Fede cristiana e impegno politico
I1 rapporto tra fede e impegno politico si può considerare da un doppio punto di vista: quello – più teorico – del rapporto tra fede e politica e quello – più pratico – dell'impegno del cattolico nella vita politica. Noi lo tratteremo qui brevemente sotto tutti e due gli aspetti. Per «fede» intendiamo sia l'atto soggettivo con cui una persona, sotto l'impulso della grazia di Dio e illuminato dalla sua luce, compie l'atto di fede («Io credo»), sia il complesso della verità, riguardanti Dio, Gesù Cristo e il disegno di salvezza compiuto da Dio in Cristo, che la Chiesa ha definite e propone all'accettazione del credente («Quello che si crede»). Per «politica» intendiamo quel complesso di concezioni teoriche e di strumenti pratici con cui si intende organizzare la vita della comunità organicamente costituita in Stato in vista del raggiungimento del bene comune, cioè di quelle condizioni sociali, giuridiche, economiche e culturali che consentono alle persone umane, sia singole, sia associate, di potersi liberamente sviluppare secondo tutte le dimensioni della persona: la politica comprende, perciò, sia un aspetto ideologico (l'ideologia politica), sia un aspetto pratico (la ricerca e la gestione del potere politico).
«Monofisismo» e «nestorianesimo» politico
Che rapporto c'è tra fede e politica? Nel mondo cattolico i pareri su questo punto sono divisi. Alcuni confondono troppo fede e politica col pericolo di ridurre la fede alla politica o la politica alla fede («monofisismo» politico). Altri separano troppo fede e politica, col rischio di innalzare tra esse un muro d'incomunicabilità («nestorianesimo» politico).
Il monofisismo politico va direttamente dalla fede alla politica o dalla politica alla fede senza passare per la necessaria mediazione della ragione e della storia: così, o deduce la politica direttamente dalla fede, nel senso che questa dice quale politica in concreto bisogna fare, quali scelte politiche bisogna compiere, in quali modi e con quali mezzi tali scelte devono essere attuate; oppure giustifica una scelta politica con la fede, per esempio, la scelta rivoluzionaria con la dottrina evangelica sui poveri. Nei due casi, tra fede e politica si forma un blocco che non rispetta né la trascendenza della fede rispetto alla politica, né l'autonomia della politica nei riguardi della fede. Questi due atteggiamenti si rifanno a due affermazioni. Da una parte si dice: «Tutto è fede», nel senso che la fede è inglobante e non lascia fuori di sé nulla che ad essa non debba fare riferimento diretto e costitutivo del suo essere e del suo agire: la fede è, dunque, la norma di tutta la realtà che ad essa si deve adeguare. Dall'altra si dice: «Tutto è politica», nel senso che la «politica è tutto», ossia è la dimenzione essenziale dell'esistenza umana, per cui non è la fede che giudica la politica, ma è questa che giudica la fede e dice quali aspetti di essa siano da accettare e quali da respingere. In tal modo, il monofisismo politico si confonde con l'integrismo sia di tipo conservatore, sia di tipo progressista. Le manifestazioni sono molte: sul versante conservatore, la più importante è la negazione del pluralismo politico: dall'unica fede discende un'unica scelta politica, un unico modo di fare politica; sul versante progressista, si può giungere alla negazione della comunione ecclesiale: persone che appartengono a diversi partiti o formazioni politiche non possono, per esempio, partecipare alla stessa Eucarestia.
Il nestorianesimo politico separa nettamente fede e politica. Esso afferma che la fede appartiene alla sfera privata, intima, della coscienza, e non deve quindi intervenire nella politica, che appartiene alla sfera pubblica: perciò, la fede è estranea alla politica e non ha nulla da dire in rapporto ad essa. Di conseguenza, chi professa questo indirizzo si scandalizza quando la Chiesa interviene nella vita politica, ritenendo che essa invada un campo non suo e s'ingerisca in faccende che non la riguardano. Oppure afferma che la fede è un «progetto puro», essenzialmente escatologico, che non può venire a contatto con la politica senza contaminarsi e corrompersi. Perciò, tra il Vangelo e la politica può esserci solo un rapporto di «giudizio»: il Vangelo «giudica» (e condanna) la politica, che per lo più è impura e «sporca», denunciandone il vizio radicale, inerente al fatto che la politica è ricerca ed esercizio del potere. Ora il potere ha sempre un aspetto non – o anti – evangelico, anzi «demoniaco», come dice G. Ritter, che parla del «volto demoniaco del potere» (Die Diimonie der Macht), fondato com'è sulla legge dell'inganno e della forza (la «golpe» e il «liane» di Machiavelli).
Unione tra fede e politica
Che dire di questi due modi di concepire il rapporto tra fede e politica? Ambedue contengono una parte di verità, ma nella sostanza vanno ambedue respinti.
Infatti, tra fede e politica c'è unione (questa è la parte vera del monofisismo), ma non c'è confusione, bensì distinzione. Cioè, tra fede e politica c'è, non estraneità, ma rapporto molto stretto: tale, però, che la fede rispetto alla politica conserva la sua trascendenza e la politica rispetto alla fede conserva la sua autonomia.
L'unione tra fede e politica è dovuta al fatto che il disegno di salvezza che Dio ha sull'uomo e sulla storia umana è unico. Questo punto merita un breve approfondimento. La politica appartiene all'ordine delle realtà temporali e mondane, non, per sé, all'ordine delle realtà eterne e soprannaturali: riguarda, cioè, la società umana temporale in quanto costituita in soggetto politico, la sua strutturazione secondo le norme della giustizia e del diritto, la sua direzione, mediante l'esercizio del potere, verso il raggiungimento del bene comune e temporale dei suoi membri. Così, gli strumenti dei quali la politica si serve appartengono all'ordine delle realtà temporali: la ragione, la prudenza, la competenza culturale, scientifica e tecnica. Anche il fine che la politica persegue – l'attuazione del bene comune – è di ordine temporale. In altre parole, la politica appartiene all'ordine della creazione. Ciò significa che essa è «da Dio»: è un'attività umana voluta da Dio per il bene dell'uomo. Tutto ciò che è creato, infatti, è per il bene dell'uomo, è voluto da Dio per il raggiungimento del fine ultimo dell'uomo. Significa, in secondo luogo, che la politica è una cosa buona, perché tutto ciò che Dio vuole e crea è buono, in quanto è partecipazione del Suo Essere, che è Sapienza e Bontà. Significa, in terzo luogo, che la politica, in quanto realtà creata, ha un proprio essere, una propria struttura, un proprio valore, una propria legge, un proprio modo di essere e di esplicarsi, un proprio fine. La politica appartiene, dunque, all'ordine della creazione; ma tale ordine non è un ordine assolutamente autonomo e chiuso in se stesso: esso, pur godendo d'una sua autonomia, è ordinato all'ordine della redenzione e della grazia e trova in esso il suo fine «ultimo» e il suo compimento «totale». Infatti, nel disegno di Dio sul mondo e sulla storia, quale si è storicamente attuato e si attua (non quale avrebbe potuto essere, dato che non è un ordine necessario, ma voluto gratuitamente da Dio), esiste un solo ordine: quello soprannaturale della redenzione e della grazia. La storia della salvezza è formata da tre tappe; la creazione, la caduta, la redenzione e la grazia; ma la prima passa per la seconda per trovare il suo compimento nella terza. Questo significa che il disegno di Dio sull'uomo e sul mondo – che è un disegno di amore e di salvezza – è unico: esso comincia e si compie in Gesù Cristo. Infatti, la creazione è fatta in Cristo e in vista di Cristo e, dopo la caduta, la redenzione è operata da Dio per mezzo di Cristo. Dio crea mirabilmente e, dopo la caduta, ri-crea più mirabilmente in Cristo: ma si tratta d'un disegno unico, per cui la redenzione riprende la creazione, dandole un nuovo inizio e un fine più alto. La creazione, perciò, è fin dal principio inserita nell'ordine soprannaturale della grazia e ne costituisce, per così dire il preludio. Cioè, la creazione è come avvolta nel mistero di Cristo e quindi nel mistero della grazia. In altre parole, non c'è una creazione puramente naturale a cui, in un secondo tempo, si sovrapponga estrinsecamente e dal di fuori dell'ordine soprannaturale della grazia; ma questo ordine è già presente e attivo nella creazione, anche se mostrerà tutta la sua forza ed efficacia liberante e santificante solo, dopo la caduta dell'uomo e del mondo, nella redenzione.
C'è, dunque, un'intima connessione tra l'ordine della creazione e l'ordine della redenzione, nel senso che il primo è ordinato al secondo e trova in esso il suo fine «ultimo» e il suo compimento «totale». Ma tale connessione non significa che l'ordine della creazione s'identifichi o si confonda con l'ordine della redenzione. Tra i due ordini c'è unione, ma nello stesso tempo distinzione. Cioè, da un lato, l'ordine della creazione, e perciò la politica che ne fa parte, ha una sua autonomia rispetto all'ordine della grazia, e quindi rispetto alla fede, e questa ha una sua trascendenza rispetto alla politica; da l'altro lato, la politica non è «separata» dalla fede.
Cerchiamo di chiarire questi tre punti: autonomia della politica, trascendenza della fede, non-separazione tra fede e politica.
Autonomia della politica
In quanto fa parte della realtà creata, la politica ha una propria consistenza, una propria legge, strumenti propri di pensiero e di azione, un proprio fine. Essa è dunque autonoma dalla fede, nel senso che non è la fede che le conferisce valore, ma essa ha valore per se stessa, è un'attività che è buona e valida per se stessa, in virtù della creazione; nel senso, ancora, che non è la fede che detta legge alla politica, indica quali metodi deve seguire e di quali strumenti si deve servire, perché la po- litica ha una propria legge, propri metodi e propri strumenti; nel senso, infine, che non è la fede che assegna alla politica il suo fine e il modo di perseguirlo, ma è la politica che ha il proprio fine che gli viene dalla sua natura. Ciò significa che la politica è autonoma dall'ordine soprannaturale e quindi dalla Chiesa, in quanto questa è l'espressione visibile e concreta di tale ordine: in altre parole, l'ordine politico è autonomo dall'ordine religioso, non dipende da esso, non è al suo servizio né si serve di esso. In concreto, la politica non può essere messa a servizio della fede né la fede a servizio della politica: da una parte, cioè il fine della politica non può essere la salvezza eterna degli uomini né la propagazione della fede, né la difesa e la promozione degli interessi della Chiesa, bensì è la promozione del bene comune; dall'altra, la fede non può esser usata o sfruttata a fini politici o servire da intrumentum regni, per rafforzare o giustificare il potere politico o la politica di uno Stato o di un regime.
È chiaro, però, che l'autonomia della politica non è assoluta, ma relativa: essa, cioè, è autonoma dalla fede e dalla Chiesa, ma non è autonoma da Dio e dalla legge morale. Infatti, la politica, in quanto appartiene ali'ordine. della creazione, è da Dio: quindi, dipende da Lui e dall'ordine morale che Egli fonda.
La fede trascende la politica
Ma se la politica è autonoma rispetto alla fede, la fede trascende la politica: mentre, infatti, la politica si pone sul piano della realtà naturale, penultima e passeggera, la fede si pone su quello della realtà soprannatuale, ultima e definitiva. La fede trascende la politica sul piano soggettivo: in quanto è atto di fede («Io credo»), essa è l'adesione personale a Dio-Trinità in Cristo e comporta il dono totale e assoluto di sè a Cristo. La politica, invece, non comporta mai un «io credo» (se no, diventa «fede» e quindi idolatria) e non può mai esigere il dono totale e assoluto di sé, perché i valori politici non possono mai divenire valori assoluti, ma restano sempre subordinati a valori più alti. La fede, poi, trascende la politica sul piano oggettivo: in quanto autocomunicazione di Dio, Verità assoluta e Salvezza eterna, la fede è la Verità e la Salvezza. Invece, la politica e i suoi organi – lo Stato, il Partito – non possono mai presumere di essere la Verità e, soprattutto, non possono proclamarsi portatori di Salvezza. Questo è avvenuto col marxismo leninista – che ha fatto del partito l'organo della Verità assoluta e del marxismo una dottrina di Salvezza escatologica, sia pure secolare; ma sappiano a quali tragiche conseguenze ciò ha portato.
In secondo luogo, la trascendenza della fede sulla politica comporta che questa non sia direttamente deducibile dalla fede, nel senso che possa essere questa a dire quali scelte politiche concrete bisogna fare; nel senso, soprattutto, che ad un'unica fede possa rispondere un'unica opzione politica. La politica, infatti, situandosi sul piano delle realtà naturali, è opera della ragione: d'una ragione, certo, illuminata dalla fede e da essa orientata, in quanto fonte di valori assoluti, ma non diretta dalla fede. Questa, cioè, non può dettare una data politica, ma solo orientare la ragione e la prudenza umana a compiere quelle scelte che, secondo la visione dell'uomo che dà la fede, sono migliori Qer la vita e lo sviluppo delle persone. E evidente, allora, che, se da un'unica fede non deriva un'unica opzione politica, è possibile, tra cristiani che condividono la stessa fede, una pluralità di opzioni e di scelte politiche, anche se si deve riconoscere che non tutte le scelte politiche sono compatibili con la fede e la morale cristiana.
In terzo luogo, la trascendenza della fede sulla politica significa che ci sono nell'uomo ideali ed esigenze che la politica non può né compiere né soddisfare e che perciò la politica non può essere «tutto», non può rappresentare per un uomo il fine supremo della sua vita, l'ideale a cui tutto sacrificare. Solo Dio è l'Assoluto e quindi solo Lui può essere il fine ultimo e costiuire il senso pieno della vita. In tal modo, la politica viene desacralizzata: essa non solo non può divenire un assoluto, ma è incapace di realizzare il regno di Dio e quindi la salvezza totale dell'uomo. Perciò, nessun progetto politico, per quanto alto e perfetto possa essere, non può mai realizzare il progetto di salvezza che Dio ha compiuto in Gesù Cristo, né può portare agli uomini i beni che sono propri del regno escatologico di Dio, quali la fraternità, l'amore, la felicità, la pace. Questi possono essere donati solo da Dio, non conquistati dall'uomo con la politica, anche se lo sforzo di questa deve tendere a realizzarli, sia pure in piccola misura e in forma estremamente fragile, come anticipazioni e prefigurazione storica del Regno escatologico di Dio.
Non-separazione tra fede e politica
Ma se la politica è autonoma dalla fede e·questa trascende la politica, non c'è separazione tra fede e politica, quasi che esse corrano su due linee parallele senza mai incontrarsi. In realtà, l'incontro avviene in due sensi: da un lato, la fede ha bisogno di tradursi nella politica; dall'altro, la politica ha bisogno di trarre ispirazione dalla fede. Infatti, la fede, se è autentica, deve tradursi nelle «opere» a favore dei fratelli, perché senza le opere la fede è morta. Tra queste opere si deve annoverare la politica come lo strumento privilegiato per procurare a tutti il necessario con giustizia e carità. Per tale motivo, la Chiesa – dice la Gaudium et spes (n. 75) – «stima degna di lode e di considerazione coloro che per servire gli uomini si dedicano al bene della comunità politica e assumono il peso delle relative responsabilità». D'altra parte, la politica ha bisogno della fede per orientare correttamente la sua azione e superare le difficoltà e i rischi che essa comporta, In realtà, la fede dà alla politica «luce e forza», che possono contribuire a costruire e consolidare la comunità degli uomini secondo la legge di Dio (Gaudium et spes, n. 42); legge di Dio che, possiamo aggiungere, è la legge stessa dell'uomo e della società, seguendo la quale uomo e società fanno il proprio bene. La «luce» che la fede dà alla politica consiste nel fatto che la fede permette di conoscere meglio l'uomo nella sua natura di essere spirituale, creato a immagine di Dio, nei suoi diritti inalienabili e nella sua dignità di persona, che non può essere asservita allo Stato, al potere, al danaro, alla razionalità tecnologica: la fede, dunque, non dà alla politica né un'ideologia politica né un programma politico, ma un'illuminazione, che può orientare sia l'ideologia sia il programma. La «forza» che la fede fornisce alla politica è la grazia: essa aiuta l'uomo politico a superare le seduzioni e le tentazioni inerenti alla vita politica, a comportarsi onestamente e, soprattutto a vivere la politica con «stile» evangelico e con spirito di «carità politica», in modo che essa possa diventare per il cristiano fonte e via di santità.
Il cristiano nella vita politica
Siamo introdotti, così, nella seconda parte del nostro discorso: «Il cristiano nella vita politica». Rileviamo, anzitutto, che la Chiesa incoraggia coloro che si sentono chiamati alla vita politica: «Coloro che sono o possono diventare idonei per l'esercizio dell'arte politica, così difficile, ma insieme così nobile, si preparino e si preoccupino di esercitarla senza badare al proprio interesse e al vantaggio materiale. Agiscano con integrità e saggezza contro l'ingiustizia e l'oppressione; si prodighino con sincerità ed equità al servizio di tutti, anzi con l'amore e la fortezza richiesti dalla vita politica» (Gaudium et spes, n. 75). Rileviamo, in secondo luogo, che i cristiani, sia singoli sia associati in un partito (che è sempre «un partito di cristiani»), agiscono in politica non come mandatari e rappresentanti della comunità cristiana a cui appartengono, ma in nome proprio, in virtù della propria vocazione cristiana alla vita politica e sotto la propria personale responsabilità. Perciò, in quello che compiono impegnano direttamente solo se stessi, non la Chiesa. Il loro mandato politico non è un mandato ecclesiale, ma è un mandato sociale, di cui devono rispondere ai propri elettori (e prima di tutto, si capisce, alla propria coscienza di cristiani e di cittadini).
Ora, che cosa si propone il cristiano nella sua attività politica? Non si propone un fine religioso e soprannaturale, ma un fine terrestre e temporale. Non si propone, cioè, l'evangelizzazione e la salvezza delle anime, e quindi di favorire l'opera della Chiesa, ma ha come scopo diretto e immediato la costruzione di uno Stato e di una società, in cui a tutti i cittadini siano assicurati il rispetto della loro dignità di persone umane, il godimento dei loro diritti inalienabili, la libertà in tutte le sue forme ed espressioni, la giustizia distributiva, il lavoro per tutti, la preferenza data ai più deboli socialmente ed economicamente. In altre parole, il cristiano politico non si propone la creazione d'uno Stato e d'una Società «cristiana», ma d'uno Stato e d'una società «umani»: non ha lo scopo di costruire la «città di Dio» bensì quello di costruire la «città dell'uomo». Certamente, in uno Stato e in una società «umani», la Chiesa e le associazioni di apostolato potranno meglio svolgere la loro di annunzio del Vangelo e di santificazione delle anime. Perciò, il politico cristiano, pur non facendo direttamente opera religiosa e apostolica, col suo sforzo di creare una società più libera e più giusta, lavora indirettamente per il Regno di Dio, assicurando alcune condizioni necessarie perché la Chiesa possa meglio compiere la sua missione e i cristiani possano meglio vivere la propria fede.
Il politico cristiano ha dunque il campito di costruire la città dell'uomo. Ma di quale «uomo» si tratta? È a questo punto che interviene la fede, per dare all'attività politica del cristiano la sua specificità. Infatti, l' «uomo» che il cristiano intende servire è l'uomo della rivelazione cristiana: è l'uomo creato ad immagine di Dio, destinato alla visione eterna di Dio; è l'uomo figlio di Dio e redento da Cristo; è l'uomo nella sua dignità incomparabile di persona umana, cioè di essere intelligente, libero, responsabile, che è fine a se stesso e mai può essere usato come mezzo per fini superiori; è l'uomo che ha diritti inalienabili che non gli vengono dello Stato, ma da questo devono riconosciuti, rispettati e promossi; è l'uomo che nasce e vive in una famiglia; è l'uomo che ha esigenze non solo fisiche e materiali, ma anche – e soprattutto – esigenze spirituali, culturali, morali e religiose, la cui soddisfazione è talmente importante che, senza di esse, l'uomo è privato della parte migliore e più alta della sua umanità. Compito del politico cristiano è, dunque, quello di costruire una città che realizzi e traduca nella politica l'idea che egli, come cristiano, ha dell'uomo, della sua natura e del suo destino.
Egli dovrà agire «da cristiano» nel fare politica, non nel senso di fare opera di apostolato o di favorire indebitamente la Chiesa e le sue opere, ma nel senso d'impegnarsi per la costruzione d'uno Stato e d'una società che riconoscano l'uomo per quello che egli è secondo la visione cristiana e quindi lo aiutino a svilupparsi sempre più perfettamente come essere intelligente e libero, cosciente e responsabile, corporeo e spirituale, sociale e culturale, morale e religioso.
Tale Stato sarà caratterizzato dalla democrazia come sua forma istituzionale, dal riconoscimento della persona umana come fonte di diritti inalienabili, dalla particolare protezione e promozione accordata alla famiglia, dalla solidarietà tra i gruppi sociali, dalla giustizia, dalla libertà nelle sue varie forme, compresa la libertà di educazione e di scuola e la libertà di seguire la propria coscienza in campo morale e religioso.
Nell'agire politico del cristiano la fede interviene in una seconda maniera: nel modo di attuare il suo impegno politico.
Se, infatti, l'oggetto di tale impegno è «umano», anche se ispirato dalla visione cristiana dell'uomo, il modo di attuarlo deve essere «cristiano».
La fede, cioè, indica al cristiano lo «stile» di fare politica.
Uno stile di fare politica
Se dunque non c'è una «politica cristiana», c'è uno «stile cristiano» di fare politica, che si fonda sul Vangelo. Tale «stile», in senso negativo, proibisce certi modi di fare politica: proibisce, cioè, il ricorso a comportamenti immorali e disonesti (ricorso alla menzogna, alla slealtà, alla calunnia); proibisce l'uso del pubblico danaro per arricchirsi e per crearsi clientele; proibisce l'uso di mezzi disonesti per raggiungere e mantenere il potere: l'onestà non è specificamente cristiana, ma è la condizione necessaria per essere e presentarsi in maniera credibile e seria come politico cristiano.
Per un politico cristiano la «questione morale» precede ogni altra questione.
In senso positivo, lo «stile cristiano» di fare politica impone al cristiano che s'impegna nella vita politica comportamenti specificamente evangelici: in primo luogo, la ricerca del regno di Dio, cioè la promozione dei valori del regno di Dio, quali sono la giustizia, la solidarietà, la fraternità, la pace; in secondo luogo, il distacco dal denaro e un tenore di vita semplice e modesto quale è raccomandato dal Vangelo; l'uso del potere come servizio della comunità e non come «dominio»; infine, la scelta preferenziale dei poveri e degli ultimi.
In conclusione, è con la loro visione cristiana dell'uomo e con il loro stile politico cristiano che i politici cristiani agiranno nella società politica «a modo di fermento» e saranno testimoni di Gesù Cristo e della «forza politica» del Vangelo, cioè della sua capacità di contribuire a costruire una vera società «umana» che porta l'impronta dello spirito del Vangelo.

















































