È centrale la dignità umana
In questi anni emerge tra i giovani una sensibilità nuova, che smentisce la definizione di generazione del riflusso che i mass media avevano coniato all'inizio degli anni '80.
Hegel ammoniva dal parlare dei giovani come di una classe sociale e tanti tentativi tesi ad individuare una comune cultura giovanile si sono rivelati fallaci proprio in quanto qualificavano come comuni dati che riguardavano solo una minoranza; ciò non di meno all'intero di questa generazione attraversata da tendenze diverse e, a volte, contrapposte è presente una comune coscienza civile nuova.
Il modello del riflusso voleva i giovani estranei ed indifferenti ai problemi della società, appiattiti sulla logica del consumismo e della gratificazione materiale, che si manifestava a livelli e in forme diverse, dall'arrivismo dell'aspirante «yuppie», al culto oggettuale del «paninaro» per finire al tossicodipendente, disperato consumatore perfetto, la cui esistenza finisce con l'essere finalizzata all'acquisto della dose di droga.
Questa chiave di lettura si è rivelata superficiale perché poi, i giovani, nel corso di questo decennio, si sono fatti sentire dando corpo a tutta una serie d'istanze originali e spontanee.
Se in passato altre generazioni di giovani erano insorte contro i cosiddetti «vecchi valori» sentiti ormai come non più veri, lontani ed ipocriti, finendo poi con il compiere pericolose fughe sulla via dell'astrazione ideologica, il dato nuovo è che questa generazione di giovani quando protesta lo fa per difendere dei valori suoi che sente irrinunciabili e che vede minacciati dal mondo dei grandi.
Nella rivendicazione di un concreto diritto allo studio, nella difesa dell'ambiente, nella denuncia della violenza e dell'omertà, nel rifiuto dell'idea di un mondo diviso in due su cui grava il pericolo della distruzione nucleare, leggiamo la voglia di difendere concretamente la dignità dell'uomo dalle minacce e dai compromessi del nostro tempo. La pretesa estraneità dei giovani rispetto alla società in cui vivono è un triste equivoco.
La divisione di fatto della società italiana tra lavoratori e disoccupati, che coincide con lo spartiacque anagrafico dei trentanni, oltre a essere causa prima di devianza e di criminalità, oltre a essere causa di disagio perché è condanna al limbo di una lunga adolescenza indipendenza dalla famiglia di origine, rende soprattutto il giovane cittadino incompiuto, e ad esso sono precluse quelle importanti forme di espressione democratica di cui è titolare il lavoratore.
Il problema non è soltanto quello di dare ai giovani un salario o un mezzo salario, ma di permettergli di essere parte sociale e come tale, come cittadino lavoratore a pieno titolo, consentirgli l'accesso a quella contrattazione sociale da cui oggi è fuori.
Di fronte ad una rivoluzione dal mondo della produzione che sta cambiando la figura e le prerogative del lavoratore il sindacato non può trincerarsi in una battaglia di retroguardia interessandosi solo alla difesa e alla salvaguardia dei diritti di chi già lavora, senza preoccuparsi di estendere quei diritti a chi nel mondo del lavoro deve entrare, se non vuole estinguersi con il pensionamento dei quarantenni.
Il paese ha un bisogno estremo di nuovi posti di lavoro, ma ha pure bisogno di non perdere quella dignità del lavoro e quella coscienza del lavoratore che sono il frutto di un secolo e mezzo di lotte e di legislazioni sociali.
Sulla sensibilità dei giovani, sul loro disagio, sulla loro emarginazione è facile giocare, ma non è questo il tempo adatto per le strumentalizzazioni o per politiche giovanilistiche di corto respiro.
Partendo dal dato di una coscienza civile nuova questo movimento giovanile deve proporre al partito una riflessione per alzare il profilo dell'azione politica. I profondi mutamenti interventi nel corso di questo decennio hanno messo in discussione il primato della politica all'interno della società italiana.
All'ombra del decisionismo e della leadership dell'immagine si è prodotta una perdita di contenuti, della capacità programmatica e di potere reale da parte della classe politica.
La seconda rivoluzione industriale, la crisi del «welfare state», la delegittimazione del sindacato, sono fatti che hanno segnato la nostra storia recente e che per buona parte sono nati al di fuori della società politica e che la società politica ha inseguito e a volte subito.
Il neo-qualunquismo emergente non è un qualunquismo indifferente, ma il manifestarsi in certi strati dell'opinione pubblica della convivenza che sarebbe meglio sottrarre il centro delle decisioni al mondo politico.
È forte l'impressione che anche qui da noi, come in altri paesi dell'occidente, il mondo dell'economia sta cercando di stabilire un primato sulla politica e sulla società italiana.
Mentre si verifica tutto questo la vita politica assomiglia sempre di più a un'arena di scontro fisico tra potenti, in cui ciascun «protagonista» sta a rappresentare sempre più se stesso e sempre meno quegli interessi generali che dovrebbero legittimarlo.
Dobbiamo adoperarci per far uscire la politica da questa fase di situazionismo, per recuperare alla politica una visione strategica della società.
Il progresso tecnologico, con tutto quello di nuovo che sta producendo nel paese, non può essere governato dalla mera logica del mercato, perché la legge del mercato prescinde dalla morale, dando origine ad una sorta di nuovo «super-calvismo» che identifica nel vincitore e nel forte anche il buono e il giusto e che non rispetta il debole e l'escluso.
Sta a noi gestire il cambiamento con la politica che sia ancora occasione di speranza e che sia in grado di difendere la centralità della dignità umana nella società di domani.



















