Pari e patta negli atenei italiani
Non sono d'accordo con Giorgio Galli quando, sull'ultimo numero di Campus, rintracciava un interesse maggiore nelle ultime elezioni universitarie per il fatto che esse vengono prima delle consultazioni europee.
I dati che – faticosamente resi omogenei – sono oggetto di analisi, confermano che anche in questa tornata elettorale, gli universitari italiani hanno disertato in gran parte l'appuntamento del voto, e su questo non si possono stabilire affascinanti teorie di movimento dell'opinione giovanile «colta».
Sostanzialmente è confermato il trend che assesta sotto il 15-14% la percentuale complessiva dei votanti, con i picchi più alti nelle Università piccole e medie, ed i valori più bassi nei grandi Atenei.
Dati, questi, che ripropongono con forza il problema della legittimazione delle rappresentanze universitarie e – in positivo – delle nuove forme di coinvolgimento da ricercare.
Adesso, la partecipazione e l'impegno degli studenti produce un sistema elitario ed imperfetto di rappresentanza.
Si può comunque tentare di individuare alcuni fattori che provocano il disinteresse per le elezioni. Metterei al primo posto lo scarsissimo livello di informazioni che si realizza nel circuito dell'Università di massa. Sul dato generale di un milione e centomila studenti, quelli che frequentano e percepiscono l'atmosfera elettorale è una quota notevolmente inferiore. Addirittura, mancando un qualsiasi invito alla partecipazione garantito dalI' Università (sarebbe utile una sorta di certificato elettorale), l'evento-voto passa assolutamente ignorato e inosservato dalla maggior parte degli studenti: l'opera di sensibilizzazione è interamente a carico delle liste in competizione. Ma fondamentalmente, alla base della scarsa partecipazione c'è una assenza di senso comunitario, una percezione dell'Università come esamificio, un'identità incerta e negata dello studente, oggetto di selezione più che attore protagonista, quasi un inquilino molesto nel luogo della cultura.
Se a ciò aggiungiamo la limitata influenza della rappresentanza studentesca negli organi collegiali e la «invisibilità» del potere universitario che molto spesso si colloca fuori del circuito democratico e utilizza canali diversi dai consigli di amministrazione e forme occulte di pressione, il quadro sfavorevole è completo.
Si partecipa dove si conta davvero, e non dove si finge il gioco democratico. Per questo è più che mai opportuna un'iniziativa del Movimento giovanile per dare dignità alle rappresentanze studentesche, ad esempio attribuendo loro il voto deliberativo nei consigli di facoltà, dove si decide la gran parte dell'impostazione didattica delle nostre Università.
Ecco perchè – con questi dati sulla partecipazione – era una attesa vana quella di Giorgio Galli, e correttamente egli stesso dichiara la delusione di non trovare elementi di anticipazione del voto politico di giugno.
Più interessante sarebbe condurre un'analisi sullo stato dell'elaborazione politica e culturale delle diverse aree che si sono fronteggiate nella competizione intorno alle tematiche più innovative che riguardano l'università.
Temi come l'autonomia, il nuovo ministero per l'Università (sottratta alla Pubblica Istruzione), la riforma degli ordinamenti didattici, la ricerca scientifica, le nuove frontiere del diritto allo studio, che tipo di riscontro hanno trovato nei programmi delle liste?
La stampa nazionale è sollecitata, ha reagito alle elezioni rialimentando una riflessione sul ruolo dell'Università nel Paese? No.
A me sembra che sostanzialmente sia stata colta la competizione elettorale in Università come il campo di battaglia dove periodicamente le organizzazioni giovanili militanti riuniscono le forze.
Questo è vero in gran parte.
Le elezioni alimentano il senso di «appartenenza», ma il modo sovente approssimativo e superficiale con il quale vengono condotte le analisi del voto, nonché dei motivi reali delle distinzioni tra le liste – non aiutano alla comprensione. Ma poiché queste elezioni hanno segnato un salto di qualità, per quanto riguarda il Mg e la sua presenza in Università, è utile cogliere appieno anche questa prospettiva.
Complessivamente valutati, i risultati elettorali confermano il trend stabilizzatosi negli anni passati: l'area cattolica è saldamente attestata oltre il 40%; la sinistra recupera consensi in molti atenei (è tra il 22/24%), ma si infrange contro una realtà molto frammentata il tentativo della Fgci di unificarne (omogeneizzandole?) le diverse anime; tra il 1O e il 15% lo schieramento laico che a volte comprende anche il Movimento giovanile socialista; il Fuan e la destra confermano la loro sostanziale marginalità (tra il 3% e il 4%).
Un dato di novità è la presenza in alcuni Atenei di liste Verdi: un'affermazione significativa (se si tiene conto dell'esordio) a Milano e Bologna.
Se si osserva da vicino il risultato conseguito dallo schieramento che dichiara un'ispirazione cristiana, sono evidenti alcuni elementi di discontinuità rispetto al passato. I «Cattolici popolari» confermano, con alcune grosse defaillances, il primato della maggioranza relativa in Università. Il braccio universitario di Comunione e liberazione vede premiata la sua tradizionale presenza, sempre molto organizzata, di opere e supporti logisticoinformativi per gli studenti.
Accanto a Cl, e spesso in distinzione polemica ci sono i giovani che fanno capo al coordinamento di «Dialogo e rinnovamento» e i giovani Dc di «Alleanza studentesca», presenti con questa sigla in molti atenei (tra gli altri Palermo, Bergamo, Bari, Reggio Calabria, Cagliari).
A Roma (La Sapienza), ha avuto un buon successo la lista Ucad, mentre in altri Atenei (come ad esempio, Genova), i candidati del Giovanile sono stati i più votati nelle liste dei Cp.
Dunque, le esperienze universitarie che trovano un riferimento nel Movimento Giovanile hanno organizzato caso per caso la loro presenza.
È stato complessivamente ben accolto l'indirizzo della Direzione nazionale Mg, che sostanzialmente disegnava una politica di alleanza basata sul duplice criterio delle convergenze programmatiche e sul rifiuto di ogni subordinazione a stili di presunta egemonia in Università.
Questo nuovo modo (direi orgogliosamente interpretato dagli universitari democratici cristiani), di convivere con l'esperienza dei «Cattolici popolari» o di ritenerla per svariati motivi ormai esaurita ed impossibile, ha rafforzato e fatto maturare l'identità del Movimento negli atenei italiani.
Difficilmente si potrà tornare indietro, delegando la politica universitaria a stili di presenza ed a logiche di «occupazione» che gli studenti Dc hanno contestato.
Questa voglia di verificare se le nostre idee hanno il consenso e la forza per farsi progetto tra gli studenti hanno pagato duri prezzi soprattutto dove questa ripresa vitalità è stata considerata come una sorta di lesa maestà dagli amici di Cl.
I casi di Roma e Cagliari sono forse i più emblematici della durezza polemica che lo scontro tra le diverse formazioni ha assunto, riassumendo in maniera brusca gli antichi e ormai sedimentati motivi di differenziazione tra due modi di pensare e realizzare l'impegno dei cristiani in politica.
Ma adesso è il tempo dell'analisi e della gestione di un risultato da non sprecare. I giovani Dc hanno oggi rappresentanze in quasi tutti gli Atenei, un'elaborazione culturale e politica sull'Università da sviluppare, qualche complesso di inferiorità in meno. Tutto ciò non deve portarci ad assurde chiusure e farci dimenticare che è nostro il metodo del dialogo e del confronto con tutte le componenti universitarie.
Ma è un rischio che la nostra tradizione ci porta a correre meno di altri.






















