Iran-Iraq

La Guerra dei sette anni

Nuova Politica - La Guerra dei sette anni pagina 19
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Scatenata nel settembre 1980 dall'Iraq, la guerra del Golfo ha visto nel corso degli ultimi 10 mesi, insieme ad una ripresa in grande stile delle ostilità, un maggiore interessamento delle superpotenze. La nuova politica mediorientale di Mikhail Gorbaciov ed i vecchi tentennamenti degli americani. Il «Refflagging» tra avventuristico e necessità. Una guerra che non è più possibile definire «dimenticata».

La Guerra del Golfo è iniziata il 22 settembre 1980, esattamente sette anni fa.

Il conflitto tra Iran ed Iraq è stato finora molto poco avvincente. Solo nel 1982 gli iraniani lanciarono una grande offensiva terrestre che sembrò per qualche giorno essere quella decisiva. Ma gli iracheni deviarono in parte le acque dello Shatt-el-arab ed inondarono una fetta di territorio a ridosso del fronte sud, creando un enorme lago artificiale, il Lago dei Pesci, e bloccando l'avanzata dei bambini-martiri dell'Ayatollah RuohoHah Khomeini. La stessa tecnica usata, grosso modo, dall'esercito piemontese all'inizio della Seconda Guerra d'Indipendenza, per bloccare l'invasione austriaca ed aspettare l'intervento, rivelatosi risolutore solo a metà, dell'imperatore Napoleone III.

Gli iracheni non hanno ottenuto l'intervento di nessuno a loro fianco. Il perchè lo spiegò bene Henry Kissinger che disse, ed era una verità sotto gli occhi di tutti che nessuno, nè grandi, nè medie, nè piccole potenze, tantomeno le superpotenze, hanno alcun interesse che questa guerra la vinca qualcuno. Il conflitto tra Iran ed Iraq serve, in uno scenario quasi da «Deserto dei Tartari» a tenere impegnati all'infinito i quadri più esuberanti degli eserciti più agguerriti di tutto il Medioriente.

Se cade Bassora

La scena si ripete nel dicembre 1986. Poco dopo avere messo a nudo le incoerenze della Amministrazione Reagan, che prima dice «nessun patto con i terroristi» e poi vende sottobanco armi a chi il terrorismo internazionale lo teorizza e lo mette in pratica, gli iraniani lanciano una nuova offensiva, sul fronte meridionale la «Kerbala-3». Seguono la «Kerbala-4», la cinque la sei fino alla otto. Il risultato è che l'esercito iraniano arriva alle porte di Bassora, la seconda città irachena, e soprattutto a 150 chilometri dal Kuwait, emirato definito da Khomeini «provincia dell'impero americano» perchè amico dell'occidente. La scossa tra i paesi arabi è forte: gli iraniani, che sono musulmani ma non arabi, che adorano Allah ma sono sciiti, che non parlano la sacra lingua del corano ma il Farsi, che infine sono discendenti diretti di quei Persiani che distrussero gli imperi mesopotamici (in Iraq le rovine di Persepoli sono state appena restaurate) e dettero filo da torcere alla guerra santa dei primi secoli, stanno per raggiungere il primo paese arabo non coinvolto nel conflitto. Ed hanno chiare mire espansionistiche.

Cosa può succedere se cade Bassora? L'Iraq ha perso la guerra, novanta probabilità su cento. Ma non solo: la rivoluzione Khomeinista, nata con il dichiarato intento di riportare tutto il mondo islamico alla purezza del dettato coranico potrebbe sembrare agli sciiti sparsi per i paesi del Medioriente destinata al trionfo. Sarebbe un guaio per tutti: potente minoranza rispetto ai sunniti, gli sciiti sono presenti in tutti i paesi del Medioriente. Sono presenti in Libano, dove, dietro ordine iraniano, hanno creato una rete terroristica che tiene in scacco le potenze occidentali (e l'Irangate ne è stato un chiaro esempio). Sono presenti in Arabia Saudita, dove sono solo 1'8% della popolazione complessiva, ma tutta concentrata nelle regioni più ricche di petrolio. Sono presenti in tutti gli stati del Golfo, con una punta del 70% della popolazione del Bahrein. Le difese sono già state predisposte: nel 1981, è stato creato il «Consiglio di Sicurezza del Golfo», una vera e propria alleanza militare con tanto di forze navali che hanno già operato diverse manovre militari. Una seconda fascia di sicurezza è assicurata da quei paesi non coinvolti nella guerra e distanti dal 'quadro delle operazioni, ma che fanno sentire la loro presenza. L'Egitto è uno di questi, soprattutto dopo che il Kuwait ne ha voluto la riammissione nella Lega Araba. Un altro è il Pakistan, che sta a guardare ma intanto ha dislocato un contingente militare di 16.000 uomini in Arabia Saudita. Come terzo livello di questo sistema di sicurezza, pensano i governi arabi, ci sono sempre gli Usa.

Proprio in Kuwait a gennaio si svolge una conferenza islamica che dovrebbe gettare le basi per una nuova convocazione del Vertice Islamico, in crisi perchè non più indetto dal 1984 e perchè il suo autorevole presidente, re Hassan II del Marocco, si è dimesso il 29 luglio 1986 al termine del vertice di !frane con il ministro degli esteri israeliano Shimon Peres. Unico assente l'Iran, che fino all'ultimo momento ha cercato di impedire lo svolgimento del Forum contestando la legittimità del Kuwait ad ospitarlo. Ma dal palazzo dei congressi del Kuwait, una struttura modernissima con tutte le misure antiterrorismo adatte al caso, la presenza iraniana si sente: le riunioni si svolgono m ntre da lontano sono bene udibili le cannonate dei pasdaran di Khomeini su Bassora. Ad ogni modo a vincere sono il Kuwait ed i moderati. La risoluzione votata alla fine dei lavori è cauta, ma il colonnello Gheddafi esce battuto e costretto a deprecare la guerra in corso. Più cauto l'altro alleato di Khomeini, il siriano Afez Assad, che non è costretto all'umiliazione inflitta a Gheddafi ma accetta una prima mediazione con l'Iraq (artefice la Giordania) per la riattivazione dell'oleodotto che collega i campi petroliferi iracheni al Mediterraneo.

Perché gli USA non potevano intervenire

L'amministrazione Reagan ha iniziato a farsi più presente nella zona del Golfo a gennaio, con l'invio della portaerei «Kitty Hawk» nel Mar Arabico, dopo l'annuncio dell'inizio del dislocamento iraniano dei missili cinesi Silkworms. Il fatto che ha reso indispensabile l'invio della task force a luglio è stato l'incidente della fregata «Starlo». Voluto apposta da iracheni e sauditi, sussurrano i malpensanti.

Washington, sia che sia caduta nella trappola, sia che non vi sia stato nessun raggiro levantino, ha deciso ad ogni modo di aiutare il Kuwait ponendo sotto la propria ala protettrice la metà della flotta mercantile dell'emirato: l l navi su ventidue. Perchè il piccolo emirato era pronto a farsi proteggere dal migliore offerente, ed aveva già preso contatti con l'Unione Sovietica, che sembra gli abbia accordato, ad ogni modo la protezione di un certo numero di navi?

Mosca al momento sembra mantenere una politica di basso profilo nel Golfo. Ma questo non significa che i suoi timori sul futuro della guerra siano minori di quelli di Washington. Come la Casa Bianca, se non altro, vuole giungere alla fine del conflitto dalla parte del vincitore e non dalla pçarte del perdente. Pertanto, come Washington, Mosca ha tutto l'interesse a giocare su due tavoli. Ma, anche qui come Washington, sa che l'Iran ha una importanza dal punto di vista politico e strategico ben maggiore di quella dell'Iraq.

Per il momento, i sovietici hanno un trattato di collaborazione e di amicizia firmato con Bagdad, che da Mosca riceve la maggior parte delle armi del suo esercito.·Per guadagnare la stima iraniana il Cremlino non ha fatto altro che attendere l'esplosione del bubbone dell'Irangate, presentandosi poi come potenziale alleato dei «moderati di Teheran» un pò più affidabile.

La posizione di vantaggio che i sovietici hanno avuto almeno fino a luglio nel Golfo ha reso nervosi gli americani: l'altra superpotenza rischiava di riuscire a penetrare in una zona di importanza vitale per le sue risorse petrolifere e la sua posizione strategica dopo essere stata cacciata all'indomani della fine della seconda guerra mondiale. La nuova politica mediorientale di Mikhail Gorbaciov avrebbe segnato un nuovo punto a suo favore restando da una parte e facendo maturare gli eventi. La risposta obbligata era aumentare la presenza militare nella zona per dimostrare che gli Stati Uniti mantengono gli impegni. Ma rischiando così non un nuovo Vietnam, ma forse il coinvolgimento diretto in una guerra spinosa o una nuova Beirut.

Non si può ancora giudicare se gli USA abbiano fatto bene o abbiano fatto male ad andare nel Golfo. Forse però si può già dire che potevano fare di meglio.

Le mine dello Zar

Dallo stretto di Hormuz allo Shatt elarab, il Golfo Persico è una immensa via d'acqua lunga 600 miglia marine e larga nel punto di massima, da Ras Musandam in Oman alle coste irianiane di Hormuz, altre 200.

Lungo le coste, soprattutto dalla parte di Teheran, ci sono isole ed isolette, che complicano la divisione delle acque tra territoriale ed internazionale. Se, navigando verso nord la costa destra è tutta iraniana, a sinistra ci sono l'Oman, i sette stati degli Emirati Arabi Uniti, l'Arabia Saudita, il Kuwait ed in fondo l'Iraq. Lo stretto di Hormuz è, infine, . largo una quarantina di miglia nautiche. Ogni miglio nautico è, circa un chilo ' metro ed ottocento metri.

La nota geografica è immensamente importante per comprendere i problemi che comporta navigare sani e salvi in un braccio di mare del genere, soprattutto quando si è armati e si rischia in ogni momento con un paese che occupa metà della linea dell'orizzonte.

Facendo i conti con un altro parametro si scopre che un moderno aereo militare può percorrere tutto lo spazio aereo sopra le acque del golfo in tutte la loro lunghezza in poco più di 60 minuti. Con condizioni di tempo favorevoli, una normale unità della marina iraniana, a velocità di crociera di 40 nodi, può attraversare tutto il Golfo da est ad ovest, da, mettiamo, la base navale di Nay Band in Iran al Quatar, in meno di tre ore. Pertanto il passaggio di Hormuz avviene sotto il tiro non solo dei missili antinave «silkworm,» operativi dal primo luglio scorso, anche sotto quello della più semplice artiglieria a lunga gittata. Sempre ad Hormuz si può essere attaccati dai caccia iraniani partiti sei minuti prima dalle loro basi, mentre i Pasdaran hanno da percorrere meno di I00 miglia se vogliono piazzare altre mine nel punto dove è avvenuto alla fine di luglio l'incidente alla «Bridgeton».

Di fronte ad una area così sovraffollata di malintenzionati i paesi della costa occidentale hanno deciso nel corso degli ultimi 10 anni di rinforzare, e di parecchio, le proprie forze navali. L'Oman ha tre unità dotate di missili e otto corvette con tanto di ausiliari e di 24 imbarcazioni della guardia costiera. Non è molto, ma è già qualcosa per quello che sembrava fino a poco tempo fa uno scampolo indifeso di «arabia felix». Lo stesso per gli Emirati Arabi Uniti: sei unità portamissili, nove corvette ed altre 75 imbarcazioni ausiliarie. Il Quatar conta su tre unità portamissili e 50 navi di pattugliamento, il Baherien su otto e 24, più altre 100 vascelli di diverso tipo.

Nel caso (improbabile, del resto) che la marina reale di Famad dell'Arabia Saudita si concentrasse in un unico punto, si vedrebbero affiancate quattro fregate, quattro corvette dotate di missili, 51 navi da pattugliamento, nove dotate di missili, 16 hovercraft, 4 cacciamine, più 30 navi ausiliarie e 450 imbarcazioni minori. C'è di che tirare un sospiro di sollievo per le sorti degli amici dell'occidente dell'area. Ma tutte queste unità navali sono datate di radar incapaci di localizzare un missile in volo che sia partito da una lunga o ad una altezza superiore al volo radente o poco più, o, quel che è da temere maggiormente, un aereo nemico in missione suicida.

Tanto più che l'Iran ha in dotazione, dai tempi dello Scià, nove cacciatorpedinieri, fregate e corvette. Ma parte di queste unità sono in ripartizione (i pezzi di ricambio sono sempre più difficili da trovare), e difficilmente potranno essere usate in attacchi nel Golfo. Le unità più pericolose sono la quarantina di «custom» di fabbricazione svedese che, a velocità di 40 nodi, possono trasportare truppe dotate di missili da lanciare a mano.

La marina irachena non ha dimostrato intenzioni molto ostili nei confronti dei mercantili (il compito è più che altro affidato alla aviazione). E difficile ad ogni modo stabilire le condizioni degli arsenali delle due parti belligeranti. La Francia ha continuato a rifornire a Bagdad i propri missili «AM39 Exocet», mentre l'Iran potrebbe (ma siamo nel campo delle ipotesi) avere esaurito le scorte di missili «maverick», un'arma di fabbricazione americana, teleguidata e lanciabile da un qualsiasi caccia.

Più interessanti i missili «silkworm», dislocati dagli Ayatollah nella regione di Hormuz. Si ,tratta di armi con una testata di 1.100 libbre di esplosivo, ed una potenza distruttrice pari a tre volte e mezzo quella di un normale Exocet. alla vigilia della partenza delle prime navi americane per scortare le due petroliere Kuwaitiane che hanno preso a fine luglio la bandiera degli Stati Uniti le contromisure sembravano facili da adottare: una serie di radar, un fuoco concentrato terra-aria, missili terraterra avrebbero reso inutili la presenza di aerei. Tanto più che, prima del bombardamento della Libia ad aprile, gli americani si erano confrontati con i libici sulle acque del Mediterraneo in un duello aereo. Ed avevano perso o si erano visti danneggiare ben quattro veivoli. Fin qui tutte esatte, le previsioni. Ma non erano stati fatti i conti con le mine marine di Nicola II, zar di tutte le Russie.

Fu infatti l'ultimo dei Romanov a decidere la costruzione del tipo di mina, troppo obsoleto per essere considerato nelle opzioni cagliate a Washington, chead urtare sulla fiancata della petroliera «Bridgeton» la sera del 24 luglio.

Perché gli USA potevano fare di meglio

«La task force che naviga nelle acque del Golfo Persico» ha sentenziato sulle colonne del «Washington Post» Zbigniew Brzezinski, l'ex consigliere per la Sicurezza Nazionale del Presidente Carter, «non è altro che la triste dimostrazione del declino della potenza americana».

Normalmente chi ha smesso da anni di ricoprire incarichi di rilievo nella amministrazione americana, e Brzezinski è tra questi, si atteggia volentieri a Cassandra dei destini nazionali, o almeno a censore dei presidenti succeduti a quello da lui servito. Ma Brzezinski è anche uno dei maggiori esperti di politica estera di tutti gli Stati Uniti, e pertanto merita una certa attenzione.

Se Washington fosse stata una potenza ancora degna di rispetto, è in sintesi la sua critica, non ci sarebbe stato bisogno di mandare neanche una nave da guerra e scortare le petroliere dell'amico Kuwait, e di difendere le rotte del petrolio vitali per l'occidente.

«Una grande potenza» ha seritto a metà agosto l'ex consigliere di Carter, «viene rispettata, o almeno, una grande potenza la cui risolutezza a proteggere i propri interessi è fuori, discussione, avrebbe agito in maniera diversa. Senza troppe fanfare avrebbe concentrato nelle zone una presenza militare tale da infliggere danni a sufficienza ad un qualsiasi nemico, e quindi avrebbe comunicato a questo potenziale nemico, con calma e in silenzio, le sue intenzioni».

Reagan, in sostanza, è rimasto un attore che sente eccessivamente il bisogno di pubblicizzare anche quando è preferibile il contrario le proprie decisioni.

Nel caso particolare, le critiche che si possono muovere alla Casa Bianca, al Pentagono ed al Dipartimento di Stato sono diverse. Ma riguardano tutte la «mancanza di comunicativa» del governo americano che avrebbe potuto far sapere agli Ayatollah a Teheran alcune cose prima di rischiare una seconda Beirut. Tra queste la prima è la determinazione a permettere alle petroliere una libera e sicura navigazione nel Golfo Persico. Poi che le navi americane avrebbero risposto al fuoco al minimo tentativo di attacco da parte di forze straniere. Terzo: anche un attentato apparentemente estraneo alla crisi del Golfo contro un obiettivo americano avrebbe scatenato la stessa reazione. Quarto: Teheran deve tener ben presente che le forze armate degli Stati Uniti sono in grado di colpire non solo le basi militari iraniane, ma anche i punti nevralgici dell'economia del paese, già alle strette per una guerra che dura oltre ogni previsione. Se nel Golfo non si può più navigare sarebbe stata una minaccia efficace se presentata attraverso canali meno chiassosi di quelli televisivi, allora tutto il Golfo sarebbe stato oggetto di un embargo imponente quanto di facile realizzazione: basta bloccare lo stretto di Hormuz per sbarrare la strada alle petroliere con greggio iraniano e lasciar navigare oltre le altre.

Per mettere alla prova le capacità di comprensione degli Ayatollah, tra i quali, ha vagheggiato inutilmente Reagan, vi sarebbero anche dei moderati pronti al dialogo, sarebbe bastato a quel punto inviare una sola nave, una fregata o anche una petroliera senza scorta, dopo avere informato gli iraniani.

Il problema, insomma, non è di voglia di presenza o di mostrare i muscoli, quanto di comunicazioni di massa. Fin qui le tesi dei critici, per lo più democratici. Un bello schiaffo alla «open diplomacy» tanto cara agli idealisti americani. Se così fosse stato, avremmo assistito all'ennesima contraddizione americana in politica estera: chi a parole è per il dialogo aperto (e Carter era tra questi, e anche la sua amministrazione) nei momenti di urgenza preferisce l'intimidazione segreta. E, all'atto pratico, viceversa.

La fine della guerra dimenticata

Sette anni di guerra sono bastati in passato a sconvolgere la faccia di un continente. Nel Golfo hanno al massimo distratto l'attenzione degli analisti della situazione mediorientale dal conflitto arabo-israeliano. Ma l'ultimo anno di guerra, che si chiude con la fine di settembre, ha sortito effetti diversi che influiranno sulle vicende dei prossimi mesi, se non dei prossimi anni.

La «guerra delle città», «la guerra delle petroliere», fino al gennaio scorso erano un susseguirsi di bollettini a cui nessuno più dava scolto.

Ora per mesi interi le prime pagine dei giornali di tutto il mondo sono dedicate a quello che accade sul fronte che divide gli eserciti di Iran ed Iraq.

Potenza dell'economia, potenza delle superpotenze: la Guerra del Golfo non è Qiù una guerra dimenticata.

E una guerra che tiene con il fiato sospeso un intero pianeta.

Il labirinto Mediorientale
Simone Pistelli

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