futuro dalla profonda modificazione in corso nel Pci e dalle concrete possibilità di una sua scissione) la Dc ha l'urgente necessità di rielaborare una propria proposta per far riemergere una propria identità forte. Il dato che emerge con una certa convinzione dai risultati elettorali è che la Dc vince dove ha una proposta che la caratterizza come nuovo partito progressista, popolare e nazionale della società iteliana.

Dovremmo d'ora in poi abituarci agiocare senza rete e senza paura negli scenari di una democrazia compiuta dove vincerà chi avrà più argomenti, migliori quadri dirigenti, più capacità di adeguarsi ai bisogni ed esigenze della società civile.

Gli zerovirgola in più o in meno del 9 maggio sono poca cosa rispetto a questa prospettiva impegnativa.

Direzione nazionale "in trasferta" a Taranto. Quali giovani per quale partito?
Documento sulla riforma elettorale e proposta referendaria

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