Alle radici della disoccupazione
Uno degli aspetti più caratteristici degli anni '80 consiste nella contemporaneità di un alto tasso di disoccupazione e di una scarsa turbolenza nel sociale. Quando, già sul finire degli anni '70, si prospettò, nei principali Paesi ind,ustrializzati, la possibilità di una manovra di·compressione della domanda, dei consumi, dei redditi, della quantità di moneta e della spesa pubblica per combattere l'inflazione, il mondo accademico e scientifico – di ispirazione non monetaristica – reagì in modo debole: sulle prime si pensò che una tale manovra non 'avrebbe sortito alcun utile risultato; poi ci si accorse della gravità dei risultati delle manovre restrittive sul piano dell'occupazione e dei tassi di interesse, convinti che – specie nei regimi democratici – un eccessivo livello della disoccupazione avrebbe comportato una tale protesta da rimettere radicalmente in discussione le politiche economiche più o meno monetaristiche. Invece, tale protesta non ci fu e non c'è; e, in diversi ambienti, compreso quello cattolico, non sono pochi coloro che pensano o che il dato ufficiale della disoccupazione non sia veritiero o che, comunque, la gente non occupata a tempo pieno riceva un reddito tale da aver garantita, in ogni caso, la sopravvivenza.
Questa interpretazione non è inconsistente; tuttavia non spiega né la complessità del fenomeno attuale, né le conseguenze di esso sui vari aspetti dell'economia e, soprattutto, della convivenza civile.
Appare sempre più estesa la fascia delle persone, specie giovani, che debbono ricorrere ad espedienti per sopravvivere: a volte questi espedienti riguardano solo un sacrificio relativo a se stessi, come la forzata dipendenza finanziaria dai genitori che, comunque, non è un fenomeno neutrale – come si dimostrerà subito – per l'efficienza del sistema Italia; a volte si tratta di attività precarie e sottopagate oppure di «furbizie», tutti espedienti e situazioni che siamo portati – per una sorta di paternalismo sociologico tipicamente latino – a considerare con compiaciuto distacco; a volte, infine, si tratta di attività illecite o illegali, più o meno gravi, che vanno sotto l'etichetta di economia criminale e di cui esistono statistiche e stime non poco allarmanti.
Il fatto è che un alto tasso di disoccupazione può far discutere se, per le imprese, risulti ininfluente (con salari rigidi o poco flessibili verso il basso) o favorevole (con salari flessibili); ma, nella misura in cui comporta un insufficiente utilizzo degli impianti esistenti, abbassa la produttività e i guadagni delle stesse imprese (si tratta della «legge di Verdoom» ampiamente verificabile, per il nostro Paese, nelle statistiche correnti, ad esempio nei rapporti semestrali dell'ISCO). Ma la disoccupazione, ed è questo il suo effetto più importante, riduce l'efficienza del sistema complessivo perché implica che diversi milioni di persone – che potrebbero essere coinvolte nell'approntamento di beni richiesti sul mercato nazionale (e che poi si finisce per comperare all'estero) – risultano emarginate dai processi produttivi: così si spiazza una seria politica del rigore e la si confina nel mero ambito delle aziende in senso stretto senza poterla diffondere in tutta la società. Anche per questa via si aggravano i contrasti e le differenze interni al sistema. Inoltre, come si sa, la collettività paga cifre altissime – che si scaricano sul deficit statale – per questa situazione; la base produttiva del Paese si riduce e anche la bilancia con l'estero tende a peggiorare.
Ad un alto deficit statale dovrebbe corrispondere, contabilmente parlando, un «surplus» dei settore privato e delle imprese; ma, con alti tassi di interesse (in gran parte causati dai modi di copertura del deficit stesso), le imprese debbono liberarsi della manodopera per ridurre l'incidenza del capitale circolante (preso a prestito dalle banche) sul totale delle entrate. Così il deficit pubblico finanzia le imprese private, ma gli alti tassi di interesse (sul credito) suggeriscono a queste ultime di ridurre la loro esposizione debitoria verso le banche e, quindi, suggeriscono di non aumentare gli addetti e la stessa produzione. Se, in tale processo, non si influenzassero le prospettive di produttività e di profitto, l'effetto negativo dei tassi di interesse sarebbe controllabile, ma invece non è così. Ciò implica che la politica monetaria irrigidisce il tasso di disoccupazione e frena lo sviluppo produttivo: tale situazione fa aumentare e non diminuire il disavanzo statale e, in condizioni di «divorzio» tra Tesoro e Banca d'Italia, i tassi di interesse alti e le depresse prospettive di crescita spingono le imprese a non assumere nuovo personale. Così il ciclo perverso ricomincia e tutti gli operatori sembrano vincolati a tenere uno e un solo comportamento.
Ma sono anche mutate le caratteristiche strutturali della nostra disoccupazione? Il fatto è che, come si sa, la disoccupazione riguarda, sia al Nord che al Sud, soprattutto i giovani e le fasce cosiddette deboli del mercato; mentre non riguarda eccessivamente gli adulti del Nord dove, anzi, se sommiamo occupati e cassintegrati, otteniamo una quasi piena occupazione. La condizione giovanile appare, dunque, grave in tutto il Paese, anche se in misure diverse; finisce per riguardare pure le classi medio-alte (sebbene finora siario esistiti svariati modi per alleviare i problemi dei giovani appartenenti alle classi privilegiate). Per quanto riguarda gli ultra trentenni, invece, la governabilità del sistema non appare minacciata dalla disoccupazione degli adulti meridionali; e, anzi, risulta rafforzata proprio dalle circostanze di privilegio del Nord che, qui sta il punto, hà molta più forza politica – si pensi anche ai «mass media» – del Sud.
Ma i giovani delle classi alte, quando si troveranno di fronte lo spettro della disoccupazione o di un'esistenza troppo diversa rispetto alle loro possibili aspirazioni, potrebbero porre serie difficoltà al sistema se, entro i prossimi 5 anni, la situazione non dovesse presentare positivi cambiamenti.
Come si è già detto, in generale, le prospettive di sviluppo sono ostacolate da vari fattori, ma non dalla mancanza di sbocchi produttivi perché, oggi, esistono richieste disattese di merci e servizi da parte della collettività e, appunto, risorse disoccupate da impiegare.
In verità, sia le forze del mercato – nonostante la realizzazione di ampi profitti – sia le forze dello Stato stanno subendo lo scacco di una politica monetaria paralizzante; tuttavia vi sono, giova ancora ripeterlo, ampi spazi da sfruttare.
Le spese palesemente inutili degli Enti Locali, possono, ad esempio, essere riconvertite, in concomitanza con l'approntamento di procedure di spesa più snelle ed efficaci, verso servizi reali alle imprese che creino occupazione.
Esistono, ancora, leggi regionali – come quella della Regione Lazio del 22 febbraio 1985 – ed il D.L. del 24 ottobre 1985 «per la promozione e lo sviluppo della imprenditorialità giovanile nel Mezzogiorno». L'intenzione evidente di questi provvedimenti consiste nel tentare di stimolare le attività produttive gestite direttamente dai giovani, in alternativa alla loro domanda di posti di lavoro che, specie nella Pubblica Amministrazione, non sembra più posi,ibile sviluppare come in tempi passati. Ciò potrebbe determinare un'importante svolta, anche sul piano del costume, nel nostro Paese: invece della ricerca individuale del posto di lavoro (a volte attraverso l'avvilente e, oggi, non più tanto efficiente iter clientelare) si dovrebbe passare alla organizzazione, anzi, all'auto-organizzazione dei giovani stessi.
Il punto fondamentale, però, proprio per questo, non può essere rappresentato dal contributo pubblico ( che pure appare molto generoso per unità di investimento, nelle due leggi citate anche se ben lontano dal cogliere la portata quantitativa del fenomeno occupazionale), ma dal movimento che deve crearsi dalle logiche assistenziali alle logiche imprenditive. L'associazione permette un più razionale e controllato utilizzo delle infrastrutture di base già esistenti, ma può incontrare notevoli intralci nella fase di gestione: in primo luogo occorre inquadrare ambiti specifici (e non solo settori generali come la legge fa) dove con o senza i contributi pubblici è possibile che l'attività produttiva finanzi i posti di lavoro; in secondo luogo bisogna ricorrere a formule organizzative il più possibile semplici. In questo senso la cooperativa, cui la citata legge regionale fa un richiamo più stretto del D.L. del Mezzogiorno, può risultare di non facile utilizzazione e comprensione specie dove non c'è una radicata cultura cooperativa o nei settori produttivi che si presterebbero più ad essere gestiti in forma di semplice associazione che non di coope- rativa vera e propria.
Giovani insegnanti disoccupati o sottooccupati, ad esempio, che organizzino doposcuola a pagamento, così creando la possibilità di posti di lavoro stabili e di una diminuzione, per il pubblico, del costo di un'ora di ripetizione; centri culturali che preparino i più giovani per l'università, si occupino della compilazione dei moduli fiscali e simili, sappiano intervenire e cooperare con la gente per tutta una serie innumerevole di servizi e, a volte, di opportunità offerte dalle leggi locali o nazionali, ma inutilizzabili per le complicazioni burocratiche, eccetera; associazioni capaci di garantire un'adeguata assistenza anche domiciliare alle persone anziane, agliammalati e via dicendo; valorizzazione del patrimonio artistico, culturale e ambientale locale organizzando un flusso turistico regolare dalle metropoli; sono tutti esempi di una via che non è «assistenziale», ma nemmeno «di mercato» perché si accontenta di raggiungere, in qualche modo, un pareggio di bilancio (anche se possibilità di profitto, come si capisce, non sono escluse dalla forte domanda di servizi proveniente dalla collettività).
Ma, allora, l'aiuto più consistente che si può fornire alle imprese e ai giovani che vogliono risolvere autonomamente il loro problema dell'occupazione non è tanto quello dei contributi in conto capitale o in conto interessi (anche se, si sa, molte volte il costo del credito rappresenta una vera e propria barriera per iniziative nuove che, pur avendo buone prospettive, devono partire «da zero»). Appare, invece, più utile provvedere alla fornitura di servizi reali; ripristinare e riadattare infrastrutture pubbliche già esistenti; approntare materiale didattico e professionale, apparecchi ed attrezzature senza, però, far mancare quel minimo di assistenza tecnica che garantisce la corretta utilizzazione di tali materiali e che contribuisce a migliorare l'efficienza produttiva e organizzativa delle imprese locali e delle cooperative stesse.
La politica di risanamento, in conclusione, ha un senso preciso in quanto serve a colmare la lacuna che esiste, e che si è aggravata soprattutto in questi anni, tra imprese e amministrazione pubblica, restituendo imprenditività all'ambiente locale, cercando di chiudere i canali clientelari, imponendo alle autorità una maggiore valorizzazione delle risorse loro affidate. Ciò implica, altresì, un cambiamento di mentalità da parte dei cittadini che non devono più soltanto chiedere (un posto o un sussidio), ma darsi da fare, acquisendo anche un maggiore spirito collettivo, per conseguire i fini che ritengono, democraticamente, più opportuni. Non si vede, infatti, per quale altra strada – se non per il decentramento gestionale e finanziario fino alle più piccole unità locali – possa svilupparsi concretamente il disegno di rigore morale e civile.






















