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Tecnologia pulita e società dei rifiuti

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Nuova Politica - Tecnologia pulita e società dei rifiuti
Nuova Politica - Tecnologia pulita e società dei rifiuti

Tra le numerose direzioni di intervento per un'efficace tutela dell'ambiente quella volta allo smaltimento dei rifiuti è, alla luce obiettiva della cifre, la più influente ai fini del risanamento dei danni da inquinamento. In Italia si producono infatti ogni anno 14 milioni di tonnellate di rifiuti solidi urbani; quotidianamente vengono cioè smaltiti oltre 300 mila quintali di rifiuti, dei quali il 74% senza recupero del potenziale energetico in essi contenuto, e il 26% senza alcun trattamento.

Lo smaltimento dei rifiuti è pertanto un'attività di notevole portata, con contenuti di interesse pubblico. È quindi esplicitamente regolamentata dal Dpr 915 dell'82. Il servizio di smaltimento dei rifiuti urbani è affidato al Comune, che interviene con aziende municipalizzate o imprese del settore. La legge 650 del '79, poi, incarica i Comuni circa il controllo dello smaltimento dei «fanghi». Le Regioni rilasciano le autorizzazioni a chi opera lo smaltimento e predispongono i piani per l'esecuzione. L'autorità statale ha competenze di indirizzo e coordinamento con il Comitato interministeriale eredità della legge 319 del '76. Come ampiamente noto, la classificazione dei rifiuti segue tre linee; i rifiuti urbani, che sono quelli per i quali esistono attualmente maggiori informazioni; i rifiuti speciali, che incorporano quelli derivanti da attività economiche; i rifiuti che la direttiva Cee definisce «toxique et dangereux», quelli tossici e nocivi. I dati, appunto, fanno riferimento essenzialmente al problema urbano, inteso come rifiuti derivanti da beni di uso comune, di impiego domestico, ecc.

Dei rifiuti solidi urbani smaltiti ogni giorno ben il 26,4% viene indirizzato verso discariche semplici (o incontrollate, per abolire inutili eufemismi), vale a dire che vengono scaricati senza alcun trattamento in un certo luogo; al più vengono bruciati. Il 35% viene scaricato in aree determinate e periodicamente interrato: è la cosiddetta discarica controllata. Ma, come informa l'interessante volume di «Statistiche ambientali» pubblicato dall'Istat nell'84, solo lo 0,1% è trattato in impianti di riciclaggio, che del resto la tecnologia mette a disposizione da tempo. Una cifra francamente risibile.

Il laborioso sforzo comunitario che ha condotto all'approvazione delle direttive Cee sui rifiuti (e in Italia al Dpr 915) è scaturito esattamente dall'esponenziale crescita quantitativa dei rifiuti, con le pericolose conseguenze qerivanti per l'igiene ambientale. I primi programmi, nel 1973, oltre a sottolineare come il problema costituisse un fattore inquinante reale, indicavano la potenzialità economico-energetica dei rifiuti. Un chiaro invito, perciò, allo sviluppo dei processi per riutilizzare le materie contenute nei rifiuti.

Come sottolinea il magistrato Amedeo Postiglione, coordinatore del gruppo «Ecologia e territorio» della Corte di Cassazione, «con il Dpr 915 veniva data attuazione congiunta a tre importanti direttive Cee.in materia di rifiuti, di smaltimento di Pcb (pliclorodifenili) e Pct (pliclorotrifenili), dei rifiuti tossici e nocivi.

La legge dà una definizione di rifiuto·come ·qualsiasi sostanza·od oggetto, derivante da attività umane o da cicli naturali, abbandonato o destinato all'abbandono. È opportuno sul punto richiamare la legge della Regione Lombardia del 7 giugno 1980, n. 94, che all'art. 2, considera, invece, rifiuto le cose di cui il detentore si disfi o abbia l'obbligo di disfarsi a norma di legge. Perché il legislatore italiano ha sentito il bisogno di dare una definizione di rifiuto?

A questa domanda è opportuno fornire una risposta, se possibile, in termini di coerenza giuridica tenendo presente che in Italia, come in altri Paesi, i rifiuti in senso ampio sono disciplinati non da una sola, ma da un insieme di leggi settorali e parziali, interventute in tempi diversi. È significativo che il legislatore nella legge specifica sui rifiuti senta il bisogno di richiamare altre norme che rimangono in vigore: evidentemente tali norme devono riguardare anch'esse dei rifiuti o materie analoghe.

La filosofia della legge italiana sembra ispirata ai seguenti principi generali:

  1. la prevenzione (attraverso la riduzione della quantità dei rifiuti e, benchè sia solo implicito, attraverso una loro diversa qualità, mediante nuovi tipi, modi e cicli di produzione);
  2. l'utilizzazione economica dei rifiuti come risorse (attraverso il riciclaggio e la riutilizzazione);
  3. l'eliminazione dei residui non recuperabili senza danno all'ambiente (in cui vanno fatti rientrare i concetti di salute individuale e collettiva, le patologie ambientali alle risorse naturali e culturali).

In conclusione, una definizione giuridica di rifiuto come sostanza od oggetto abbandonato nel sistema serve soltanto a completare le normative di settore esistenti (per gli scarichi nelle acque pubbliche; per le immissioni nell'atmosfera; per le sostanze pericolose immesse nel mercato), rendendo, però, necessario un riesame complessivo che dovrebbe partire da alcuni criteri elementari: l'ambiente è costituito da acqua, aria e suolo, nonchè dai rapporti di tali elementi tra loro e con qualsiasi essere vivente (vegetale ed animale); costituisce rifiuto qualunque sostanza pericolosa per l'ambiente derivante dall'attività umana; di conseguenza concettualmente sono dei rifiuti le immissioni nell'atmosfera, il contenuto degli scarichi nelle acque, le sostanze pericolose contenute nei prodotti messi in circolazione, anche se assoggettati a specifica disciplina, pur sempre complementare; i criteri per stabilire la pericolosità devono essere il più possibile uniformi, a prescindere dal momento dello scarico nell'ambiente e del settore ambientale interessato nella prima fase di impatto (acqua, aria e suolo), stante la profonda unitarietà ed il dinamismo delle relazioni ambientali; la pericolosità va stabilita su basi specifiche, in via preventiva, sulla base di una valutazione duplice: la pericolosità intrinseca dei costituenti, la pericolosità dell'impatto ambientale; i parametri di riferimento delle normative di settore (aria, acqua, suolo) devono essere rivisti per evidenziare la loro accettabilità scientifica e l'operatività; non si può accettare la logica giuridica di un rifiuto da abbandonare nell'ambiente, sia pure con alcune cautele; di qui l'esigenza di tecnologie pulite e di una metologia di riciclo e riutilizzazione; la preyenzione nella tutela ambientale è l'bpposto di una concezione che accetti la realtà del rifiuto da abbandonare nell'ambiente.

La legge non può a priori, allo stato attuale, eliminare i comportamenti umani che determinano il formarsi di rifiuti; ma può e deve escludere una legittimità a comportamenti non giustificati da ragioni di utilità sociale.

Di conseguenza, la nozione di rifiuto deve essere ampliata; deve essere individuata in essa la catatteristica rilevante giuridicamente, costituita non dal mero abbandono, ma dall'offensività per l'ambiente; deve essere individuato il comportamento umano prevalente da sanzionare sul piano preventivo e successivo; deve essere chiarito, infine, il carattere dinamico e non statico della nozione di rifiuto, precisando opportunamente i comportamenti attivi di prevenzione e riparazione da esigere dai singoli cittadini e dai produttori di rifiuti e dagli altri soggetti interessati.

Vi è infine, l'aspetto dell'applicazione delle norme. Dietro le ormai consunte immagini di distese di rifiuti, emblema scontato della società industriale stile «anni Sessanta», si trovano pluralità amministrative e istituzionali piuttosto articolate (di cui in precedenza si è accennato).

Il problema, come del resto tutte le tematiche ambientali, ha assunto rilevanza nazionale e regionale, comunale e comunitaria. Ma, ad esempio, secondo recenti stime oltre il 90% dei Comuni è sprovvisto di sistemi di recupero e riciclaggio; il dettato normativo sovranazionale, dopo essere stato calato nella realtà dei Paesi membri, va ratificato in sede locale. Alcune Regioni si sono dotate di misure addirittura più avanzate di quelle della nazione, ma quante altre ignorano il problema? La Regione Lombardia rientra tra le prime. E, in effetti, come ebbe a dire l'assessore ali'Ambiente Vittorio Rivolta, «interventi efficaci per lo smaltimento dei rifiuti sono possibili soltanto in presenza di scelte precise, da parte di chi ha il compito di farle, e di indicazioni normative e comportamentali altrettanto chiare per chi deve attuare queste scelte. Ciò perché essendo ancora lontani, come mentalità ed organizzazione generale, dalla futuribile e futura attuazione del concetto di «antinquinamento» (cioè vivere e produrre senza provocare residui inquinanti da innocuizzare e smaltire) ovvero, riprendendo un termine di moda, di "tecnologie pulite", dobbiamo continuare ad operare per il "disinquinamento"».

Intervenire sul problema «rifiuti», uno dei nuclei del degrado ambientale, vuol dire arricchire vieppiù la coscienza civile del Paese.

Ma determinanti e risolutivi, in questa visione, risulteranno la volontà politica e l'impegno operativo dell'ente locale, del resto sanciti anche dalla legge 475 dell'88. Tale normativa, relatore l'on. Giancarlo Galli, vale la pena di ricordarlo, nasce da un decreto del ministro dell'Ambiente Ruffolo che, fortunatamente, il Parlamento ha riscritto in maniera pressochè totale. Il testo porta ora ad una equilibrata divisione dei compiti tra il governo centrale e Regioni (il Ministero dell'Ambiente stabilisce gli indirizzi generali riservandosi il diritto di supplenza in caso di inadempienza; le Regioni si assumono la responsabilità di pianificare e realizzare le opere) e introduce per gli impianti di smaltimento dei rifiuti tossici e nocivi la normativa di valutazione di impatto ambientale.

Va detto che questo testo venne varato in tempi brevi dopo l'odissea, nell'estate '88, della Karin B. «Se nell'estate non avessimo avuto – precisa il prof. Antonio Tamburrino, docente di politica dell'ambiente alla Luiss – le vicende per certi aspetti tragicomiche delle navi dei veleni, non saremmo arrivati a proporre le ultime normative emanate dal Ministero; e a riprova dell'approccio di non grande ampiezza visuale sta il fatto che non di leggi si è trattato ma sempre e comunque di decreti, cioè di provvedimenti che si prendono in casi di emergenza e non dopo attenta ponderazione».

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