Shalom Palestina!
L' interrogativo più interessante che gli osservatori della realtà internazionale si stanno ponendo di fronte all'evolversi degli avvenimenti nello scacchiere meridionale consiste nell'individuare se «l'equazione palestinese» appartenga ai problemi politici con soluzione possibile, con soluzione impossibile o indeterminata. Non credo che ci sia bisogno di ricordare i fatti che hanno dominato le cronache del mese di dicembre e di gennaio: anzi, una prima caratteristica delle ultime vicende è consistita proprio nel fondamentale ruolo che i mezzi di comunicazione di massa hanno assunto nel promuovere il dramma della condizione palestinese e la durezza della repressione israeliana nei campi profughi di Cisgiordania e Gaza al primo posto dell'agenda politica internazionale.
Accantonata per un attimo, ma né superata né tantomeno dimenticata, la guerra delle fazioni in Libano, è la Palestina che si ripropone oggi con alcune connotazioni nuove che rendono forse utile svolgere a voce alta alcune riflessioni:
1. per la prima volta, la comunità internazionale ha trovato una difficile unità nell'invocare, vuoi al Consiglio di Sicurezza vuoi nell'ambito della CEE, la soluzione pacifica quale unica soluzione possibile ai problemi dell'area; la medesima «shuttle diplomacy» che sta conducendo Hosmi Mubarak, leader dell'Egitto, per promuovere la sospirata Conferenza Internazionale di Pace riaccredita una distinzione, tanto in voga anni fa e poi caduta negli ultimi mesi, tra Stati arabi moderati ed estremisti;
2. la leadership palestinese dell'OLP conosce oggi un momento di transizione delicatissimo e decisivo. Ricompattata nell'ultimo Consiglio Nazionale Palestinese a costo di pagare un nuovo pesante prezzo dell'ambiguità politica, con la riunificazione delle fazioni estremiste che hanno così sciolto il cosiddetto Fronte della Salvezza Nazionale e l'abbraccio plateale con gli emissari di Gheddafi, l'Olp di Yasser Arafat si è trovato a fronteggiare una rivolta spontanea e non armata che alcuni interpretano anche come reazione ad una leadership sostanzialmente inattiva nelle zone occupate della Palestina quanto battagliera nei campi profughi di Libano. Ci si chiede se il carattere pacifico delle rivolte, che – si ricordi – non hanno causato alcuna vittima nell'esercito israeliano, dipenda dalla scelta di un nuovo metodo di lotta o se invece sia giustificabile solamente con i minori contatti che Al Fatah avrebbe nei grandi campi di Gerusalemme, Ramallah e Gaza e quindi con l'impossibilità di inviare armi ai rivoltosi. Sicuramente oggi l'OLP sta cercando di riaccreditare la propria leadership nei campi, ma questo non riesce comunque a conciliare le posizioni dei portavoce della rivolta con quelle crescenti dei gruppi fondamentalisti della Jihad islamica esistenti a Gaza ed in Libano che perseverano nelle proprie affermazioni di volontà di distruzione dello Stato di Israele e che dicono di tollerare a stento la sola presenza di un futuro Stato palestinese degli ebrei residenti prima del 1948. Un bel rebus dunque anche per Yasser Arafat che è chiamato oggi a dare un segnale che dimostri la propria forza nell'organizzazione ed una inequivocabile volontà di negoziare sulla base del mutuo riconoscimento dei due popoli che da decenni combattono nella regione.
3. il crescente sdegno della comunità internazionale e dei coprifuoco sta nuovamente, dopo qualche anno, mobilitando la società civile israeliana nei confronti di quella politica. La riorganizzazione di Peace Now, del RAZ (Citizen Rights Movement) e alcuni gesti spettacolari quali le dimissioni del deputato arabo Darousha dal Partito Laburista e i processi di espulsione contro 3 membri del Likud rei di essere troppo «morbidi» rivelano tutti i limiti dell'impossibile convivenza tra Laburisti e Likud nella coalizione di governo. Quest'anno in Israele si torna a votare e sono molti quelli che temono una radicalizzazione delle posizioni tra estremi opposti: un'occasione questa per spingere invece la classe politica israeliana a dare un colpo d'ala alla propria strategia al fine di avviare rapidamente un negoziato che svuoti il contrasto tra posizioni irragionevoli;
4. il dibattito sugli esiti di un auspicato processo negoziale sta finalmente uscendo dalle necessarie ma generiche indicazioni della sola Conferenza Internazionale e sta riportando alla luce la necessità di soluzioni differenziate per Gaza, la Cisgiordania e Gerusalemme est. Sono in molti quelli che affermano l'impossibilità di creare uno Stato palestinese spezzato in due territori (Cisgiordania e Gaza appunto) sulla scorta del vecchio progetto delle Nazioni Unite del 1947 per evidenti motivi di difficoltà logistica ed anche di impatto psicologico, mentre si fa strada il suggerimento di «internazionalizzare» la striscia di Gaza (alla quale si ricordi nemmeno l'Egitto di Sadat teneva più di tanto) e di prospettare una soluzione palestinese per la Cisgiordania. Su Gerusalemme, «capitale eterna» per Israele, e capitale spirituale per altre due religioni, il problema è certamente più complesso. Non credo che quanto detto autorizzi a pensare che l'equazione palestinese è del tipo «impossibile»; sicuramente le soluzioni sono ancora molte, ma cresce di giorno in giorno la consapevolezza (una volta affermata in mala fede da tutti, comunità internazionale, Stati arabi, palestinese ed ebrei ma smentita nei comportamenti) che lo stallo non è più economicamente e politicamente conveniente per nessuno. Le ragioni della forza devono cedere il passo alla forza della ragione.








