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Nuova Politica - La pace di Abramo
L'offensiva terroristica che ha insanguinato Karachi, Istanbul e Parigi ha dimostrato una volta di più che la questione mediorientale non è risolvibile con le sole cannoniere e la sola pazienza. Le aperture di Arafat di per sé non risolvono la questione, e neanche i vertici tra Peres, Hassan del Marocco e Mobarak. Ma può essere sempre un inizio.

Sono bastate 48 ore per distruggere quella che sembrava una moratoria sul terrorismo internazionale proclamata dalle maggiori centrali terroristiche e da alcune capitali all'indomani del bombardamento da parte dell'azione degli Stati Uniti su Tripoli e Bengasi.

Il 4 settembre al vertice del Movimento dei Non Allineati, Yasser Arafat, sempre più isolato dal fronte dei paesi arabi moderati e sempre più nel mirino degli estremisti, compie quella che potrebbe anche essere una svolta storica per la soluzione della questione meridionale. In poche parole quello che il presidente della Organizzazione per la Liberazione della Palestina (ma sarebbe più preciso definirlo presidente unicamente di Al-Fatah) afferma che è pronto a riconoscere la risoluzione 338 delle Nazioni Unite, che implicitamente riconosce il diritto dello Stato di Israele ad esistere.

Il condizionale resta d'obbligo se si vuole parlare di svolta. Non è la prima volta che Arafat rilascia dichiarazioni simili, in maniera tale da potersele rimangiare più tardi (ultimo esempio: una dichiarazione scritta firmata nel 1983 e consegnata ad un deputato americano). Poi ad essere citata nel discorso di Arafat è stata solo la risoluzione 338. Neanche una parola invece sulla 242, simile nel senso ma non nella forma e pertanto equivalente ad una porta sempre aperta per la ritrattazione dell'ultima ora.

Infine, particolare non trascurabile, il fatto che lo stesso statuto dell'organizzazione di cui Arafat è presidente da più di 20 anni esclude qualsiasi possibilità di soluzione della questione palestinese che non sia la distruzione di Israele. Subito dopo (una ventina di ore, per l'esattezza) un gruppo di terroristi palestinesi a scanso d'equivoci, sequestra, sulla pista dell'aeroporto di Karachi, un boeing della Pan Am. Alla fine i morti sono 18. Il giorno dopo, e siamo al 6 settembre, un commando suicida penetra nella sinagoga di Istanbul, dove vive la maggiore colonia di ebrei nel medioriente. E sabato, e dentro si trovano 23 fedeli. Vengono tutti uccisi a colpi di mitragliatrice dall'esplosione di una bomba a mano. I due terroristi cospargono i loro corpi a brandelli di kerosene e vi appiccano il fuoco. Quindi si tolgono la vita con una seconda bomba a mano.

"La storia dimostrerà che l'America è in grado di chiudere in attivo il bilancio in favore della pace e della sicurezza", aveva commentato qualche giorno prima il segretario di stato degli USA, George Shultz.

È difficile crederci, alla luce di quanto è successo. Nessuna amministrazione americana si è dimostrata finora capace di ottenere i risultati nella lotta al terrorismo che gli americani desiderano. Lo stesso vale per i governi occidentali e le rispettive opinioni pubbliche.

Pochi mesi di pace avevano creato l'illusione che i terroristi e gli stati che vi sono dietro (Siria, Libia, Iran ed indirettamente l'Unione Sovietica), avessero inteso che fosse giunto il momento di farla finita. Il vertice di Ifrane tra Hassan II del Marocco e Shimon Peres, il vertice tra lo stesso Peres ed Hosmi Mubarak, le tracce di un primo disgelo tra Israele ed Unione Sovietica, sono bastati per provocare una nuova ondata di attentati.

A voler dare un giudizio su tutto ciò si dovrebbe concludere che l'autorità del mondo occidentale in medioriente è troppo poca per avere un ruolo di primo piano nella distensione e troppa per evitare i colpi dei terroristi. Le cause sono tante. Da un malinteso senso di protezione nei confronti delle libertà di pensiero altrui in qualche caso, ad una politica estera troppo soffice in altri, alla mancanza di una qualsiasi politica coerente in altri ancora.

Il terrorismo lo si può combattere in tanti modi. Con le cannoniere, e può anche andare bene nel breve periodo ma non nel lungo. Con la dissuasione, ma i tempi necessari sono estremamente lunghi. Con una maggiore cooperazione internazionale (è sperabile, ha scritto a riguardo il "Times", che la Francia abbia imparato la lezione dopo gli attentati di questi giorni).

Non è possibile indicare una unica ricetta miracolosa per giungere alla fine della guerra latente nel Mediterraneo. I risultati di una recente indagine sociologica condotta da una studiosa americana in tutto il mondo su 500 terroristi ancora uccel di bosco hanno dimostrato che si imbocca la strada del terrorismo fin dalla più tenera età.

Uno dei particolari più preoccupanti con cui si conclude la ricerca è che tra nuove leve dei feddayn palestinesi si preparano già ad entrare i bambini scampati ai massacri dei campi profughi di Sabra e Chatila di Beirut, avvenuti nel 1982. Molti di loro sono stati segnati indelebilmente da quella orribile esperienza che han vissuto a 7-8 anni di età.

Ben presto saranno nelle liste dei ricercati dalle polizie di tutto il mondo. Non sappiamo quale sia stato il motivo che ha spinto i miliziani dell'esercito del Libano del Sud, la milizia paramilitare filoisraeliana che ha compiuto i massacri di Sabra e Chatila, ad uccidere 3.000 inermi in quei campi profughi di Beirut.

Sappiamo però che tra pochi anni alcuni sedicenni giungeranno da quei campi per gettare le loro bombe sugli uffici delle compagnie aeree di via Bissolati a Roma o contro i tavolini di via Veneto o nelle sinagoghe e negli aerei.

E che dopo di loro ne giungeranno altri, fino a quando a regnare nella regione non sarà la pace degli eserciti, ma la pace di Abramo. Quella stessa pace che Giorgio La Pira portava a Ben Gurion, e che Anwar El-Sadat portava a Mennachem Begin.

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