Il labirinto Mediorientale
Riprendo, ad oltre un anno di distanza, il discorso a suo tempo iniziato sulla situazione nel Medio Oriente (cfr. il n°2/1986 di «Nuova Politica»: «II punto sulla situazione medio-orientale»), sempre con l'intento di riepilogare brevemente la miriade di avvenimenti che si succedono, con ritmo frenetico, in quell'area geo-politica. Anche in questo caso, terrò distinta, per comodità di esposizione, la situazione libanese da quella palestinese ed inter-araba in generale.
La questione libanese
Riassumendo sinteticamente, avevo cercato nel precedente articolo, di individuare la cause di fondo della guerra civile libanese, il ruolo destabilizzante svolto in essa da Siria ed Israele, nonchè la difficile posizione di quell'elemento esogeno, che è rappresentato dalle migliaia di profughi palestinesi, residenti soprattutto nei campi situati alla periferia-sud di Beirut (Sabra, Chatila, Burj el Barajne).
In Libano, il 1985 aveva visto il ritiro dell'esercito israeliano (che vi era entrato nel 1982 per l'operazione «Pace in Galilea»), il riaccendersi della guerra civile per l'occupazione delle posizioni lasciate libere, le definitiva divisione di Beirut in una zona Ovest (musulmana) ed in una zona Est (cristiana), l'accentuarsi dei caratteri di «guerra di tutti contro tutti» che erano latenti fin dall'inizio nella conflittualità interna libanese, l'entrata prepotente sulla scena dell'estremismo islamico sciita e sunnita (in particolare, l'organizzazione della Jihad islamica), e infine il fallimento totale di un tentativo siriano di pacificazione generale, basato sulla emarginazione dei cristiano-maroniti fedeli a Gemayel a favore di una frangia cristiana filo-siriana guidata da Hekie Hobeika.
Il 1986 e la prima parte del 1987 hanno visto l'accentuarsi, a volte spettacolare di questi elementi, fino a che non si è giunti ad una sorta di forzata quiescienza sotto il controllo militare siriano.
Ma procediamo con ordine.
La guerra delle fazioni: il 1986
Per i primi mesi del 1986, dopo la guerra fratricida tra fazioni cristiane avvenuta in gennaio (e conclusa con la vittoria di A. Gemayel e S. Gaegea contro H. Hobeika), sembra instaurarsi una situazione di relativa «calma». Ovviamente, il concetto di «calma» è solo un «eufemismo» per un paese in cui il 70% della popolazione gira armato, mettendo la mano alla fondina, per risolvere ogni tipo di problema. Anche in questi primi mesi del 1986, bisogna dunque mettere nel conto l'uccisione di un ostaggio francese – Michel Seurat – da parte della Jihad islamica (uccisione avvenuta il 1O marzo 1986, dopo circa un anno di prigionia), l'esplosione periodica delle tristemente note autobombe, soprattutto nel settore cristiano (particolarmente gravi quelle del 26 marzo e dell'8 aprile: in tutto circa 40 morti), e alcune incursioni aeree israeliane di «routine» per impedire la riorganizzazione delle basi dei feddayin nel Libano meridionale; anche, drusi, e sunnuti, 1'8 aprile 1986, riescono a fare 15 morti in uno scontro armato, nato per rivalità di clan.
Verso la fine di maggio, dopo una serie di provocazioni reciproche, si riaccendono improvvisamente gli scontri tra fazioni avversarie.
Sul fronte, «classico», ma non più principale, della guerra tra cristiani e musulmani, in una battaglia lungo la «linea verde» (che separa le 2 zone di Beirut), si contano iq una sola giornata (il 22 maggio) oltre 50 morti.
Dopo due soli giorni (il 24 maggio 1986), esplode violentissima sul fronte che divide sciiti e palestinesi la 2ª «guerra dei campi» (la prima risaliva esattamente ad un anno prima). Ancora una volta, il Fronte di Salvezza Nazionale (l'insieme delle fazioni dell'OLP contrarie ad Arafat, formatosi a Damasco il 25 marzo 1985) interviene a favore dei propri connazionali, nonostante che i campi di Beirut siano notoraimente una raccaforte fedele ad Arafat. Durante la 23 guerra dei campi, durata nel complesso un paio di settimane, appare però chiaro che contro l'elemento emergente della situazione libanese, il movimento sciita di «Amal», tendono a coagularsi le altre forze del campo musulmano, i drusi di Jumblatt e le truppe armate dei sunniti (Il Movimento del 6 febbraio»), che infliggono all'avversario pesanti perdite in alcuni scontri armati. Restano per ora in disparte gli «hezbollah» movimento estremista sciita agli ordini dello sceicco Fadlallah. Durante gli scontri, alcune organizzazioni della Jihad islamica trovano anche il tempo di scatenare, a Beirut Ovest, una «caccia agli armeni» (una delle più piccole comunità libanesi), uccidendone una decina «in quanto cristiani».
L'estate del 1986 è caratterizzata, da un lato, da una serie impressionante di esplosioni (solo tra il 28 ed il 29 luglio, Beirut est e Beirut Ovest si scambiano due autobombe da 40 morti ciascuna; la cosa si ripete tra il 5 e 1'8 agosto), e, dall'altro, da un nuovo scontro interno alle milizie cristiane, con la ribadita superiorità di A. Gemayel e di S. Gaegea nei confronti delle componenti filo-siriane (questa volta guidate da certo Abu Nader, alleato e parente di H. Hobeika).
La situazione si aggrava decisamente a partire dal mese di ottobre, con la ripresa degli scontri tra feddayin e sciiti nel Libano-Sud, nei pressi di Sidone. L'inizio delle ostilità va fatto risalire questa volta ad un colpo di mano dei palestinesi, che si impadroniscono di una riccaforte sciita, la collina di Mag dushi, da cui è possibile controllare le vie di comunicazione fra Tiro e Sidone. Durante i combattimenti tra sciiti e feddayin, gli Israeliani non disdegnano ovviamente incursioni aree sulla zona, bombardando senza complimenti ambo le parti in causa.
Gli scontri si estendono dopo un mese anche alla zona di Beirut, dove il l0 dicembre 1986 scoppia la 3a sanguinosa «guerra dei campi»: gli sciiti iniziano infatti un assedio impenetrabile ai campi della periferia sud di Beirut, subordinando il prorpio ritiro alla resa dei palestinesi a Magdushi. La situazione andrà avanti per mesi, fino a ridurre la popolazione palestinese in condizioni di paurosa denutrizione e a sollevare la reazione dell'opinione pubblica internazionale, che condurrà nel febbraio 1987 ad un intervento umanitario dell'ONU di qualche effetto.
A Tripoli, anche l'organizzazione fondamentalista «Tahweed», sunnita, vicina ad Arafat, ingaggia durissimi scontri contro un presidio militare della Siria, notoriamente vicina agli sciiti nonchè nemica del leader di Al Fatah.
1987: verso la soglia di non-ritorno
Con il 1987, il Libano piomba comunque in una situazione di caos completo.
Nel caleidoscopio delle alleanze, i falangisti cristiani – per fomentare le tensioni nel campo musulmano – stringono un «patto scellerato» con i palestinesi in funzione antisciita ed antisiriana, mettendo a loro disposizione il proprio porto di Junieh per rientrare in forze nel Libano: l'imprevedibile scomporsi di interessi rimette insieme anche i massacratori e le vittime di Tali el Zaatar e di Sabra e Chatila! Tutto ciò andrà avanti, fino a quando, il 7 gennaio, Israele imporrà un blocco navale al porto di Junieh richiamando all'ordine i propri alleati falangisti.
Nel mese di gennaio, gli estremisti sciiti hezbollah e il gruppo della Jihad islamica danno vita ad una serie frenetica di rapimenti, specie di cittadini americani ed europei residenti in Libano: tra i Paesi più colpiti anche la Germania, i cui cittadini vengono sequestrati per ricattare il governo di Bonn, dopo l'arresto a Francoforte di Muhammad Ali Hamadi, terrorista sciita e sospetto dirottatore del Jet della TWA nel giugno del 1985. Con il seguestro dell'inviato della chiesa anglicana Terry Waite (26 gennaio 1987), recatosi in Libano sotto la «protezione» del leader druso Jumblatt proprio per negoziare il rilascio di alcuni ostaggi, i rapimenti diventano ventisei.
Alla fine di gennaio, gli Stati Uniti iniziano manovre navali al largo delle coste libanesi, lasciando intendere che la situazione non può andare avanti ancora per molto, ma le trattative per la liberazione degli ostaggi non daranno alcun esito.
Nel febbraio, nel piano della 3a guerra dei campi, i drusi di Jumblatt (con a fianco sunniti e partito comunista libanese) intervengono decisamente contro gli sciiti di «Amai», dando vita ad una nuova «guerra degli alleati», in cui gli sciiti, impiegati su troppi fronti, risultano presto soccombenti.
A questo punto, la situazione del Libano, e di Beirut Ovest in particolare, è così frantumata e le condizioni della popolazione civile così disperate, che gli stessi leaders musulmani (Jumblatt escluso) invocano un intervento pacificatore esterno.
Il 22 febbraio 1987, l'85a Brigata dell'esercito siriano (4000 uomini), agli ordini del generale Kaanan, entra senza spargimento di sangue a Beirut imponendovi il prorpio controllo militare. La «pax siriana» resta circoscritta territorialmente alla parte musulmana della capitale – salvo una sparuta presenza militare a Sidone, a Tripoli ed a Baalbek – e, nell'ottica della Siria, ha certamente lo scopo di raffotzare politicamente il ruolo di Assad come «protettore» del Libano ed interlocutore necesario di tutte le parti in causa: in questo modo, il Presidente siriano pone le basi per un progressivo ritorno del territorio libanese all'interno dei confini della «Grande Siria» d ll'inizio del secolo. Israele non sembra disturbato più di tanto dall'allungarsi delle mani siriane sulla parte settentrionale del Libano, pago del riconoscimento «di fatto» che ottiene al proprio ruolo di controllore unico della sicurezza della frontiera meridionale del Libano, sulla quale i «raids aerei» contro i focolai di resistenza palestinese e sciita non si contano neanche più per tutto il 1987 (tra i più violenti, quelli del 12 marzo, del 1° e del 6 maggio, e soprattutto del 5 settembre sui campi profughi vicino a Sidone). Né va dimenticata una incursione navale israeliana il 27 luglio oltre la fascia di sicurezza del Libano Sud, i cui confini sono rappresentati dallo Stato-fantoccio filo israeliano «governato» dal generale falangista Lahad (succedutonel 1984 al «famigerato» Maggior Haddad,
L'autore materiale della strage di Sabra e Chatila). D'altronde, non va dimenticato che gli Israeliani contano molto sul fatto che i profughi palestinesi, ospiti «controllati» dei paesi arabi confinanti, e soprattutto del Libano, finiscano col tempo per essere etnicamente assorbiti, dimenticando le proprio velleità di ritorno in Palestina: e non è un mistero che i Siriani non nutrano particolari tenerezze per l'autonomia politica ed amministrativa dei Palestinesi che si trovano sotto il loro dominio.
La «pax siriana», comunque, non può ancora essere considerata una operazione difinitivamente riuscita.
Non che i siriani non facciano tremendamente sul serio! Appena arrivati a Beirut Ovest, essi hanno ordinato a tutti i residenti di tagliarsi la barba, per facilitare il proprio riconoscimento da parte delle truppe di occupazione. Due giorni dopo (24 febbraio 1987), i soldati di Assad, che hanno l'ordine di sparare a vista su chiunque giri armato nella città, compiono un'autentica carneficina, massacrando 20 hezbollah, che si rifiutavano di abbandonare un proprio fortilizio nel centro di Beirut. In poco tempo, Beirut-Ovest torna ad essere una città decentemente vivibile dal punto di vista dell'ordine pubblico, a paragone del clima dei mesi precedenti.
L'esercito siriano riesce lentamente a smorzare l'assedio degli sciiti ai campi palestinesi di Beirut-Sud (iniziatosi, come dicevamo, il 1° dicembre 1986), ed il 7 aprile 1987, i militari di Assad acquisiscono il pieno controllo del campo di Chatila per «assicurare l'incolumità dei Palestinesi».
Il 18 di giugno 1987, Assad sigilla ulteriormente il proprio ruolo di arbitri della situazione libanese (almeno nel campo musulmano) convocando a Damasco Nabih Berrih e Walid Jumblatt, laeders rispettivamente degli sciiti di «Amal» e dei Drusi, imponendo agli «alleati fedelissimi» l'ennesima, plateale riconciliazione dopo la guerra sanguinosa del febbraio precedente.
Restano ancora, però, gravi incognite sull'effettivo disinnesco della bomba Libano.
Il Presidente Assad, nel quadro di una timida ma percepibile distensione con i governi occidentali, tenta di giocare la carta del «restauratore» della legalità internazionale, perorando – almeno ufficialmente – la liberazione dei numerosi ostaggi, che si trovano prigionieri nella «casbah» impenetrabile di Beirut-Ovest. In questa direzione, però, gli «ultimatum» di Assad ai rapitori hanno avuto un effetto tutt'altro che fulminante, e il 18 giugno anche un giornalista americano Charles Glass, recatosi a Beirut per scrivere un libro sugli ostaggi, ne ha subito la medesima sorte (Glass riuscirà poi a fuggire rocambolescamente ai suoi sequestratori il 18 agosto successivo, trovando rifugio in Siria, dove verrà riconsegnato prontamente all'ambasciata U.S.A.). Solo negli ultimissimi giorni (7 settembre 1987), non in virtù di un ordine militare, ma grazie ad una mediazione di cui non si conoscono i prezzi reali Assad ha convinto gli hezbollah a rilasciare uno dei due ostaggi tedeschi (Alfred Schiidt), rapiti nel gennaio precedente.
D'altra parte, gli Hezbollah e le frange sciiti più turbolente, relativamente compresse a Beirut, trovano sfogo in altre zone e specialmente nel Libano meridionale.
Infine, nella stessa Beirut-Ovest, si nota negli ultimi tempi una certa ripresa dell'attività terroristica, con alcuni attentati nei confronti delle stesse truppe di occupazione siriana ed alcune manifestazioni popolari di scontento, a larga partecipazione, come quella svoltasi il 28 agosto 1987 contro il «carovita».
Dovendo tirare le fila di quanto detto finora, si può concludere che la situazione libanese è paragonabile – con un pò di grossolanità – a quella di una pentola d'acqua bollente a cui sia stato imposto un coperchio, ma sotto alla quale sia stata contemporaneamente abbassata la fiamma. L'intervento siriano ha imposto infatti una situazione di calma artificiale tra le fazioni in lotta, non rimuovendo certo i motivi religiosi, sociali, feudal-mafiosi e di semplice ritorsione che erano all'origine della lotta. Tuttavia, la stanchezza per gli eccidi del passato, la consapevolezza che la presenza siriana-oltre a limitare la libertà di movimento delle bande armate-rende assai più difficile la prevalenza di una fazione sull'altra, sembrano aver determinato una certa pausa di riflessione o, quanto meno, di «riorganizzazione».
Gli sbocchi futuri di questa pausa non sembrano facilmente decifrabili: anche la recente scomparsa di due laeders storici del Libano, il primo ministro sunnita Rachid Karamé (ucciso in un attentato il l O giugno 1987) ed il vecchio leader cristiano del Partito Nazionale Liberale Camillo Chamoun (7 agosto 1987) non sembra provocato alcuna particolare reazione nello scacchiere interno.
Certo è che il Libano sembra meno una Comunità capace di dare vita ad uno Stato nazionale inteso in senso moderno; l'auspicio, espresso più di un anno fa su queste pagine, ovvero che la diplomazia italiana si adoperasse per la convocazione di una Terza Conferenza di Riconciliazione interlibanese, avrebbe oggi il sapore di una vuota formula di riti.
Probabilmente, i prossimi mesi mostreranno il consolidarsi dello smembramento «di fatto» di questo Paese in tre tronconi: una micro-repubblica cristiano-maronita a Beirut-Ovest e dintorni, una zona di influenza israeliana nel Sud del Libano (fino al fiume Litani), un• protettorato militare della Siria sul resto del territorio nazionale, nel quale potranno probabilmente osservarsi i fenomeni tipici del mondo islamico degli ultimi anni: il conflitto crescente tra l'estremismo sciita e la vocazione più moderata della tradizione araba.
La questone palestinese
Se la situazione libanese è stata sostanzialmente caratterizzata da un accentuarsi di elementi già presenti da tempo, le vicende della questione palestinese e degli Stati che vi fanno le cornice sono state ricche di colpi di scena.
In sintesi, avevamo visto nel 1985 il crearsi di un asse preferenziale tra OLP, Egitto e Giordania, sfociato nell'accordo tra Arafat ed Hussein dell'l 1 febbraio di quell'anno (partecipazione di una delegazione congiunta giordanopalestinese alla convocanda Conferenza Internazionale di pace nel Medio Oriente; creazione di uno Stato palestinese federato con la Giordania in Cisgiordania e a Ghaza; riconoscimento israeliano dell'OLP come interlocutore legittimo nelle trattative); avevamo notato l'atteggiamento negativo di Israele e degli USA di-fronte a tali prospettive, e la contrapposizione ad esse di trattative bilaterali tra Israele e Paesi arabi, e tuttalpiù con una delegazione dei Palestinesi residenti nei territori occupati, purchè non appartenenti o designati dall'OLP; avevamo constatato come l'atteggiamento «trattativista» di Arafat avesse consolidato la spaccatura all'interno del campo palestinese (già nata nel 1983 con la rivolta di Abu Moussa), determinando il sorgere di un Fronte di Salvezza nazionale composto da tutte le fazioni palestinesi filo-siriane. Come cornice, avevamo infine accennato alla frattura esistente all'interno del mondo arabo tra paesi moderati (in primis, l'Egitto, traditore di Camp David; ma anche Giordania, Marocco, Arabia Saudita ed Algeria) e paesi radicali (Siria, Libia ed Iraq).
Il 1986 e la prima parte del 1987 hanno visto invece un certo rivolgimento di posizioni, con alcune capriole diplomatiche per certi aspetti sconcertanti.
Sullo sfondo della situazione palestinese, vanno però richiamate brevemente due questioni, che hanno avuto, in questo periodo, sviluppi molto significativi.
L'escalation del fanatismo
In primo luogo, deve essere sottolineata la continua «escalation» dell'estremismo islamico, che ha sempre la sua pietra di paragone e la sua fonte di ispirazione nella Rivoluzione di Teheran del 1979. Il ritorno alla tradizione più rigorosa del Corano e la perorazione di forme di Stati teocratiche si sono ovviamente tradotti nell'odio feroce verso il «Grande Satana», gli Stati Uniti, simbolo del sistema di vita occidentale e nella fomentazione di ogni forma di terrorismo contro i loro alleati, diretti e indiretti.
Negli ultimi tempi, l'aggravarsi del fanatismo nel Medio Oriente, non ha più colpito soltanto gli interessi dello Stato di Israele e della popolazione ebraica (anche se alcuni episodi hanno avuto proporzioni agghiaccianti come la strage nella sinagoga ebraica di Istanbul del 6 settembre 1986 o l'attentato al Muro del Pianto del 16 ottobre 1986), ma ha anche iniziato a preoccupare fortemente i paesi arabi (le cui classi dirigenti sono composte non di rado da figure di formazione occidentale) e, tra essi, non solo quelli moderati, come l'Egitto (es. la rivolta militare del Cairo del febbraio 1986), ma anche Paesi, come la Siria, in cui il regime baathista ha dovuto più volte reprimere nel sangue una opposizione di piazza di questa natura.
I paesi arabi tra estremismo e moderazione
In secondo luogo, deve essere tenuto presente il consolidarsi della frattura tra Paesi arabi radicali e moderati (ora anche riguardo al conflitto Iran-Iraq e non solo intorno ai rapporti con Israele e la questione palestinese) e il nuovo orientamento che sembra assumere in questo quadro la diplomazia siriana.
La Libia, fedele alleata dell'Iran, appare sempre più isolata nella sua posizione «oltranzista» e dopo la «Guerra della Sirte» del marzo 1986 non è riuscita ad ottener alcun attestato di solidarietà da parte dei ministeri degli esteri della Lega Araba, riuniti a Fez il 2 maggio 1986.
Proprio in quella sede, dove pure è assente il paese arabo più moderato – l'Egitto, espulso dalla Lega araba, dopo gli accordi di Camp David – si è evidenziata la situazione di paralisi di questo organismo, con il veto reciproco delle parti presenti a tutte le mozioni presentate.
La Siria, dopo aver consumato la propria parabola estremista con la rottura dei rapporti diplomatici da parte della Gran Bretagna (per i collegamenti terroristi emersi a suo carico dalle risultanze probatorie nel processo inglese al terrorista Hindawi), sembra mossa da una preoccupazione di «riequilibrio» della propria posizione internazionale. Assad ha incontrato più volte tra il 1986 ed il 1987 Re Hussein di Giordania, paese tradizionalmente moderato, cercando una forma di coordinazione delle rispettive azioni sullo scacchiere medio/orientale, ed ha assunto in Libano una posizione decisa nei confronti dello sciismo filo-iraniano degli hezbollah; alla V-Conferenza islamica, che si è tenuta in Kuwait nel gennaio 1987, il Presidente siriano si è spinto fino ad una serie di abbracci plateali con Mubarak, che se non segnano una definitiva riconciliazione fra i due paesi, rappresentano quanto meno il ristabilimento di un canale di comunicazione, del tutto interrotto da anni, fra di essi; il 25 giugno 1987, sono stati chiusi d'autorità a Damasco gli uffici di Abu Nidal. Il suggello, infine, a questa marcia di avvicinamento della Siria verso una posizione più equilibrata, può essere considerato il ritorno a Damasco dell'ambasciatore Usa il 20 agosto 1987 (due giorni dopo la fuga-liberazione di C.Glass dal Libano).
L'evoluzione dell'OLP e il CNP di Algeri
Sul versante palestinese, si è assistito invece al logoramento dell'esperienza moderata di Arafat ed al riflusso del leader palestinese su posizioni radicali; il che ha favorito, ovviamente la ricomposizione unitaria dell'OLP.
Per la verità, i primi mesi del 1986 sono stati caratterizzati da dichiarazioni di disponibilità di Arafat a riconoscere la ris. 242 in cambio del parallelo riconoscimento israeliano (ad . es. nella visita al Cairo del 14 febbraio 1986);il 2 marzo 1986, il giovane sindaco palestinese di Naplous (Cisgiordania) ha pagato con la vita le proprie posizioni moderate, dalla frangia di Abu Nidal.
Nel frattempo, però, il Re Hussein di Giordania, stanco del tergiversare di Arafat davanti ad un riconoscimento pieno e senza condizioni della ris. 242 annuncia la fine del «coordinamento politico» con l'OLP (19 febbraio 1986) e 1'8 luglio consuma definitivamente lo «strappo» con Arafat, chiudendo in 48 ore tutti gli uffici di Al Fatah ad Amman e cacciando dalla Giordania il n° 2 dell'OLP, Farouk Kaddoumi. Il tentativo di Hussein è quello di creare un movimento secessionista di «destra» nell'OLP, favorendo la fondazione ufficiale ad Amman (14 luglio) del gruppo «Atallah» da parte di un certo Abu Zaim, che non pare, e tutt'oggi, aver lasciato traccia di se stesso.
È il periodo di massimo isolamento di Arafat che, nonostante le ultime e poco convinte dichiarazioni sulla ris. 242 (l'ultima viene fatta il 4 settembre 1986 davanti al Vertice dei Paesi non allineati di Harare) viene invitato anche da Burghiba (2 ottobre 1986) a spostare dalla Tunisia il Q.G. dell'OLP.
Nel frattempo agisce a pieno ritmo la pressione delle organizzazioni filo-siriane, alleate di Arafat nella guerra dei campi che si svolge in Libano, le quali comprendono che il momento è maturo per spingere il leader dell'OLP verso posizioni di piena ed intransigente ortodossia antiisraeliana; e ciò, anche in considerazione del ritorno del Likud alla guida del governo israeliano (10 ottobre 1986). Nei mesi che seguono, l'infittirsi dei contatti tra membri di Al Fatah e membri delle organizzazioni radicali e il ristabilimento di normali rapporti tra Arafat e Gheddafi fanno capire che il tempo delle trattative si è ormai, almeno per il momento, esaurito.
La XVIII sessione del Consiglio Nazionale Palestinese (il parlamento dell'OLP) tenutasi ad Algeri dal 19 al 25 aprile, celebra una ritrovata unità, pressoché generale dell'OLP, con l'automatico scioglimento del Fronte di Salvezza Nazionale. Si affiancano ad Al Fatah, il Fronte popolare di liberazione della Palestina (George Habbash), il fronte democratico di liberazione della Palestina (N. Hawatmeh), il Fronte di liberazione (Abu Abderrehim}, il Fronte di lotta popolare (S. Ghuscia), l'ala filo irakena del Fronte di liberazione della Palestina (Abu Abbas), l'ala filo siriana dello stesso Fronte (Talaat Jacoub) ed il Partito Comunista palestinese (S. Najab). Restano fuori solo Al Fatah-Comando generale (Abu Moussa), il Fronte popolare-Comando generale (A. Jibril) e poco ci manca che la riconciliazione si estenda anche ad Al Fatah-Consiglio rivoluzionario di Abu Nidal, responsabile della strage di Fiumicino e di tante altre efferatezze, commesse nei confronti degli stessi dirigenti palestinesi. Il C.N.P. si chiude su posizioni unitarie, lontanissime da ogni possibilità di intesa con Israele: l'abrogazione formale dell'accordo .Hussein-Arafat stipulato in base ad un'apposita mozione del precedente C.N.P. (Amman, 1984); l'auspicata convocazione di una Conferenza internazionale di pace con la presenza dei cinque Stati membri permanenti del Consiglio di sicurezza, con poteri di arbitraggio e di decisione sulla sorte dei territori occupati; il riferimento alle ris. 38 e 158 del 1983 dell'Assemblea generale dell'ONU (e non alla 242), come possibile base di partenza dei negoziati; la partecipazione a pieno titolo alla Conferenza di una delegazione dell'OLP; la creazione di uno Stato autonomo palestinese sui territori occupati, con capitale Gerusalemme, e con una Confederazione solo eventuale con la Giordania.
Sui rapporti con l'Egitto, Arafat riesce soltanto ad attenuare i toni di una mozione del Consiglio, che resta di sostanziale condanna: a Mubarak, che il 23 dicembre di quattro anni prima, al Cairo, aveva aperto le braccia ad un Arafat, militarmente sconfitto e politicamente isolato dai ritrovati amici di Algeri, non resta che ordinare la chiusura di tutti gli uffici dell'OLP in territorio egiziano.
Arafat ritrova l'unità pressoché totale della sua organizzazione, ma la possibilità reale della costruzione di una entità statuale palestinese in Cisgiordania e a Gaza – insieme con la possibilità di guadagnare i Paesi della comunità europea alla propria causa – si allontana notevolmente.
Recentissimamente (7 settembre 1987), le dichiarazioni di Arafat sulla ris. 242 e 338 pronunziate davanti alla Quarta Conferenza internazionale dell'ONG (Organizzazioni non governative) sembrano nuovamente.mostrare la volontà del leader palestinese di uscire dal suo «impasse», ma è troppo presto per giudicare se esse non rappresentino solo un ennesimo «coiìp del théatre» dell'uomo del fucile e dell'olivo.
L'attivismo diplomatico di Israele
Su un altro fronte, Israele affida invece al trascorrere del tempo e alla diplomazia 'sorridente' di Shimon Perez la normalizzazione progressiva dei rapporti con alcuni Paesi tradizionalmente ostili. Senza fare concessioni di sorta, il piccolo Stato ebraico sfrutta gli eccessi e le divisioni del campo avversario per una serie di piccoli passi, che servono a creare una situazione complessiva di ammorbidimento diplomatico, nella probabile convinzione che il trascorrere degli anni produrrà inevitabilmente l'assestamento definitivo della frontiera medio orientale e l'attenuazione progressiva dell'identità nazionale (e delle pretese territoriali) del popolo palestinese.
In realtà, le posizioni non sembrano del tutto omogenee, nel governo di Tel Aviv, tra il partito laburista, guidato da Shimon Perez, ed il Likud di I. Shamir, che – in omaggio ad un patto di «staffetta» non scritto di due anni prima – si sono avvicendati il 1O ottobre 1986 alla guida del governo. Perez si dichiara favorevole alla convocazione di una Conferenza internazionale di pace, come semplice cornice (priva di poteri arbitrali) per trattative bilaterali con gli . Stati arabi e in particolare con una delegazione giordano-palestinese, con rappresentanti dei territori occupati non affiliati all'OLP (ma ogni sondaggio rivela che le posizioni dominanti nei territori occupati dalla Cisgiordania e di Ghaza sono di assolutà fedeltà alla linea dell'OLP); quanto al merito, sostiene la possibilità di un ritiro di Israele dai territori occupati per consentire la formazione di una organizzazione palestinese fortemente collegata allo Stato giordano. Shamir è invece contrario ad ogni Conferenza internazionale di pace, pur se priva di poteri arbitrali, per evitare che essa si trasformi in un processo arabo ad Israele davanti all'opinione pubblica mondiale, e rifiuta comunque ulteriori ritiri dai territori occupati dopo quello del Sinai del 1982, prevedendo per la Cisgiordania e per Ghaza – dove negli ultimi due anni è in sensibile aumento la difficoltà di convivenza fra le due comunità palestinese ed israeliana – semplici forme di autonomia municipale. Per la ventà, la diversità di opinioni in politica estera rimane all'interno di un ventaglio di posizioni comunque lontano da ogni possibilità di intesa con l'OLP. Tuttavia, il timore di Shamir che Perez – nella sua veste attuale di Ministro degli Esteri – si esponesse a dichiarazioni troppo liberali nei confronti delle aspirazioni palestinesi, ha dato vita a gravi frizioni interne e ad episodi per certi aspetti grotteschi: come quando Perez, in procinto di recarsi negli USA per perorare le proprie posizioni, ha bloccato, in qualità appunto di Ministro degli Esteri, l'inoltro, tramite l'ambasciata israeliana di Washington, di un telex di Shamir con il quale si avvertiva la Casa Bianca che l'ex premier in arrivo avrebbe parlato a titolo personale; con la conseguenza che il Primo ministro ha spedito identico messaggio con la posta ordinaria.
La rigidità di Shamir sulla questione della Conferenza internazionale e alcune vicende di spionaggio ai danni degli Stati Uniti hanno indotto l'amministrazione Reagan, nel frattempo convertita su posizioni filo-laburiste, ad una certa presa di distanza dall'amministrazione Shamir, risultata evidente durante la visita di George Busch in Israele del luglio 1986.
Il nuovo corso diplomatico coi Paesi socialisti
Detto questo, va notato che Israele sta ormai normalizzando i rapporti con i vari Paesi del Patto di Varsavia, che avevano rotto le proprie relazioni diplomatiche con Israele dopo la «guerra dei sei giorni» (1967); con l'Unione Sovietica, dopo lo storico «incontro di Helsinki» del 18 agosto 1986 tra le relative delegazioni, si sono infittiti i contatti per una piena ripresa dei rapporti, basati anche sul diverso atteggiamento promesso da Gorbaciov nei confronti degli ebrei russi. In margine ai lavori dell'Assemblea generale dell'ONU del settembre 1986, Perez ha poi riavviato i contatti con le diplomazie polacca ed ungherese, e in occasione della riunione dell'UNCTAD a Ginevra del giugno 1987 ha acquistato alla causa della «normalizzazione» dei rapporti reciproci anche il Presidente jugoslavo Lazar Mojsov.
I rapporti col mondo arabo
Riguardo ai paesi arabi, Israele ha mantenuto sostanzialmente buoni rapporti con l'Egitto. Nell'agosto 1986, Egitto e Israele hanno annunciato di aver raggiunto un accordo per deferire ad un arbitrato internazionale la questione della «spiaggia di Taba», minuscola striscia di terra contesa tra i due paesi; l' 11 settembre 1986 l'Egitto invia nuovamente un proprio ambasciatore a Tel Aviv (dopo averlo richiamato nel 1982 in occasione dell'operazione «Pace in Galilea») ed il 25 febbraio 1987 si svolge un vertice dai toni molto cordiali tra Mubarak e Perez.
Ma altri piccoli capolavori, Perez li compie ristabilendo contatti ufficiali sia con il Marocco (incontro di Ifrane con Re Hassan del 25 luglio 1986) che con il Camerun (visita a Yaoundé del 25 agosto 1986): tipici esempi di come la diplomazia israeliana riesca a rompere il muro dell'isolamento, senza nulla concedere all'interlocutore dal punto della sostanza, ma costringendolo col tempo a prendere atto del proprio definitivo posizionamento entro, confini del 1967.



















