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I rischi industriali e la direttiva di Seveso

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Nuova Politica - I rischi industriali e la direttiva di Seveso

Il 10 luglio 1976, pochi chilometri a nord di Milano, uno stabilimento per la produzione di numerosi composti chimici subiva un'avaria. All'interno del reattore per la produzione di triclorofenolo un'esplosione generava un'intensa nube. Gli agenti atmosferici diffondevano questa nube nel territorio presso lo stabilimento. I tecnici riscontravano nell'ambiente la presenza di «Tcdd». Trascorsi sette giorni dall'incidente, i primi 13 bambini venivano ricoverati: le evacuazioni, gli ulteriori provvedimenti sanitari seguiranno progressivamente gli eventi.

L'impianto industriale era l'lcmesa, a Seveso. E la strana sigla «Tcdd» stava a significare «tetra-clorodibenzopara-diossina». Si trattava di un disastro di contaminazione senza precedenti nel mondo industrializzato, il cui epilogo è purtroppo a conoscenza di tutti.

La sciagura di Seveso, carica anche del dramma di anni ed anni di lavoro per le bonifiche e il disinquinamento, ha subito imposto, e non solo al nostro Paese, un'azione politica. Nel giugno dell'82 la CEE ha varato una specifica direttiva sui grandi rischi industriali, detta «direttiva Seveso». La direttiva inquadra tutti gli impianti che, per caratteristiche intrinseche e processi di produzione, possono potenzialmente rappresentare un rischio per l'ambiente e quindi per la salute pubblica: impianti per produzione, trasformazione, trattamento di sostanze chimiche; per distillazione, raffinazione, eliminazione di sostanze mediante combustione o decomposizione; produzione o trattamento di gas energetici, metalli e metalloidi; depositi di gas e liquidi infiammabili.

Già nel 1934 il legislatore italiano si poneva il problema, un regio decreto stabiliva infatti che «le manifatture o fabbriche che producono vapori, o gas o altre esalazioni insalubri o che possono riuscire in altro modo pericolose alla salute degli abitanti sono indicate in un elenco diviso in due classi. La prima classe comprende quelle che debbono essere isolate nelle campagne e tenute lontane dalle abitazioni; la seconda quelle che esigono speciali cautele per l'incolumità del vicinato».

La legge 615 del '66 prevedeva che «nell'elaborazione dei piani regolatori comunali, intercomunali e interprovinciali, deve essere tenuta in particolare considerazione l'ubicazione delle zone o distretti industriali rispetto alle zone residenziali, tenendo nel dovuto conto il comportamento dei fattori meteorologici».

I principi su cui faceva leva la direttiva Cee erano: la classificazione degli impianti e delle sostanze nocive; l'analisi di sicurezza degli impianti «a rischio di incidenti rilevanti» con individuazione del relativo impatto ambientale; individuazione dei criteri di sicurezza da adottare nella progettazione dei nuovi impianti; definizione dei criteri di revisione da applicare agli impianti in esercizio; definizione delle procedure di gestione e controllo degli impianti; predisposizione dei piani di sicurezza.

La direttiva appare chiaramente come una norma quadro che abbraccia l'intero aspetto dei grandi rischi industriali. Ma l'impegno contenuto affinché tali norme divenissero legge per i singoli Stati membri entro l'8 gennaio 1984 non è stato mantenuto da numerose nazioni, tra cui, va detto con rammarico, l'Italia, che proprio dopo Seveso si era fatta promotrice di questo provvedimento. La scadenza, per dovere di cronaca, è stata onorata solo dalla Francia, dalla Gran Bretagna e della Germania Federale.

Dall'altra parte, nel nostro Paese, sono presenti comunque delle importanti iniziative. Nel febbraio 1985 l'allora ministro della Sanità Degan, con un'ordinanza, dà applicazione ai punti più urgenti della direttiva Seveso, promuovendo un'accurata indagine sulle 10 mila industrie virtualmente classificabili come «stabilimenti con rischio di incidente rilevante». Il censimento, curato dall'Ispesl (Istituto Superiore per la Prevenzione e la Sicurezza del Lavoro), ha dimostrato come ben 391 stabilimenti utilizzino sostanza pericolose in quantità superiori ai limiti della direttiva, e oltre 2 mila impieghino comunque tale sostanza nei cicli di produzione. Nel gennaio '80 (dopo pochi giorni dall'incendio catastrofico del deposito di combustibili Agip di Napoli) un decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri istituiva un Comitato di coordinamento per la sicurezza nel settore industriale, presieduto dal ministro per la Protezione Civile.

Solo il 17 maggio 1988 però viene emanato un DPR che recepisce la direttiva Seveso a pieno titolo. Anzi, forse per un tentativo di giustificare il grave ritardo nel recepimento rispetto gli obblighi comunitari, l'Italia ha intrdotto norme ben più restrittive di quelle indicate dalla Cee. I progressi ottenuti sul piano scientifico e delle applicazioni tecniche in ordine al disinquinamento non possono tuttavia costituire un incentivo a ritardare dei provvedimenti concreti. I disastri che ricorrono, in Italia e nel mondo, rischiano di compromettere i vantaggi conseguiti con lo sviluppo.

Seveso è ancora un monito di come la mancanza di informazioni, e di provvedimenti conseguenti, possa condurre all'impossibilità di prevenzione primaria per la salute dell'uomo.

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