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Lo stato di salute della scienza politica

Nuova Politica - Lo stato di salute della scienza politica pagina 16

Che la politica, oggi, oltre ad essere una prassi e un'attività, sia anche una scienza vera e propria, è ormai una convinzione consolidata. Questo, nonostante il cammino sia stato lungo e accidentato: ai suoi albori, infatti, (basti pensare agli «elementi di scienza politica», scritti da Gaetano Mosca nel 1896), la scienza politica si trovò quasi come un vaso di coccio tra vasi di ferro, costituiti in particolare dalla scienza giuridica e da quella storica. La battaglia della scienza politica per la conquista di una propria autonomia, di fronte alle accuse di empirismo ateorico, che le venivano dai giuristi, e di presunzione nomatica, come le veniva contestato dagli storici, venne vinta rivendicando un duplice ordine di specificità epistemologiche: gli scienziati della politica sostennero l'originalità del loro «metodo» (generale e non individuale) rispetto alla storia (che s'occupa infatti di singoli episodi, e non astrae una logica generale da essi), e l'originalità del loro «punto di vista» (politologico e non normativo) rispetto al diritto (per queste. problematiche si veda: Norberto Bobbio, «Saggi sulla scienza politica in Italia», Bari 1977, soprattutto alle pp. 15-26).

Ma la conquista di una propria specificità scientifica non è certo l'unico problema dell'oggi: tante cose sono cambiate, e si moltiplicano continuamente fecondando focolari di dibattito. Un buon bilancio di tutto ciò è contenuto in un'intervista di Antonio Lombardo al «padre» della scienza politica italiana, Giuseppe Sartori (v. «Mondoperaio n. 11/85). Tanti gli spunti in essa contenuti, e troppi per essere qui riassunti; mi limito quindi a segnalarne alcuni.

Innanzitutto, Sartori compie uni check-up dello stato di salute dei vari settori della scienza politica d'oltreoceano: la «politica americana», che si è "impoverita chiudendosi cecamente in sé stessa"; la «teoria politica», la cui gentilità s'è attenuata sia per l'assenza di spessore teorico del behaviarismo, sia per l'appannarsi dei contributi della filosofia politica; le «relazioni internazionali», in ascesa in termini di quantità ma anche di qualità degli studi; la «politica comparata», anch'essa in difficoltà, nonostante la lezione dei maestri americani sia stata ben recepita in diversi paesi, come l'Italia.Si delinea poi un confronto tra la scienza politica americana, più pragmatica ed empirica, a quella europea continentale, più teorica e vicina a versioni filosofiche e istituzionali; inutile dire che questi due ordini di differenti caratteristiche costituiscono i pregi e insieme i limiti delle rispettive scuole. Da segnalare comunque un giudizio positivo sulla scienza politica italiana: per Sartori essa, a partire dagli anni '50, ha «recepito il nuovo» che arrivava dagli Stati Uniti dai suoi difetti ed eccessi»; questo nel senso che «non siamo mai diventati né behaviaristi né muerologi ad oltranza; non ci siamo mai ultra specializzati né arroccati all'interno di una disciplina monocorde. Ricettivi, sì; imitatori o rigetitari, no».

Ma oggi si deve ridefinire un rapporto corretto e coerente con varie discipline, in particolare la filosofia politica, che dopo la quasi-subordinazione nei confronti della scienza politica degli anni sessanta si è ripreso un proprio ruolo e un proprio spazio, specie dopo la «teoria della giustizia» di John Rawls. A questo proposito, ad esempio, non è possibile non fare i conti con Cari Schmitt. Sartori, però sottolinea che anche un classico come lo studioso tedesco non va agli scienziati della politica ma ai filosofi di questa: e tale precisazione è indicativa dell'approccio rigorosamente scientifico che lo studioso fiorentino riserva alla politica, senza però scadere in empirismi ateorici o in comportamentismi puramente statistici.

Ci sono poi alcuni spunti interessanti sulla teoria della democrazia (è imminente l'uscita di una nuova opera di Sartori, «Tue Theory of Democracy Revisited», che costituisce una ripresa-rilettura di «Democrazia e definizioni», di quasi trent'anni fa), sulla teoria dei partiti, e sui sistemi di partito: a questo proposito si mettono a confronto le teorie bipartitiche e/o bipolari (Maurice Duverger e Giorgio Galli, tanto per fare un esempio) con quella del «pluralismo polarizzato» del politologo fiorentino, arrivando anche ad alcune riflessioni sul sistema politico italiano (giudicato triangolare), e sulle prospettive di altemanza in esso.

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