Lo scambio politico tra decisione e mediazione
È uscito recentemente un libro di Gian Enrico Rusconi destinato ad arricchire il dibattito politico: «Scambio, minaccia, decisione» (Il Mulino, 1984); ed è di questi giorni anche la traduzione italiana di un'importante opera del 1928 di Cari Schmitt, «La dottrina della Costituzione». Questo confronto (che è, almeno in parte, un confronto-scontro) costituisce il punto di partenza di una tavola rotonda apparsa su «Politica ed Economia» («Condizioni e limiti dello scambio politico in Italia» n. 2/85), cui partecipano, oltre all'autore del libro in questione, Angelo Bolaffi, Gino Giugni e Biagio De Giovanni.
Nel corso di questo dibattito emergono diversi problemi, a cominciare da quello che è in un certo senso preliminare e presupposto agli altri, anche se è mantenuto a traiti implicito: il problema della natura del diritto, in particolare nella sua valenza politica. Molto rapidamente, possiamo dire che due sono le principali correnti di filosofia del diritto di questo secolo che si sono avventurate in questa riflessione: la scuola formalista, il cui caposcuola riconosciuto è Hans Kelsen (morto nel '73 a Berkeley), e la scuola realista, tra i cui maestri fa spicco Cari Schmitt (vivente anche se ultranovantenne). Per i primi il diritto è soprattutto forma. sintesi concettuale convertita in espressione giuridica, universo di categorie non inquinate da scorie d1empmsmo, realismo, storicismo; per i secondi. il diritto è una «realtà», vivente. tangibile e personificata, che sta al d1 là delle norme, e che non solo viene prima di queste, ma le trascende e le fonda. Il «decisionismo», poi (che è entità ben più complessa dell'impronta e dell'ispirazione che si attribuiscono all'attuale presidente del Consiglio), non è altro che una versione della scuola realista, che esalta la componente della scelta e la personificazione di essa.
Ma non è questo, naturalmente, l'oggetto principale del dibattito di cui dicevo (d'altro canto. non si potevano omettere queste sommarie coordinate di fondo), costituito invece dalla traduzione di queste riflessioni sui massimi sistemi al livello di un problema abbastanza «di moda»: lo scambio politico. Un problema che, potremmo dire, si colloca sul filo di un instabile equilibrio tra il versante della politica e quello della contrattazione sociale. Il «secolo socialdemocratico» (Ardigò) ha visto istituzionalizzarsi una prassi di concertazione di quasi tutte le più importanti decisioni di politica economica e sociale, e oggi sembra che la parola d'ordine della «transazione» abbia sottomesso ogni spazio (compreso quello politico) e ogni soggetto di potere (compreso quello statuale): e questo sia detto senza voler ammiccare al fascino sottile della rampante cultura della deregulation, ove a beneficiare della maggiore fluidità del sistema sono solo i più forti, e riconoscendo le grandi conquiste dovute a quello che Cari Schmitt definiva con beffarda ironia «il magico triangolo Keynesiano», cioè sviluppo-occupazione-consenso.
Per Gino Giugni però altro è il corporativismo (il cui teorema consiste nell'«eliminare il momento politico ed affermare la priorità degli interessi organizzati»), altro è lo scambio politico, perché «in esso si dà contenuto politico all'operazione di scambio, contribuendo alla politicizzazione dei soggetti che fanno l'operazione di scambio», mentre «il governo non si appiattisce sulla volontà dei due soggetti contraenti lo scambio, ma punta a guidarle verso un obiettivo».
Ma se molti sono i problemi sul fronte del «sociale», non meno numerosi e importanti sono quelli che esplodono sul versante del politico: infatti, in questa generalizzata contrattazione istituzioni-forze sociali, resta una 'zona franca' per la politica? Qual è lo 'specifico' della politica: la mediazione, la decisione, o un mix di esse storicamente mutevole?
Non solo, ma come si ridefinisce il problema della sovranità, dato che per Cari Schmitt «sovrano è chi decide sullo stato di eccezione» (anche se «questa definizione può essere appropriata al concetto di sovranità, solo in quanto questo si assuma come concetto limite», C. Schmitt, Le categorie del politico, Bologna 1972, p. 33), mentre per Hans Kelsen «il concetto di sovranità deve essere radicalmente eliminato» (H. Kelsen, Das problem dei souveratnitat und die Theorie des Völkerrechts, Tubinga 1928, p. 320)?
E ha ragione Bolaffi a sostenere che «la novità dei sistemi occidentali, dopo la seconda guerra mondiale, consiste nel dato di fatto che il caso di emergenza sul quale per Schmitt si fondava la sovranità, si è, per così dire, ritirato dal proscenio ed è andato dietro le quinte»? Anche perché, se «la strategia è quella di rimuovere programmaticamente il caso di emergenza», come direbbe Luhmann, nel momento in cui questo ricompare il sistema politico ha perso, in quanto non tollera «l'emergere dell'emergenza».
Insomma, il dibattito è tutt'altro che chiuso.



















