Energia nucleare

Dolce verde o nucleare?

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La riflessione sul piano energetico italiano langue, mentre si scatena la ridda delle dichiarazioni politiche. È possibile ripartire da una riflessione sullo sviluppo prossimo venturo? Un punto di non ritorno.

Avevamo preparato un articolo sull'energia nucleare all'inizio di quest'anno. Giovedì 28 novembre 1985, il Parlamento aveva approvato una mozione di aggiornamento del Piano Energetico Nazionale e la circostanza, se si eccettua un dibattito abbastanza vivace su «Rinascita» tra Nicky Vendola e Gianfranco Borghini, stava passando quasi del tutto inosservata.

Il piano energetico nazionale

Il Piano Energetico di fine '85, in verità, diceva cose molto importanti: vediamole in sintesi, chiedendo un po' di pazienza al lettore. In primo luogo diceva che il fabbisogno energetico complessivo del nostro Paese, anche per effetto dei risparmi incentivati dalla 1.308 del 1982, sarebbe cresciuto in misura inferiore a quanto previsto quattro anni prima: 145 Mtep (1 Mtep = 1 miliardo di tonnellate di petrolio equivalenti) nel 1985 (anziché 165), dalle 152 alle 164 Mtep nel 1990 (anziché 185), dalle 163 alle 167 Mtep nel 1995. Poi stabiliva che la produzione di energia elettrica avrebbe dovuto passare dalle 46,5 Mtep del 1985 (32% dell'energia complessiva consumata nei nostro Paese, compresi dunque gli impieghi per trasporti, riscaldamento, petrolchimica, ecc., pari – come si è visto – a 145 Mtep nel 1985) alle 56 del 1990, alle 65 del 1995. E infine prevedeva che, per guadagnarsi una certa indipendenza sul terreno energetico, il nostro Paese – tradizionalmente povero di risorse nazionali (la geotermia e la idroelettricità, più le fonti minori, non hanno mai fornito più del 20% della domanda complessiva) – avrebbe dovuto diversificare ulteriormente i propri fornitori e soprattutto ridurre drasticamente le importazioni di petrolio, pari a circa 86 Mtep nel 1985 (oltre il 60% dell'energia totale), per un costo calcolato intorno al 5% del P.I.L. del medesimo anno. Per raggiungere quest'ultimo obbiettivo, il Piano Energetico del 1985, puntava soprattutto sul carbone e sull'atomo: in particolare, per quanto riguarda l'energia nucleare, si prevedeva che essa passasse da 1,5 Mtep del 1985 (pari a poco più dell'1% dell'energia totale consumata e al 3,9% dell'energia elettrica prodotta) ai 4 Mtep del 1990 e ai 7-9 Mtep del 1995 (pari rispettivamente al 7,1% e al 13-14% dell'energia elettrica totale prodotta nel nostro Paese in tali anni). In sostanza, questo significava che – accanto ai tre impianti nucleari attualmente in funzione nel nostro paese (Caorso, Latina e Trino Vercellese), e a quello attualmente in costruzione a Montalto di Castro, a quello già appaltato (sempre) a Trino Vercellese, e a quelli previsti a San Benedetto Po (Lombardia) e ad Avetrana (Puglia), oltre al reattore sperimentale (PEC) esistente a Brasimone sull'Appennino Tosco-Emiliano – altri impianti nucleari per circa 4000 MW avrebbero dovuto essere localizzati entro il 1988 secondo le complesse procedure previste dalla l. 393 del 1975.

Come sì può vedere, non si trattava certo di noccioline e – si fosse o meno d'accordo sul merito – stupiva alquanto che tutto avvenisse nella sonnolenza generale; o meglio, non stupiva solo i pochi avvertiti che hanno finalmente capito che, nel nòstro paese, le questioni politiche sostanziali interessano giornali e pubblica opinione soltanto quando fanno colore.

Dopo Chernobyl

Dopo Chernobyl comunque anche il nucleare_ètornato a fare colore, e la paura della nube radioattiva ha svegliato il mondo politico e la gente della strada da quella sorta di inerzia pilatesca che caratterizzava un po' tutti, tranne forse i sindaci dei paesini che hanno le centrali nucleari alle porte.

In Europa, l'evento catalizzatore è stato il Congresso delle SPD a Norimberga che, il 28 agosto, ha sancito ufficialmente che, in caso di vittoria alle prossime elezioni, il partito perseguirà una linea di abbandono dell'energia nucleare (attualmente il 32% dell'energia elettrica prodotta, con 15 centrali in funzione) entro un arco di tempo decennale. Su toni analoghi, il Congresso del partito laburista a Blackpool (1-4 ottobre). Solo in Francia, dove oltre 40 centrali nucleari producono quasi il 70% dell'energia elettrica complessiva, tutto sembra tacere.

In Italia, invece, il dibattito è vivacissimo, seppure con le tinte guascone che gli interventi del Partito socialista fanno regolarmente assumere ai dibattiti nostrani.

Il 6 agosto, oltre un milione di firme sono state depositate negli scantinati della Corte di Cassazione in appoggio al referendum popolare pro o contro le centrali nucleari. Il PCI, che al Congresso dell'8 aprile aveva votato a maggioranza una mozione di appoggio al Piano energetico nazionale, ha promosso la raccolta di firme per un referendum consultivo in argomento, da tenersi se e quando una modifica dell'art. 7Costituzione avrà introdotto questo istituto nel nostro ordinamento.

Il PSI, soprattutto, che nell'editoriale di giugno del proprio mensile «Mondoperaio» aveva ribadito l'appoggio alle centrali nucleari, ha fatto macchina indietroe, per bocca di Martelli, reduce da Norimberga, ha lanciato in grande stile la campagna contro il nucleare civile (suggellata per ora da un importante convegno romano del 16-17 settembre) in attesa che il Congresso del partito del prossimo anno ratifichi ufficialmente il «motu proprio» dell'attivissimo vice segretario.

Tutto il resto è storia recente: nella difficoltà dei partiti di pronunciarsi definitivamente sul problema – anche per la mancanza di informazioni complete – si è deciso nel frattempo di rinviare il tutto ad una grande «Conferenza nazionale sull'energia», organizzata dal Governo per il mese di dicembre, in cui le forze scientifiche, politiche e produttive del Paese dovrebbero dibattere sul problema dell'energia nucleare, senza limite di argomento.

Pro o contro le centrali nucleari?

Come orientarsi allora in questa situazione?

Per la verità le ragioni in favore dell'uno o dell'altra soluzione sono note da tempo e non sono cambiate dopo Chernobyl. In sintesi, i favorevoli partono dalle deficienze delle altre fonti tradizionali come il petrolio e il carbone, che sono o sarebbero in via di esaurimento e, comunque, di difficile reperibilità e quindi di alto costo, nonché di-natura altamente inquinante; notano invece che, mediante la fissione dell'uranio, materia prima ancora disponibile in quantità rassicuranti, è possibile produrre energia a costi notevolmente più bassi e sostengono che, in condizioni normali di funzionamento, le centrali nucleari sono in assoluto le meno inquinanti; inoltre, pur ammettendo la possibilità di incidenti, la confinano in un ambito puramente teorico, almeno per le centrali costruite secondo i criteri e le norme di sicurezza normalmente in uso nel mondo occidentale (e questo specie dopo aver conosciuto i meccanismi che hanno innescato l'incidente di Chernobyl, secondo la versione ufficiale fornita dagli scienziati russi all'Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica il 16 agosto di questo anno); infine – come già accennato – sottolineano il fatto che l'energia nucleare, dipendendo prevalentemente da know how tecnologico, è maggiormente idonea a garantire l'indipendenza nazionale rispetto a tipi di energia che dipendono sostanzialmente dall'importazione della materia prima. Se non bastasse, si chiedono a cosa servirebbe la chiusura delle centrali in Italia, quando il Mondo e l'Europa ne sono pieni!

Dall'altra parte si replica che, se è vero che i rischi di incidente sono bassi (quanto bassi resta però sempre opinabile), è vero anche che i danni derivanti da un incidente nucleare sono comunque gravissimi e permanenti, neanche confrontabili ad esempio con il dissesto ecologico che potrebbe essere provocato dal peggiore incidente di una centrale a carbone; che poi le scorie radioattive normalmente prodotte da una centrale nucleare, anche se volumetricamente ridotte, sono destinate ad accumularsi nel tempo con delicatissimi problemi di confinamento e di controllo e con gravissima eredità per le generazioni future; che in realtà le stime sul fabbisogno energetico sono gonfiate artificiosamente per l'interesse degli Enti preposti al Governo del settore e che comunque – con un'azione intelligente di risparmio energetico e di valorizzazione delle energie rinnovabili – sarebbe possibile coprire adeguatamente la domanda di energia, creando oltre tutto nuove occasioni di lavoro;_ che le centrali nucleari, specie se costruite con i nuovi criteri di sicurezza, hanno in realtà costi del tutto antieconomici e che comunque – per le dimensioni richieste e per le necessarie misure di salvaguardia – sono portatrici di una spinta accentratrice nella vita economica e di una tendenza autoritaria sul terreno politico. Infine, se anche gli altri hanno centrali nucleari, qualcuno che inizia ci vuole sempre e l'Italia non dovrebbe neanche sforzarsi troppo, visto l'impegno ridotto profuso sin qui nel settore incriminato.

Fermiamoci qui.

Un problema da risolvere

Bisogna confessare subito che la prima tentazione, specie per chi proviene da una tradizione di pensiero personalista e comunitaria e crede fermamente in un rapporto non aggressivo con l'ambiente naturale, sarebbe quella di dire che abbiamo sbagliato tutto. Abbiamo sbagliato a creare un mondo in cui produzione e consumo sono fondamento, tramite e obbiettivo ultimo dei rapporti umani e dove per produrre sempre di più, sono necessarie sempre meno persone e sempre più energia, alberi abbattutti, solitudine e pubblicità. Abbiamo sbagliato e se vogliamo invertire l'ordine delle cose dobbiamo cominciare ad abolire le centrali nucleari, simbolo del trionfo della macchina sull'uomo, e a promuovere l'impiego delle energie «dolci», adatte alle piccole comunità autogestite e non ai giganti delle imprese multinazionali.

Ma è evidente che si tratta di una tentazione tutta letteraria e che, fin quando non avremo individuato gli elementi di fondo per una strategia di transizione verso una società in cui «il sabato sia 

fatto per l'uomo», il rispetto delle coordinate di fondo è una esigenza imprescindibile per ogni politica.

Diversamente sarebbe il caos, e la storia ci ricorda quante volte chi è partito per dare l'«assalto al cielo», con troppa poesia nella bisaccia, non ha risolto i problemi e ha viceversa conculcato la libertà degli altri.

Nel caso specifico, sarebbe grottesco ad esempio compiere scelte spettacolari di rinuncia all'energia nucleare, se poi si dovesse importarla dall'estero o si dovesse riempire il nostro paese di centrali a carbone, che il cielo lo assaltano davvero perché lo anneriscono di agenti cancerogeni.

In sostanza il problema non può prescindere, per il momento, da un calcolo preciso dell'energia che ci serve e del prevedibile rapporto tra costi e benefici per ogni specifica fonte, secondo il prevedibile scenario di evoluzione naturale della società nei prossimi anni: solo all'interno della gamma di opzioni risultanti è possibile scegliere.

La conferenza sull'energia: uno strano caso di conferenza utile!

Impostato il problema in questi termini, cioè in termini concreti di alternativa, bisogna riconoscere che allo stato attuale chiunque di noi potrebbe fare soltanto scelte per la platea, dettate da motivi di immagine o di ideologia. Troppo poco.

E non perché non si sia parlato abbastanza di energia nucleare dal giorno della nube radioattiva in poi, ma perché – come è stato efficacemente detto – dal dibattito su Chernobyl si è levata una seconda nube, quella dei tecnici. E oggi siamo costretti a ragionare su dati, di cui non conosciamo l'attendibilità, perché sono esattamente l'oggetto della contestazione.

Riprendiamo qualche esempio. Sulla richiesta di energia elettrica per il 1995, il Piano Energetico Nazionale fa stime intorno ai 290 miliardi di KWh, mentre i fisici Mattioli e Scalia, ascoltati corifei dello schieramento antinucleare, parlano al massimo di 240 miliardi di KWh, in considerazione della riconversione dell'economia verso il settore terziario, notoriamente meno energivoro di quello industriale. Sulle alternative tradizionali al petrolio, il Ministro De Michelis dice che «l'Italia ha tanto di quel metano da potersi garantire l'autonomia energetica da oggi fino al giorno in cui saremo arrivati a produrre energia con la fusione» (Repubblica del settembre 1986); dall'altra parte si replica che il prezzo del metano crescerà in progressione geometrica nei prossimi anni (Prof. Amman della Bocconi su «Repubblica» del 26 settembre 1986) e che comunque usare il metano per l'energia lettrica e per il riscaldamento comporta sprechi da criminali (Ugo Facchini, professore di Fisica applicata all'Università di Milano, «Repubblica» 26 settembre 1986). Sulle potenzialità delle energie rinnovabili e delle azioni di risparmio energetico, Mattioli e Scalia, nel documento pubblicato sulla rivista «Airone» del giugno 1986, fanno stime intorno ai 39 Mtep per il 1994; sull'altro fronte, il Prof. Vaccà della Bocconi dice testualmente che «se vogliamo parlare sul serio di risparmio e di alternative al nucleare, lasciamo perdere le favole del vento, del sole e delle biomasse», mentre il fisico Zorzoli dice che il risparmio energetico sul quale vengono fatti i calcoli visti sopra presuppone turni di lavoro notturno generalizzati e ferie superscaglionate che in Italia non sarebbero possibili neanche con i carri armati per le strade. E così, per i costi dell'energia nucleare, per i danni da radiazioni e per tanti altri problemi, senza voler menzionare il capitolo miste-rioso e suggestivo della «fusione nucleare», che secondo alcuni sarebbe quasi esclusivamente un problema di investimenti, mentre secondo altri si allontana sempre più man mano che progrediscono le nostre conoscenze (vedi ad esempio il servizio «Fusione e confusione» sull'«Espresso» del 21 settembre 1986).

La sensazione insomma è che, allo stato attuale, per fare una scelta, bisognerebbe decidere preventivamente di quale tecnico fidarsi, magari soltanto per confermare una scelta pregiudiziale. Mentre una informazione corretta, la sola che possa fare da supporto a scelte di tale importanza, deve essere in grado di spiegare, nel confronto diretto, tutti gli elementi e i passaggi dei propri calcoli, e non solo il risultato finale, mutuato magari da non identificati «esperti», «indagini», o statistiche.

In conclusione, bisognerà fare in modo che l'occasione offerta dalla Conferenza sull'Energia di dicembre non sia sfruttata dai suoi protagonisti soltanto come cassa di risonanza per ripetere le proprie teorie ad una pubblica opinione sostanzialmente sprovveduta, secondo le regole della politica spettacolo, ma perché ognuno di essi spieghi – sotto i riflettori della critica – attraverso quali passaggi ha raggiunto certi risultati, dimostrandone l'attendibilità. D'altra parte, proprio l'inevitabilità del confronto diretto, dovrebbe mettere a nudo – all'occhio di un osservatore attento –quali sono state le affermazioni gra- tuite e chi è che ha prematuramente sparato sentenze.

Conclusioni

Quello dell'energia è il prototipo dei problemi «epocali» che la generazione dell'attuale Movimento Giovanile si troverà di fronte durante il suo percorso. È un problema che – come accennato – presenta richiami simbolici molto forti, come i rapporti uomo-macchina, uomo-natura e uomo-uomo, e questo significa che è in grado di richiamare l'attenzione della gente anche prima che il black-out ne dimostri l'incidenza concreta sulla vita quotidiana. Purtroppo è anche un problema, la cui complessità e la cui interdipendenza con altri, scoraggiano spesso dal cercare una soluzione organica a livello politico e ci fanno ritenere paghi di aver trovato una parola d'ordine più o meno credibile, su cui speculare un po'. Si può anche fare così e, con un po' di abilità, è anche possibile continuare a mandare gente in Parlamento. Èdubbio però che, senza un nuovo rapporto tra cultura, informazione e politica, sia possibile fare quella «nuova politica» che consiste nell'affrontare i problemi veri di tutti e non quelli, veri o falsi, dei propri amici e protetti. Ecco, la questione dell'energia – anche se con un po' di fatica – è un'occasione per provarci!

Obiezione... vostro disonore
Stefano Sandroni
Un punto di non ritorno
Dario Franceschini

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