Quando una legge sbaglia
È certamente utile, a qualche anno di distanza, cercare di leggere i dati riguardanti l'applicazione della legge 194/78 sulla «tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria della gravidanza», ripensando al dibattito, spesso acceso, che animò il Paese in occasione del referendum sulla stessa legge. Pareva, in quei giorni, che l'Italia fosse spaccata in due: da una parte quanti si ostinavano a dire no all'aborto in nome di valori irrinunciabili, esponendosi alle critiche sprezzanti di quanti, l'altra parte, sostenevano di difendere una conquista sociale, attaccata da chi non voleva capire che si trattava non di introdurre un mezzo per il controllo delle nascite ma di «sconfiggere la piaga dell'aborto clandestino».
Tralasciando, in questa occasione, ogni valutazione circa la tutela del diritto alla vita del concepito, valore irrinunciabile attorno al quale ogni giorno dovremmo mobilitare le nostre coscienze, vale la pena rileggere qui le argomentazioni di quanti lottavano per «difendere» la legge, in base ad alcuni dati ufficiali della Regione Emilia-Romagna, citata tante volte come esempio di una «corretta» applicazione della 194, sulle interruzioni volontarie della gravidanza.
Nei primi sei mesi del 1984 gli aborti volontari sono stati nella regione 11.187 (61 ogni giorno); l'art. 1 della legge (al centro di tante discussioni nei giorni del referendum) recita al 2° comma: «L"interruzione volontaria della gravidanza, di cui alla presente legge, non è mezzo per il controllo delle nascite». Al di là dei numeri assoluti suindicati, già da soli più che espliciti, una lettura attenta dei dati forniti dalla Regione smentisce l'affermazione di principio della legge: su 11.187 donne che hanno interrotto volontariamente la gravidanza nel primo semestre 1984, 2.812 (25,1%) avevano già precedentemente abortito una o più volte (2.161 una volta, 464 due, 130 tre e 57 quattro volte). Come dire, allora, che l'aborto non sta divenendo un mezzo di controllo delle nascite, quando su quattro donne che abortiscono una ha già abortito almeno un'altra volta?
Un'ulteriore argomento dei difensori servito soltanto per i casi limite (secondo l'art. 4: stato di salute, condizioni economiche, familiari, sociali ecc.); oggi è possibile sapere che l'81,7% delle donne che hanno abortito fanno parte di una fascia d'età tra i 20 e i 39 anni e il 62,7% sono coniugate: si presume; quindi, nelle migliori condizioni per portare a termine una gravidanza; si aggiunga a ciò che soltanto il 3% sono minorenni, appena il 4,2% sono in cerca di occupazione e soltanto lo 0,4% ha interrotto la gravidanza dopo i 90 giorni per pericolo per la propria vita o per la salute.
Un ultimo dato, a conferma del rischio di vedere diventare sempre più l'aborto un mezzo di controllo delle nascite, riguarda la permanenza nelle strutture ospedaliere delle donne che interrompono la gravidanza: su 11.187 ben 7.503 (67,2%) hanno superato l'intervento senza pernottamento nelle stesse strutture.
Sono elementi preoccupanti che dimostrano come, dopo l'esito del referendum, siano stati nella pratica accantonati gli interventi di prevenzione tanto promessi.
La sensazione, purtroppo, è che esista una responsabilità di tutti nell'aver abbandonato ogni possibile forma di intervento migliorativo nella fase di applicazione della legge 194, come se il voto popolare sul referendum avesse ottenuto il risultato (... c'era, in verità, chi aveva previsto una conseguenza inevitabile di questo tipo in caso di mancata abrogazione) di dare via libera all'aborto totalmente liberalizzato. Esiste oggi lo spazio, viceversa, per una battaglia quotidiana per limitare il più possibile i danni dell'attuale normativa.
Si tratta inanzitutto di pretendere che tutti gli organi competenti applichino la parte preventiva della legge; il terzo comma dell'art. 1 recita: «Lo Stato, le regioni e gli Enti locali. nell'ambito delle proprie funzioni e competenze, promuovono e sviluppano i servizi socio-sanitari, nonché altre iniziative necessarie per evitare che l'aborto sia usato ai fini della limitazione delle nascite».
li successivo art. 2 indica i compiti dei consultori familiari di assistenza alla donna in stato di gravidanza; tra di essi si legge alla lettera d) che il consultorio deve contribuire «a far superare le cause che potrebbero indurre la donna all'interruzione della gravidanza» (è bene ricordare che questo comma fu inserito grazie ad un emendamento «migliorativo» della DC).
L'art. 5 indica dettagliatamente i compiti delle strutture sanitarie e dei medici di esaminare le «possibili soluzioni dei problemi proposti» dalla donna, nonché di «aiutarla a rimuovere le cause che la porterebbero all'interruzione della gravidanza, di metterla in grado di far valere i suoi diritti di lavoratrice e di madre, di promuovere ogni opportuno intervento atto a sostenere la donna, offrendole tutti gli aiuti necessari sia durante la gravidanza sia dopo il parto».
È possibile quindi intervenire ad ogni livello, sull'opinione pubblica o all'interno delle istituzioni per chi ha incarichi pubblici, per pretendere che, almeno, la legge sia rispettata nelle sue norme di prevenzione. I dati dimostrano che la concessione dell'aborto avviene automaticamente, in seguito alla semplice richiesta: spetta a noi intervenire per denunciare inadempienze, omissioni degli organismi pubblici rispetto a norme della 194.
Un secondo tipo di intervento potrebbe essere avviato chiedendo la disponibilità, alla luce dei non discutibili dati di applicazione della legge, delle forze che la approvarono e che poi la difesero, in occasione del referendum, permettendo successivi interventi migliorativi, ad apportare alcune modifiche al testo della legge stessa..Precisando o delimitando, ad esempio, la definizione incredibilmente vaga dell'art. 4, nella parte in cui indica, come motivi sufficienti per abortire, le «condizioni economiche, sociali o familiari» della donna. Più corretto e meno ipocrita sarebbe dire «sempre», se questa è la volontà, oppure specificare o, meglio, delimitare le motivazioni della richiesta.
Un secondo possibile intervento potrebbe essere quello di modificare la parte della legge ove non prevede la possibilità per il padre di intervenire per impedire l'aborto, nemmeno nel caso in cui sia coniugato con la donna. I tempi sono forse oggi maturati, rispetto a qualche anno fa, per affermare che non vuole dire togliere importanza al ruolo primario della madre, l'ammettere che anche il padre possa dire qualcosa sulla vita di suo figlio!
Cercare di migliorare l'applicazione e lo stesso testo della legge (così come già fece la DC in fase di approvazione; dopo aver preso atto dell'impossibilità di respingerla) non vuol dire abdicare alla propria posizione contraria all'aborto; vuol dire, viceversa, continuare ad operare in difesa della vita ogni giorno, mobilitando le coscienze e reagendo, anche nella situazione sorta dopo l'esito del referendum, di fronte al dramma di tante vite stroncate ed anche umiliate da una pericolosa logica di assenze, ritardi e rassegnazione.
Legge 22 maggio 1978 n. 194
Articolo 1
o Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio.
L'interruzione volontaria della gravidanza, di cui alla presente legge, non è mezzo per il controllo delle nascite.
Lo Stato, le regioni e gli enti locali, nell'ambito delle proprie funzioni e competenze, promuovono e sviluppano i servizi socio-sanitari, nonché altre iniziative necessarie per evitare che l'aborto sia usato ai fini della limitazione delle nascite.7
Articolo 2
I consultori familiari istituiti dalla legge 29 luglio 1975, n. 405, fermo restando quanto stabilito dalla stessa legge, assistono la donna in stato di gravidanza:
(omissis)
c) attuando direttamente o proponendo all'ente locale competente o alle strutture sociali operanti nel territorio speciali interventi, quando la gravidanza o la maternità creino problemi per risolvere i quali risultino inadeguati i normali interventi di cui alla lettera a);
d) contribuendo a far superare le cause che potrebbero indurre la donna all'interruzione della gravidanza.
I consultori sulla base di appositi regolamenti o convenzioni possono avvalersi, per i fini previsti dalla legge, della collaborazione volontaria di idonee formazioni sociali di base e di associazioni del volontariato, che possono anche aiutare la maternità difficile dopo la nascita.
(omissis)
Articolo 4
Per l'interruzione volontaria della gravidanza entro i primi novanta giorni, la donna che accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito, si rivolge ad un consultorio pubblico istituito ai sensi dell'articolo 2, lettera a), della legge 29 luglio 1975, n. 405, o a una struttura sociosanitaria a ciò abilitata dalla regione, o a un medico di sua fiducia.
Articolo 5
Il consultorio e la struttura socio-sanitaria, oltre a dover garantire i necessari accertamenti medici, hanno il compito in ogni caso, e specialmente quando la richiesta di interruzione della gravidanza sia motivata dall'incidenza delle condizioni economiche, o sociali, o familiari sulla salute della gestante, di esaminare con la donna e con il padre del concepito, ove la donna lo consenta, nel rispetto della dignità e della riservatezza della donna e della persona indicata come padre del concepito, le possibili soluzioni dei problemi proposti, di aiutarla a rimuovere le cause che la porterebbero alla interruzione della gravidanza, di metterla in grado di far valere i suoi diritti di lavoratrice e di madre, di promuovere ogni opportuno intervento atto a sostenere la donna, offrendole tutti gli aiuti necessari sia durante la gravidanza sia dopo il parto.
(omissis)






















