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Laureati alla méta

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Un campione statistico di livello nazionale dimostra che i sacrifici alla fine pagano: oltre il 90 per cento dei laureati trova un lavoro che gli va a genio. Ne parla l'autore del libro «II mestiere del laureato».

Tempo di crisi economica e di disoccupazione giovanile, ma la laurea serve ancora per trovare un lavoro.Sfogliando giornali e ascoltando notiziari radiotelevisivi l'affermazione appena accennata potrebbe sembrare avventata, eppure tutte le indagini e le ricerche di mercato compiute di recente ci dicono esattamente il contrario: il prodotto finito degli atenei, cioè il laureato, è a tutt'oggi il potenziale lavoratore che ha il maggior numero di chanches per riuscire a trovare un posto, e molto spesso riesce brillantemente nell'impresa.

Da dove giunge tanta sicurezza? Dalle cifre statistiche innanzitutto, che, se studiate con un minimo di attenzione, non possono che condurre a tale conclusione; quindi dalle inchieste specifiche che, quanto svolte con diligenza, forniscono sempre risultati assai interessanti. Ed è proprio da una di queste inchieste, resa nota alla fine del 1982 e pubblicata da poche settimane, che il ministero della Pubblica Istruzione, intervistando il 25 per cento dei laureati di quattro importanti atenei (Milano, Siena, Roma e Bari), è giunto alla conclusione che la laurea ripaga degli sforzi che si sostengono durante gli anni accademici. È infatti risultato che il 94,5 dei laureati intervistati – ma il campione statistico ha sicuramente un valore nazionale – aveva trovato un lavoro al termine degli studi universitari; i disoccupati risultavano «appena» (rispetto alle cifre che circolano normalmente, non certo rispetto alla gravità della mancanza di un'occupazione, che resta tale) il 5,5 per cento una quota praticamente fisiologica.

Il dato ovviamente va poi analizzato, e risulta così che di quel 94,5 di occupati, il 72.8 percento lo sono in maniera stabile, mentre l'altro 21,7 per cento in maniera precaria (contratti a tempo determinato, part-time, eccetera). Resta comunque che più di 94 laureati italiani su cento trovano un'occupazione altermine dei loro studi. Ci pare la smentita più secca della cosiddetta disoccupazione intellettuale, per anni sventolata come uno spaventapasseri che doveva servire per far desistere potenziali matricole universitarie dal varcare i cancelli dei 53 atenei italiani.

Insomma, giustizia del luogo comune è fatta.

L'indagine del maxi-ministero di Viale Trastevere fornisce quindi ulteriori dati conoscitivi sul laureato italico e sulle sue difficoltà lavorative. La notizia più eclatante – ecco il prezzo che effettivamente pagano oggi i lavoratori-intellettuali alla innegabile crisi economica – è che i tempi di ricerca del lavoro si stanno allungando, la gavetta si fa cioè sempre più lunga: per trovare un posto il 10 per cento dei laureati impiega meno di tre mesi, il 40 per cento un anno (periodo che per molti significa lo svolgimento del servizio militare), il 20 per cento due anni, il rimanente 30 per cento non ha indicato nulla (si tratta soprattutto di donne che, una volta conseguita la laurea, preferiscono dedicarsi esclusivamente agli impegni famigliari).

Chiaramente, ecco la seconda notizia, il tasso di disoccupazione e i tempi di attesa del lavoro sono diversi da zona a zona, o a seconda del sesso dei laureati. Nel Mezzogiorno, tanto per parlare chiaro, il tasso di disoccupazione (10,1 per cento) è addirittura doppio rispetto a quello nazionale (5,5 per cento) e quintuplo rispetto a quello del nord (2,1 per cento). Mentre se i disoccupati tra gli uomini laureati sono il 2,8 per cento, tra le donne salgono al 10,2 per cento. Differenze considerevoli.

Abbiamo anche saputo, terza notizia, quali sono le lauree che negli anni ottanta offrono maggiori garanzie occupazionali e quali, invece, risultano inflazionate: nel primo elenco si trovano agraria, giurisprudenza, economia e commercio e ingegneria; nel secondo, lettere e filosofia, magistero e sociologia. Un vademecum da non dimenticare per non avere poi brutte sorprese dopo quattro, cinque o sei anni di studio.

Per ultimo, rifacendoci sempre all'indagine del ministero della P.I., i laureati hanno fatto una confessione pubblica. Hanno ammesso, nel cinquanta per cento dei casi, di aver fatto ricorso alla imperitura «spintarella» per guadagnare la sponda delJ'occupazione, con tanti saluti alla capacità, all'impegno, al voto di laurea...

Che la strada universitaria ripaghi degli sforzi che si sostengono è stato anche confermato da due altre inchieste, una diretta (ed è stata condotta dall'istituto di Statistica di Roma), l'altra indiretta (ed è stata curata dal Cespe, il Centro studi di politica economica del Partito comunista italiano). Nel primo caso la conferma, per certi versi paradossale, è arrivata proprio in questi giorni, mediante l'anticipazione alla stampa dei risultati di un questionario che è stato consegnato ai terroristi oggi reclusi nelle nostre carceri: il 10 gennaio nell'auletta dei gruppi parlamentari di Montecitorio abbiamo così saputo che i terroristi che hanno insanguinato per tanti anni il nostro Paese prima di dedicarsi a pieno tempo ai loro nefandi propositi rivoluzionari, risultavano occupati nel 75 per cento dei casi; e di questi circa 1.400 detenuti politici il 42 per cento aveva avuto un contatto con l'università (il 12 per cento arrivando sino alla laurea, il restante 30 per cento non giungendo al traguardo finale della laurea ma frequentando le lezioni e sostenendo esami). Insomma, al di là di considerazioni sulla coltivazione accademica del terrorismo, rimane il fatto che anche i brigatisti rossi e i neofascisti aveva compreso che la strada giusta per trovare un lavoro era (ed è) quella universitaria.

L'altra conferma, dicevamo, è giunta dal Cespe che, durante il XVI congresso del Pci che si è tenuto a Milano nel marzo 1983, ha reso nota una propria indagine sulla disoccupazione in Italia: «oggi, è la conclusione dell'organismo di studi economici marxisti, i disoccupati veri e propri sono soltanto il 12 per cento di quelli che figurano nelle statistiche ufficiali: 250 mila persone sul totale dei due milioni di «disoccupati ufficiali». Gli altri, è questa la spiegazione che fornisce il Cespe, svolgono, a vario titolo, una qualche attività lavorativa, producono ricchezza e hanno un reddito.

Ma la bella medaglia universitaria, se per un verso offre tanti motivi di confortoe di tranquillità, per il suo, risvolto fornisce seri motivi di preoccupazione. E non li si può ignorare. Se sono infatti numerosi coloro che iniziano la corsa verso la laurea nelle università, sono pochissimi quelli che giungono a tagliare il traguardo finale. Quanti? È presto detto. Su tre studenti che si immatricolano in un ateneo, soltanto uno si laurea; su dieci matricole iniziali, appena una riuscirà a laurearsi in corso, vale a dire nei tempi previsti dallo statuto di ogni facoltà. Una falcidia non indifferente, non certo paragonabile con la selezione – già notevole – che si produce nelle scuole. Un «fuori-michiamo» che, tra le varie conseguenze, ha un notevole costo per le finanze pubbliche (e in tempo di crisi...). È questo un prezzo che qualcuno (si veda la ricerca del Copar-Ases del dicembre 1983) ha provato a quantificare. La cifra la si può ricavare in maniera indicativa moltiplicando il numero degli studenti universitari che ogni anno lasciano gli studi (circa 137 mila giovani), con il costo medio che sostiene lo Stato per ogni studente universitario (circa 1.750.000.000 lire, altro che le 150-200 mila lire che ciascuno studente paga annualmente per l'iscrizione). La cifra che così si ottiene è 250 miliardi di lire.

Le ragioni di tutto questo? Molte. Due ci vengono subito in mente: la perversa legislazione universitaria e il fenomeno della «vendetta accademica»». Le norme attuali permettono infatti a uno studente di continuare a iscriversi all'università, pure senza sostenere alcun esame, per otto anni di seguito, una tolleranza che non ha eguali in altri paesi. Mentre la liberalizzazione degli accessi, introdotta nel 1969, sta evidenziando i suoi contraddittori frutti: è stato calcolato che i «liceali» (cioè i maturati provenienti dal liceo classico, scientifico, linguistico o artistico) al momento dell'ingresso all'università sono il 45 per cento delle matricole, al momento della laurea sono invece l'80 per cento dei laureati. Ergo, considerato che la stagione della pazzia collettiva del «27 politico» è ormai un lontano ricordo, qualcuno (i politici) ne dovrebbe trarre le do,ute conseguenze.

Per l'Universitrà che cambia

È indiscutibile che gli anni '80 sono per l'Università italiana momento cruciale per la ridefinizione del suo ruolo, della sua identità: il superamento della crisi che dalla fine degli anni '60 la ha attanagliata, può avvenire solo tenendo conto della sua trasformazione da istituzione di alta cultura, per una ristretta elite, a occasione culturale di massa. Ci troviamo di fronte invece ad una realtà che non è stata in grado di tenere il passo dei veloci mutamenti che hanno investito la società.

I sintomi del disagio che investe la struttura universitaria italiana sono, purtroppo, sotto gli occhi di tutti: a cominciare dal sovraffollamento della gran parte dei nostri Atenei, che insieme ad elevatissime percentuali di fuoricorso e di ritiri, individuano un malessere imputabile adinadeguatezza degli ordinamenti e dei programmi, a carenze strutturali di spazi fisici, a disorganizzazione e sprechi.

È una situazione questa che vede gli studenti come vittime e non, come qualcuno vorrebbe far credere, come colpevoli: sempre più spesso la scelta universitaria diventa per il giovane un compromesso forzato tra attitudini personali, volontà di realizzazione e possibilità di sbocco professionale, che alla fine genera quel disorientamentoche sfocia in precoci abbandoni in reiscrizioni a corsi completamente diversi.

Carenze queste che hanno le loro radici nell'indifferenza, nell'impreparazione e nell'incapacità di affrontare seriamente, già durante il ciclo della Scuola Superiore, il problema dell'orientamento, soprattutto in relazione alle possibilità offerte dal mondo del lavoro.

L'uscita da questa situazione di crisi non appare vicina, ed è legata soprattutto alla capacità di ridisegnare un modello di università flessibile, proiettata nel futuro, prescindendo dalla situazione attuale di emergenza.

A questo proposito l'On. Tesini, Dirigente Nazionale del Dipartimento Scuola e Ricerca Scientifica, ha presentato recentemente la proposta di legge della DC circa le «Norme sugli ordinamenti didattici universitari», che contiene elementi molto importanti.

Il filo conduttore del progetto DC è la massima valorizzazione dell'autogoverno degli atenei; il suo obiettivo essenziale la riorganizzazione degli studi in una Università che garantisca l'accesso e la conclusione dei corsi a tutti i capaci e meritevoli, secondo il dettato Costituzionale, ma che, contemporaneamente garantisca ai giovani non un «parcheggio» provvisorio, ma una elevata qualificazione professionale e culturale.

Strumento essenziale per il raggiungimento di tale obiettivo è la differenziazione dei corsi e dei titoli, con l'istituzione del diploma di primo livello come risposta generalizzata alla richiesta di professionalità di tipo intermedio.

Secondo il progetto l'Università rilascerà con quattro di versi titoli: il diploma di primo livello (ciclo breve); il diploma di laurea; il diploma di specializzazione; il dottorato di ricerca (ciclo lungo).

Riguardo all'altro inestricabile nodo della questione universitaria, il problema degli accessi, la proposta Tesini, escludendo il ricorso sistematico al «numero chiuso», o al «numero programmato». opta per lasoluzione che vada ad assumere come principio generale, la coerenza fra indirizzo di studio seguito nella scuola secondaria superiore e il corso universitario prescelto, demandando al piano quadriennale al compito di stabilire per quali Atenei e corsi si renda necessaria una prova d'ammissione, gestita, secondo le proprie necessità, dalle sedi interessate.

Per quanto riguarda. infine, i finanziamenti alla struttura Universitaria, alle ragioni di giustizia, che inducono ad adeguare le tasse universitarie al reddito, si accompagnano, nella proposta metodi altrettanto equi di utilizzo delle risorse finanziarie aggiuntive, consistenti in aumenti dei fondi per l'edilizia e la ricerca scientifica, ampliamento dell'organico del personale docente e non docente, potenziamento delle attrezzature di residenze studentesche, erogazioni agli iscritti di premi annuali di studio, misure che ribadiscono, ancora una volta, il dovere primario dello Stato di considerare la spesa pubblica per l'Università come un fondamentale investimento produttivo.

L'Italia s'è ...rotta
Stefano Sandroni
Priorità al bene comune nel nuovo «patto» tra Stato e cattolici

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